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MAMMA e Sydney approntarono il loro quartier generale in un vecchio magazzino dalla parte opposta della cittadina. Per pagare l’affitto mamma vendette un numero raro delle avventure dell’Uomo Ragno, e nel fine settimana dopo la firma del contratto, in macchina con Sally ci dirigemmo al vecchio deposito di papà. Avevamo appuntamento lì con il signor Ransom e un paio di altri ragazzi del corso di teatro. Insieme tirammo fuori tutti gli attrezzi, i costumi e le scenografie che erano stati utilizzati per la Tomba. Guardavo con meraviglia e al tempo stesso con disappunto quell’accozzaglia di roba che tornava alla luce pezzo dopo pezzo. Con meraviglia, perché vedevo finalmente quel pezzo misterioso della storia di famiglia, e con disappunto, perché sotto le impietose luci al neon risultava tutto dozzinale: sottili fogli di compensato dipinti in modo da somigliare a mattoni di pietra calcarea per la tomba di una mummia, maschere mostruose di cartapesta screpolata, costumi che erano stati cuciti apposta per sembrare sbrindellati e che sarebbero riusciti a far venire una crisi isterica a un protagonista lovecraftiano. Nelle mie fantasie avevo edificato grandi saloni da incubo, e la verità, così come la vecchia casa di famiglia, si rivelava una delusione. Mamma, Sydney ed Eunice, d’altra parte, sembravano a disagio e turbate.
Una volta che fu tutto caricato e fissato – il contenuto dell’intero box riempiva due pick-up – partimmo per il nuovo magazzino al confine della cittadina, in fondo a un lungo e stretto viale alberato. Sydney scese dalla macchina per aprire il cancello, poi ci fermammo in un gigantesco parcheggio di fronte a un edificio che ricordava una scatola rettangolare, smorto e grigio come un blocco di cemento armato. Mamma ci condusse al di là della porta a vetri all’ingresso, in uno spazio destinato alla reception, con una grande scrivania e un paio di sedie impolverate addossate alla parete, dopodiché attraversammo una serie di porte a doppio battente che portavano nel magazzino vero e proprio, un grande open space con il pavimento di cemento e le travi a vista, un paio di bagni in un angolo e, lungo il muro che fronteggiava il parcheggio, una fila di saracinesche tipo garage. I nostri passi sollevavano polvere, e l’aria calda e soffocante mi faceva pizzicare il naso.
Aprirono due saracinesche e portarono dentro la roba, lasciandola qua e là sul pavimento sgombro. Mentre i ragazzi del teatro bevevano bibite nel parcheggio, mamma, Eunice, Sydney e il signor Ransom ispezionarono tutto quanto, valutando che cosa potesse essere riutilizzato e di che cosa invece ci si potesse sbarazzare. Si resero conto in fretta che l’idea iniziale di mamma – ricostruire la vecchia attrazione, la Tomba, dando una rinfrescata alla vernice e aggiungendo una o due stanze – non avrebbe funzionato. Per prima cosa, gran parte del legname che papà aveva recuperato durante i lavori di costruzione era marcito o si era spezzato, il che lo rendeva inutilizzabile. Seconda cosa, ora che l’avevano disposta in uno spazio così ampio e illuminato, la roba sembrava poca e da due soldi.
«Invitare qualcuno a venire fino a qui per questo», fece notare il signor Ransom indicando il materiale di scena sparso a terra, «sarebbe una truffa.»
«Non deve assolutamente succedere», commentò mamma.
«In questo caso, allora, ci resta qualche settimana per inventare qualcosa di completamente nuovo», considerò lui. Si passò le mani tra i capelli.
«Non è detto che sia necessario», intervenne Sydney. Aprì l’onnipresente zainetto di Eunice e ne estrasse una cartelletta, da cui sfilò un malloppo di fogli. Li distribuì a tutti. Sul foglio che ricevetti io c’era disegnato un gruppo di adolescenti accalcati in una camera, che con una torcia facevano luce sotto il letto mentre qualcosa li scrutava dal suo nascondiglio nell’armadio. Mentre ci scambiavamo i bozzetti, mi accorsi che in ognuno era raffigurato lo stesso gruppo di ragazzi in una scena diversa. In uno si aggiravano in un obitorio, e alle loro spalle, seduto in un loculo aperto, c’era un cadavere ancora avvolto in un lenzuolo. In un altro, il gruppo attraversava una pozza saltellando di pietra in pietra, e una mano palmata ricoperta di scaglie emergeva dalle acque per afferrare la caviglia di una povera ragazza. In un altro ancora – lo studio di un ricco signore con le pareti costellate di teste d’animali – c’era la stessa ragazza catturata dal mostro che veniva trascinata via mentre gli altri si abbracciavano terrorizzati. In ogni disegno c’era una sola torcia per tutti i ragazzi.
«Li hai fatti tu?» domandò mamma.
Sydney annuì.
«Non avevo idea che sapessi disegnare.»
«Com’è che c’è sempre una sola torcia?» chiesi io.
«L’idea è proprio questa», rispose Sydney, lieta di cambiare argomento. «Scegliamo qualche classica ambientazione horror fra le più semplici – e queste riusciremmo a tirarle su in poche settimane – e aggiungiamo l’ingrediente dell’inseguimento. Così, oltre ai soliti brividi, ci sarebbe un mostro a darti la caccia, e tu che cerchi di fuggire prima che ti scovi. Faremo entrare le persone quattro alla volta, e l’unica fonte d’illuminazione sarà una torcia, una sola. Magari ogni tanto infiltreremo in un gruppo anche qualcuno di noi, e sarà quella la persona che il mostro acciufferà. Costerebbe poco, e non saremmo costretti a reinventarci tutto da zero in un paio di settimane.»
Restituimmo i disegni a Sydney, tranne la mamma. Il suo volto sembrava teso, come se la pelle fosse stata tirata. «Ma come ti sono venuti fuori?»
Sydney armeggiava con i fogli. «Il signor Ransom dice sempre che la necessità aguzza l’ingegno, giusto? Ho solo provato a pensare a quale sarebbe stata la cosa più semplice.» Tese la mano per avere indietro il foglio.
«Questi disegni sono buoni», osservò la mamma. «Più che buoni.» Aveva un tono infelice e restituì il bozzetto a Sydney con evidente riluttanza. «È davvero questo che vuoi?»
Seguì un momento di silenzio, rotto solo da un colpo di tosse del signor Ransom. «Gesù, Sydney. Non mi piacerebbe per niente essere te quando la notte vado a dormire.» Con un mezzo sorriso, diede un’occhiata a tutti quanti. Il sorriso svanì quando notò che nessuno stava ridendo.
«A proposito», intervenne Eunice, «è il caso che Noah sia presente durante questa chiacchierata?»
«Cosa?» chiesi io. «Ma perché, cosa ho fatto?»
«Niente», rispose mia sorella. «Ma non voglio che poi tu abbia incubi.»
Mamma indicò un punto dietro di noi. «Eunice, porta tuo fratello in ufficio finché non abbiamo finito di parlare.»
«Ma io voglio dare una mano», cercai di farmi valere.
«Tu adesso vai a giocare con tua sorella.»
«Lo porto di là, ma poi torno subito», disse Eunice. «Di questa cosa faccio parte anch’io.»
«E va bene», concluse mamma, dopo aver riflettuto per un momento. «Non toccate nulla!» gridò mentre Eunice mi trascinava via.