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QUANDO rientrai a casa, mamma era già a letto. Salii in camera mia, e non appena fui dentro agguantai la pietra nera che tenevo appesa al collo. Chiusi gli occhi, mi concentrai e quando li riaprii mi trovavo nella radura in mezzo alla foresta scura. L’aria era densa e fetida, gli alberi neri e fitti come pennellate in un dipinto impressionista.

La porta si aprì prima ancora che potessi bussare, e lei era lì, con la veste dischiusa che lasciava intravedere una striscia di carne che partiva dall’incavo della gola e arrivava al ciuffo rosso del monte di Venere.

«Ecco Leannan Si», mi disse.

Leannan Si. Pronunciato Liannon Si. Un nomignolo, un gioco fra di noi, preso a prestito da un libro di fiabe celtiche: Leannan Si era una splendida donna fatata che sceglieva un mortale come amante. Avevo proposto quel nome per poterla chiamare in qualche modo, per non pensare più a lei come al «mostro», alla «creatura», o all’«Amico», per ridefinire la nostra relazione fuori dai confini di Danny and the Dinosaur o di E.T.

Leannan Si, per far sembrare tutto meno strano mentre la trasportavo in braccio giù per le scale fino al letto. Leannan Si, mentre la posavo sulle coperte, mi inginocchiavo e le allargavo le gambe. Leannan Si, scandito dalla mia lingua mentre lei mi tirava i capelli. Leannan Si, con le sue cosce strette intorno alla mia testa e il mio naso schiacciato contro di lei, mentre il suo corpo di colpo si bloccava e lei urlava. Leannan Si, mentre senza fiato salivo sul letto, mi sbarazzavo dei pantaloni e scivolavo dentro di lei. Leannan Si, i suoi denti contro il mio orecchio, le sue caviglie agganciate ai miei lombi. Leannan Si, che mi stringeva e sussurrava «Bravo, bravo ragazzo» mentre in un caleidoscopio dorato mi frantumavo in decine di minuscole supernove. Leannan Si.

Eravamo distesi, aggrovigliati, sudavamo nell’aria umida. Tre anni così. Erano tre anni che mi recavo in quella casetta in una piccola radura di un altro mondo, tre anni che passavo parecchio tempo con lei in quel letto. Lo consideravo strano? Non è che smaniassi all’idea di annunciare la nostra relazione a tutti quanti, e a quel punto, un anno e rotti dopo aver finito le superiori, cominciavo a chiedermi se una situazione simile fosse praticabile sul lungo periodo, ma non lo facevo spesso.

Per la maggior parte del tempo me la godevo, e la mia passione per Leannan continuava a essere bruciante, perdurando come mai all’umana passione sembrerebbe capitare.

Abbandonai la testa sul suo ventre candido e osservai la tela sul cavalletto, che ritraeva due figure sul pendio di una collina, sotto un cielo in cui erano mischiati giallo, granata, blu e nero. Una luna crescente e una stella bislunga imperfetta incombevano nel cielo, e una seconda stella era distesa al suolo. Non avrei saputo dire che cosa volessero rappresentare le due figure, quella a destra sembrava un animale, curvo e avvolto in qualcosa di giallo, con la testa grigio-viola a forma di apostrofo. Aveva l’occhio di un alieno, che dotato di palpebra solo in basso fissava il cielo senza tradire nessuna espressione. La figura a sinistra richiamava un fiore con un ampio fusto e due steli che culminavano in due diversi boccioli: uno aveva le ali, l’altro era una vulva purpurea. Dietro alla vulva, quasi mimetizzata nel dipinto, c’era la sagoma di una donna, con i fianchi che arrivavano fino al seno tondeggiante. Mi venne in mente la Miranda che lavorava all’Inferno. Doveva essere altrettanto formosa.

«Come ti sembra?» mi chiese Leannan, cogliendomi alla sprovvista.

Mi tirai su a sedere, fingendo di cercare una migliore prospettiva da cui osservare. «Non sono certo di capirlo.»

Si tirò su anche lei, e mi appoggiò il mento sulla spalla. «Non è un codice da decifrare. È un dipinto. Basta dire a cosa fa pensare e come fa sentire.»

«E tu cosa pensi e come ti senti guardandolo?» le chiesi.

Non rispose subito, sembrò concentrarsi. «Penso a te.» Non suonò come una bugia, ma non era del tutto la verità. Era una via di mezzo, come spesso avevo avuto modo di notare. La prima volta che l’avevo sentita parlare avevo dato per assodato che i misteri che la riguardavano si sarebbero diradati, ma non ero più vicino al cuore della faccenda in quel periodo di quanto non lo fossi nel 1999. Non sapevo ancora come si chiamasse davvero, quanti anni avesse, e tantomeno che cosa fosse. Non sapevo dove si trovasse quella casa, o come con la pietra che avevo al collo riuscissi a superare la distanza che separava il mio letto dalla porta di Leannan.

Accorgendosi che la conversazione si stava spostando su un terreno a lei sgradito, si alzò e si avvicinò a una credenza.

«Hai fame? Ho qualcosa da mangiare per te.» Recuperò una ciotola di mele e me la mise davanti.

Ne addentati una e mi resi conto di avere appetito, anzi, che morivo di fame. Ne divorai due mentre lei mi guardava. Quando ebbi finito, riportò nella credenza i torsoli e le mele avanzate. Non so cosa ci facesse con quegli scarti. Li nascondeva sempre nella credenza e la volta dopo, quanto tornavo, non c’erano più. Un ennesimo mistero da aggiungere alla lista.

Mentre riponeva le mele, un rombo sordo risuonò in lontananza. Leannan si irrigidì. Raccattò la sua veste da terra e se la richiuse intorno alla vita.

«Cosa…» iniziai a dire, ma lei schioccò le dita per zittirmi. Il rumore si fece più intenso, più profondo. Il terreno cominciò a vibrare, e subito dopo la casa iniziò a tremare. Il cavalletto si scuoteva tutto, il dipinto si ribaltò in avanti. L’interno del mio cranio si mise a ronzare. Leannan balzò sul letto e mi avvolse con braccia e gambe. Era calda, come se avesse la febbre, braccia e gambe sembravano cavi di metallo incandescenti. La vibrazione proseguì costante ed esasperante fino a che non fece la sua comparsa un nuovo suono, quattro note lente, come un canto pigro e sonnecchiante di balena. Il rombò si attenuò e poi si interruppe. Leannan mi toccò le guance e lasciò che staccassi la mia testa dal suo collo.

«Stai bene?» domandò.

«Sì, grazie.»

Mi voltò la faccia da una parte e dall’altra, scrutò il mio occhio buono. «Sicuro? Non è… cambiato niente? Non hai niente di rotto?»

«No, sto bene.»

Mi lasciò andare e ci mettemmo a sedere. Era come se la casa fosse stata ribaltata e poi agitata. Simili a testimoni rimasti a bocca aperta, gli armadietti erano spalancati, e il pavimento era sepolto sotto un insieme eterogeneo di stoviglie rotte, stracci, radici essiccate, blocchi d’argilla, fogli e matite. Il dipinto era accanto al letto, intatto ma ammaccato da una parte.

«Merda», feci.

Lei sospirò ma mi fece segno di non preoccuparmi. «Non è un problema.»

«Permettimi almeno di aiutarti a rimettere in ordine.» Feci per alzarmi e lei mi afferrò per un braccio.

«Non ho bisogno d’aiuto, ma grazie per avermelo offerto.» Restò seduta, con la mano stretta come una morsa sul mio braccio. Sembrava sconvolta. Spaventata.

«Ma cos’è successo?» indagai.

«Non lo so.» Nel suo tono di voce non colsi una verità parziale, stavolta. Colsi invece una menzogna bella e buona.

La casa degli incubi
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