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ERA un horror, con protagonista quella ragazza che recitava in Peyton Place. Parlava di una giovane coppia di sposi che, trasferitisi in un appartamento, vengono adescati dagli anziani e cortesi satanisti della porta accanto. Margaret comprò i biglietti, Harry pagò bibite e popcorn. Durante la proiezione, le loro dita si toccarono un paio di volte nel secchiello dei popcorn, ma Harry non provò né a stringerle la mano né a metterle un braccio attorno alle spalle. Assorto, teneva gli occhi incollati allo schermo.
Il film non era di quelli che terrorizzano facendoti saltare sulla sedia, inquietava a un livello più profondo e viscerale. Margaret finì per immedesimarsi con il personaggio del titolo: Rosemary veniva maltrattata e isolata dal marito e dai vicini, il diavolo la violentava, e nel finale non le restava che fare da madre alla progenie derivata da quell’unione sacrilega. Mentre Rosemary dondolava il suo bambino nella culla nera e iniziavano a scorrere i titoli di coda, Margaret restò seduta, era sconvolta. I film potevano concludersi anche così? Con il diavolo che trionfa e l’eroina sconfitta?
L’incantesimo durò fino a quando Harry non ruppe il silenzio nel parcheggio. «Se ci muoviamo, sarai a casa per le dieci e mezzo.»
La ragazza lasciò che lui aprisse la portiera e studiò la sua faccia. Aveva un lungo naso che incombeva su una bocca piccola e su un mento aguzzo, e occhi castani sormontati da folte sopracciglia scure. Se l’avesse visto dall’altra parte di una stanza a una festa non l’avrebbe notato, ma la sua faccia in effetti non era spiacevole e faceva simpatia. Sentì che la foschia in cui l’aveva precipitata la pellicola si dissolveva.
«Non hai fame?» gli domandò. «Io sto morendo.»
«Diciamo che non mi dispiacerebbe mangiare.»
La portò in un McDonald’s a qualche isolato di distanza, probabilmente l’unico locale ancora aperto della cittadina. Mentre scendevano dalla macchina, Margaret afferrò il sacchetto della libreria che era appoggiato in mezzo a loro. «Voglio capire per cosa ho sacrificato tutte queste ore di studio stasera.»
«Sarebbe meglio che aspettassi di aver finito di mangiare, prima di tuffartici», disse Harry. «È abbastanza truculento.»
Le chiese di andare a cercare un posto dove sedersi mentre lui ordinava. Margaret lo scelse accanto alla vetrina, tirò fuori il libro dal sacchetto e lo appoggiò sul tavolo: Visioni di Cthulhu. Illustrazioni ispirate dall’opera di H.P. Lovecraft.
In copertina c’era disegnata un’enorme, orrenda bestia dalle sembianze vagamente umane, con braccia e gambe tozze, verdi e muscolose, e artigli che spuntavano direttamente da mani e piedi invece che dalle dita. Aveva la testa di un orrido calamaro, bulboso, dotato di molti occhi, e terminava in un groviglio di tentacoli che ricadevano sul petto e sul ventre rigonfio e smisurato della creatura. Un paio di ali appuntite, ma che in un certo senso sembravano fragili, spuntavano dalla schiena. Margaret si chiese come un mostro obeso di quello stampo potesse librarsi in volo.
«Spero che non ti abbia fatto passare la voglia di mangiare questa roba.» Harry era in piedi accanto a lei con un vassoio di hamburger, patatine fritte e bibite.
Margaret indicò la copertina del libro. «È questo Cthulhu?» Lo pronunciò chitulu, e dal sorrisetto di Harry si rese conto che non era corretto.
«È come lo ha interpretato un artista, sì», le rispose lui. «E si pronuncia catulu.»
Margaret tirò il libro verso di sé per permettere a Harry di posare il cibo. «Non è che faccia paura. Più che altro è rivoltante, una specie di versione mostruosa di un Buddha grasso, di quelli che si vedono nei ristoranti cinesi.»
Harry si mise a ridere e inclinò un po’ la testa per guardare meglio l’immagine. «È vero, un po’ lo ricorda.»
«Ma dovrebbe fare paura?»
Harry si sedette di fronte a lei. «Nel racconto ci riesce. Ma forse è una di quelle cose che non puoi riprodurre senza trascurare qualche elemento essenziale. È un po’ come se funzionasse solo quando lo si immagina.»
Margaret aprì il libro a una pagina a caso e trovò il disegno di un altro mostro, più indefinito, più amorfo, un unico ammasso di carne con quattro occhi neri e una bocca luccicante che ricordava una vulva in cui se ne stavano allineate zanne appuntite, e sul suo dorso ondeggiava un’accozzaglia di tentacoli. Fluttuava tra le stelle, e sullo sfondo appariva minuscolo un pianetino.
«E questo tipo chi è?»
«Azathoth.» Harry prese un hamburger dal vassoio e lo scartò.
Margaret chiuse il libro con una certa riluttanza e lo appoggiò sulla sedia accanto a sé. Pescò una patatina da uno dei cartoccetti bisunti. «Quindi ogni immagine del libro si basa su una storia di questo Lovecraft.»
Masticando, Harry annuì.
«È un librone», osservò lei. «Deve essersi inventato parecchi mostri.»
Harry si coprì la bocca con una mano e rispose malgrado avesse la bocca piena. «Un mucchio, sì. E sono tutti collegati, fra l’altro.»
«In che senso? È come se fossero tutti imparentati, come una famiglia?»
Lui inghiottì il boccone e bevve un sorso della sua bibita. «Alcuni lo sono. Ma quello che intendevo è che condividono tutti uno stesso mondo, è lì che esistono. Un po’ come in quei film in cui Dracula incontra la creatura di Frankenstein, hai presente?»
Margaret fece spallucce. «Ho visto un film in cui Gianni e Pinotto incontrano l’uomo lupo.»
«L’idea di base è quella. Sono tutti lì, coesistono nello stesso spazio, respirano la stessa aria. Nello stesso modo in cui molti libri di Faulkner si svolgono nella stessa contea.»
«Hai mai espresso questo paragone durante un corso di letteratura?»
«Per il momento no. Ho imparato la lezione.»
«Secondo te ai professori non interessa?»
Harry stava per dire qualcosa, ma si bloccò e si infilò una patatina in bocca.