CAPITOLO XXIII
Il rientro in albergo si svolse nel più assoluto silenzio.
Un nuovo evento era stabilito per il pomeriggio successivo.
Cenarono in silenzio.
Poi si ritirarono ognuno nella propria stanza.
Larsen chiamò Rubens in tarda serata.
«Alla buon ora! – esordì l’agente – per fortuna c’è Myla che mi tiene aggiornato, altrimenti per quanto ne so io potreste anche essere stati rapiti dagli alieni! potresti anche degnarti ogni tanto di farti vivo».
«Cominciamo con le prediche? – sbottò Larsen – non basta miss perfezione a farmi le scenate?».
«Se ti ha fatto una scenata per le porcherie che prendi e l’alcol che ingurgiti ha fatto bene! anzi è stata fin troppo gentile, doveva prenderti a calci».
«Perché non mi hai detto che è malata?».
«Da quando in qua ti preoccupi della sorte di qualcuno?».
«Potevi anche dirmelo che sta male».
«E cosa sarebbe cambiato? Myla è una persona molto riservata. Se qualcuno doveva parlarti della sua malattia poteva essere solamente lei».
«Prima di partire avrei avuto il diritto di sapere cosa stava succedendo».
«Per quale motivo? così avevi una scusante in più per non partire? non sei mai stata una persona particolarmente propensa ad assumersi responsabilità».
«Se dovesse succederle qualcosa mentre siamo in viaggio?».
«Questo ti preoccupa? temi di rimanere coinvolto in qualche problema che non sapresti affrontare?».
Larsen chiuse la comunicazione con rabbia.
Non era il timore di affrontare i problemi che lo preoccupava.
Quando Myla aprì la porta della stanza si trovò di fronte Larsen con un’espressione piuttosto alterata.
«Non dovevi tacere la tua malattia – strillò – io avevo il diritto di sapere come stavano le cose prima di partire!».
«No, non mi disturbi – rispose lei sarcasticamente – entra pure!».
«Cosa è successo?» chiese Myla dopo averlo fatto entrare e aver richiuso la porta.
«Io avevo il diritto di sapere che tu eri malata – continuò lui – di saperlo prima di affrontare questo viaggio».
«Guarda che non ti devi preoccupare. Io e Lyza abbiamo predisposto tutto, se dovesse succedermi qualcosa lei sa esattamente cosa deve fare, non ti ritroveresti in problemi che non saresti in grado di affrontare».
«Il mio non è timore di affrontare problemi».
Lei lo guardò con aria interrogativa: «Non capisco cosa ti stia succedendo, perché sei così alterato. Non sarai costretto ad assumerti alcuna responsabilità, in nessun caso».
L’uomo la guardò.
Lei proprio non capiva.
Non era il timore di affrontare problemi o responsabilità a infastidirlo.
Non era la paura che capitasse qualcosa di irreparabile.
La donna lo osservò ancora con un’aria interrogativa.
«Non è la paura delle responsabilità – disse lui infine senza staccare gli occhi dal volto di lei – è che se lo avessi saputo».
Si fermò.
«Se lo avessi saputo?» lo imbeccò Myla.
«Non avrei sprecato tutto quel tempo a litigare con te!» sentenziò lui infine.
Prese il volto di lei tra le mani e la baciò sulle labbra.
Myla si divincolò e lo colpì con un violento schiaffo.
Larsen indietreggiò e dopo pochi istanti lasciò la stanza.
Myla rimase sola.
Era ormai notte fonda quando la donna bussò alla porta di Larsen.
Quando Larsen la vide rimase stupito.
Aveva un bicchiere pieno in mano e senza parlare le prese un braccio invitandola a entrare.
«Mi dispiace» cominciò Myla.
L’uomo si toccò istintivamente il viso ricordando lo schiaffo.
«Sono io che devo chiederti scusa – disse poi – non avrei dovuto aggredirti in quel modo e prendermi certe libertà – si sedette sul divano – è che la notizia della tua malattia mi ha scioccato, ho avuto paura – fece una pausa – probabilmente è l’idea di poterti perdere – bevve un lungo sorso dal bicchiere – averti a fianco è come uno stimolo per cercare di essere almeno un po’ migliore. Se guardo la mia vita è una vera schifezza, invece quando ci sei tu la cose sono diverse, è come se qualcosa mi costringesse a riflettere prima di agire. Probabilmente riesci a risvegliare quella parte di me che non ricordavo nemmeno più di avere».
Finì il liquido nel bicchiere in un unico sorso.
Myla ascoltò in silenzio.
Anche lei aveva paura. Lei sapeva quello che c’era in lui, quello che c’era dietro l’apparenza, lo aveva sempre visto, fin dal primo momento in cui si erano incontrati. Non aveva potuto impedirsi di innamorarsi di lui, ma sapeva che la situazione era molto più complicata, che tutto rischiava di fuggire dal suo controllo. Sapeva di non avere molto tempo davanti e troppe sofferenze alle spalle.
Aveva imparato a controllare ogni cosa ma i sentimenti no, quelli non era mai riuscita a dominarli e proprio per i sentimenti la sua anima si trovava indebolita dalle ferite profonde.
Si avvicinò a lui e le sue labbra cercarono di nuovo quelle dell’uomo.
Si fusero in un abbraccio appassionato che sciolse ogni tensione.
Ben presto i loro corpi si unirono lasciandosi andare a un piacere che permise alle loro anime di incontrarsi e legarsi indissolubilmente.
Thornton Larsen si alzò di scatto a sedere sul letto.
Un incubo, che non rammentava più, lo aveva svegliato.
Era madido di sudore e il respiro era affannoso.
Myla sdraiata accanto a lui si mosse leggermente: «Che succede?» chiese con un filo di voce.
«Nulla – rispose lui controllando il respiro – solo un incubo, dormi tranquilla».
Si sdraiò nuovamente e appoggiò il suo corpo a quello di lei affondando il viso nei capelli della donna.
Presto il respiro tornò regolare e scivolò in un sonno privo di sogni.