Lena

Ansimavo. Ho inspirato più aria che potevo e gli ho rifilato una gomitata tra le costole. Lui si è divincolato, ma mi teneva ancora ferma. Il suo alito caldo sul viso mi faceva venire il vomito.

«Lei era troppo per te» continuavo a ripetere. «Era troppo per te, troppo perché tu la toccassi, troppo perché tu te la scopassi… Pezzo di merda, lei è morta per causa tua! Non so come fai, come fai ad alzarti ogni mattina, come fai ad andare al lavoro, a guardare sua madre negli occhi…»

Lui mi ha graffiato il collo con il chiodo, ho chiuso gli occhi e aspettato. «Tu non hai idea di quanto ho sofferto» ha detto. «Non ne hai idea.» Poi mi ha presa per i capelli, li ha tirati forte e di colpo ha mollato la presa, così ho sbattuto la testa contro il tavolo, e non ho potuto evitarlo. Ho iniziato a piangere.

Mark mi ha lasciata e si è alzato. Ha indietreggiato di alcuni passi e ha fatto il giro del tavolo, in modo da vedermi meglio. Stava lì a guardarmi, e io desideravo più di ogni altra cosa che la terra si spalancasse e mi inghiottisse. Qualsiasi cosa era meglio che farmi vedere piangere da lui. Mi sono tirata su. Frignavo come una bambina che ha perso il ciuccio e lui ha iniziato a dire: «Smettila! Smettila, Lena. Non piangere così. Non piangere». Era strano, perché anche lui piangeva, e continuava a ripetere: «Smettila di piangere, Lena, smettila di piangere».

Ho smesso. Ci guardavamo, entrambi avevamo il viso sporco di lacrime e moccio, lui aveva ancora il chiodo in mano e ha detto: «Non l’ho fatto io. Quello che tu credi. Non ho torto un capello a tua madre. Ci ho pensato. Ho pensato di farle ogni genere di cose, ma non l’ho fatto».

«Invece sì che l’hai fatto» ho ribattuto. «Hai il suo braccialetto, tu…»

«Lei è venuta da me» mi ha interrotta. «Dopo la morte di Katie. Ha detto che dovevo raccontare la verità. Per il bene di Louise!» Si è messo a ridere. «Come se gliene fregasse qualcosa. Come se gliene fregasse di qualcuno. Lo so perché voleva che dicessi tutto. Si sentiva in colpa per aver messo strane idee in testa a Katie, si sentiva responsabile e voleva che qualcun altro si prendesse la colpa. Quella stronza egoista voleva scaricare tutto su di me.» Lo guardavo rigirarsi il chiodo tra le mani e immaginavo di saltargli addosso, prenderlo e infilarglielo in un occhio. Avevo la bocca secca. Mi sono leccata le labbra e sapevano di sale.

Lui continuava a parlare. «Le ho chiesto di darmi un po’ di tempo. Le ho assicurato che avrei parlato con Louise, dovevo soltanto schiarirmi le idee su cosa dirle, e come spiegarglielo. L’ho convinta.» Ha guardato il chiodo nelle sue mani, poi di nuovo me. «Vedi, Lena, io non ho avuto bisogno di farle nulla. Il modo per trattare le donne come lei, come tua madre, non è la violenza. Basta colpirle nella loro vanità. Ne ho conosciute altre come lei, in passato, donne mature, che hanno superato i trentacinque, e sentono che la bellezza le sta abbandonando. Hanno bisogno di sentirsi volute, desiderate. Puoi sentire l’odore della disperazione a miglia di distanza. Sapevo quello che dovevo fare, anche se il pensiero mi faceva accapponare la pelle. Dovevo portarla dalla mia parte. Ammaliarla. Sedurla.» Ha fatto una pausa e si è passato il dorso della mano sulla bocca. «Ho pensato che avrei potuto scattarle qualche fotografia. Comprometterla. Minacciare di umiliarla. Ho pensato che forse allora mi avrebbe lasciato in pace, mi avrebbe lasciato al mio dolore.» Ha sollevato il mento. «Questo era il mio piano. Poi però è arrivata Helen Townsend, e io non ho dovuto fare nulla.»

Ha gettato il chiodo di lato. L’ho visto rimbalzare sull’erba e finire contro il muro.

«Di cosa stai parlando?» ho chiesto. «Cosa vuoi dire?»

«Te lo dirò. Lo farò. Ma…» Ha sospirato. «Lena, tu sai che io non voglio farti del male. Non ho mai voluto farti del male. Ho dovuto colpirti quando mi hai aggredito, a casa mia, non mi hai lasciato altra scelta. Ma non lo farò mai più. A meno che tu non mi costringa. Capito?» Non ho replicato. «Ecco cosa voglio che tu faccia. Devi tornare a Beckford, dire alla polizia che sei fuggita, che hai fatto l’autostop, quello che vuoi. Non mi importa cosa racconterai, però devi dire loro che hai mentito sul mio conto. Che ti sei inventata tutto. Confesserai di esserti inventata tutto perché eri gelosa, perché eri fuori di te dal dolore, o forse soltanto perché sei una stronzetta maligna che ama stare al centro dell’attenzione… Non mi interessa quello che dirai. Okay? Purché tu dica loro che hai mentito.»

Gli ho lanciato un’occhiata. «E perché dovrei farlo? Sul serio, per quale cazzo di motivo? E comunque, è troppo tardi. È stato Josh a parlare, non sono stata io a…»

«E allora di’ loro che Josh ha mentito. Che sei stata tu a costringerlo. E devi convincere anche Josh a ritrattare la sua storia, so che puoi farlo. E credo proprio che lo farai, perché se lo farai non solo non ti farò alcun male, ma…» si è infilato la mano nella tasca dei jeans e ha tirato fuori il braccialetto «ti dirò quello che devi sapere. Tu fai questa cosa per me, e io ti dirò quello che so.»

Mi sono avvicinata al muro. Gli davo le spalle, e stavo tremando: sapevo che avrebbe potuto aggredirmi, che, se avesse voluto, avrebbe potuto sopraffarmi. Ma non pensavo che volesse farlo. Era evidente. Lui voleva scappare. Ho toccato il chiodo con la punta della scarpa. La sola vera domanda era: glielo avrei permesso?

Mi sono girata per affrontarlo, con la schiena contro il muro. Ho ripensato a tutti gli errori stupidi che avevo commesso fino ad allora. Non ne avrei fatto un altro. Ho finto di avere paura, di essergli grata. «Me lo prometti?… Mi farai tornare a Beckford? Ti prego, Mark… me lo prometti?» Ho finto di essere sollevata, ho finto di essere disperata, ho finto di essere pentita. Lui ci è cascato.

Si è seduto e ha appoggiato il braccialetto davanti a sé, in mezzo al tavolo.

«Questo l’ho trovato» ha detto, senza giri di parole, e a me è scappato da ridere.

«L’hai trovato? Tipo nel fiume, dove la polizia ha cercato per giorni? Non mi prendere in giro.»

È rimasto seduto tranquillo per un secondo, poi mi ha guardata come se mi odiasse più di chiunque altro al mondo. Il che, probabilmente, era vero. «Mi vuoi ascoltare o no?»

«Ti ascolto.»

«Sono andato nell’ufficio di Helen Townsend» ha ripreso. «Stavo cercando…» Sembrava a disagio. «Qualcosa di suo. Di Katie. Volevo… qualcosa. Qualcosa da tenere con me…»

Tentava di farmi sentire dispiaciuta per lui.

«E quindi?» Non funzionava.

«Cercavo la chiave dello schedario. Ho guardato nel cassetto della scrivania di Helen e l’ho trovato.»

«Hai trovato il braccialetto di mia madre nella scrivania della signora Townsend?»

Lui ha annuito. «Non chiedermi come ha fatto a finire lì dentro. Ma se lei ce l’aveva addosso quel giorno, allora…»

«La signora Townsend…» ho ripetuto, stupidamente.

«Lo so che non ha alcun senso» ha detto.

Invece ce l’aveva. O, quantomeno, poteva averlo. Non l’avrei mai creduta capace. È una vecchia stronza bacchettona, è vero, ma non avrei mai immaginato che fosse capace di fare del male a qualcuno, fisicamente.

Mark mi fissava. «Mi sta sfuggendo qualcosa, vero? Cosa aveva fatto? A Helen… Cosa le aveva fatto tua madre?»

Non ho risposto. Ho distolto lo sguardo da lui. Una nuvola ha coperto il sole, e ho avuto freddo, come quel mattino a casa sua, freddo dentro e fuori, freddo dappertutto. Sono andata verso il tavolo e ho preso il braccialetto, me lo sono fatto scivolare sulle dita e l’ho messo al polso.

«Bene. Adesso te l’ho detto. Ti ho aiutata, vero? Ora tocca a te.»

Toccava a me. Sono tornata verso il muro, mi sono inginocchiata e ho preso il chiodo. Mi sono girata per affrontarlo.

«Lena…» Dal modo in cui ha pronunciato il mio nome, dal suo respiro, rapido e veloce, ho capito che era spaventato. «Io ti ho aiutata. Io…»

«Tu pensi che Katie si sia annegata perché temeva che io l’avrei tradita, o perché temeva che mia madre l’avrebbe tradita, che qualcuno potesse tradirvi entrambi e tutti lo avrebbero saputo, e lei si sarebbe trovata in un mare di guai, e i suoi genitori ne sarebbero stati distrutti. Ma sai che non è così, vero?» Ha abbassato la testa, le mani afferravano il bordo del tavolo. «Tu sai che non è questo il motivo. Il motivo è che lei aveva paura di quello che poteva capitare a te.» Continuava a fissare il tavolo, non si era mosso. «Lo ha fatto per te. Si è uccisa per te. E tu cosa hai fatto per lei?» Le sue spalle hanno iniziato a tremare. «Che cosa hai fatto? Hai mentito, l’hai rinnegata completamente, come se lei non contasse niente per te, come se fosse un’estranea. Non credi che meritasse di meglio?»

Con il chiodo in mano, mi sono avvicinata al tavolo. Lo sentivo mormorare, mormorare e dire che gli dispiaceva. «Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace» ripeteva. «Perdonami. Che Dio mi perdoni.»

«Ormai è un po’ tardi» ho detto. «Non credi?»

Dentro l'acqua
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