Patrick
Il cottage non era più di proprietà della famiglia Ward da quasi un secolo, ma non era neppure di Patrick. A dire il vero, sembrava non essere più di nessuno. Patrick immaginava che ormai appartenesse alla municipalità, e comunque nessuno l’aveva mai rivendicato. A ogni modo, lui aveva le chiavi, e quindi si comportava come se il cottage fosse suo: pagava le irrisorie bollette dell’elettricità e dell’acqua e qualche anno prima aveva sistemato la serratura, dopo che alcuni teppisti avevano sfondato la vecchia porta. Adesso soltanto lui e suo figlio Sean avevano le chiavi, e Patrick si occupava di tenere il posto pulito e in ordine.
A volte, però, trovava la porta aperta anche se, a dirla tutta, ultimamente non era più così sicuro di come l’aveva lasciata la volta precedente. Negli ultimi anni aveva iniziato a sperimentare, sempre più di frequente, momenti di confusione che lo lasciavano terrorizzato, incapace di reagire. Gli capitava di dimenticare nomi e parole, e doveva impegnarsi molto per recuperarli. I vecchi ricordi, invece, tornavano in superficie a violare la pace dei suoi pensieri, vividi, colorati e persino rumorosi. Le ombre danzavano ai margini del suo campo visivo.
Ogni giorno risaliva il fiume. Si alzava presto e camminava per cinque chilometri fino al cottage, e pescava per un’ora o due. Negli ultimi tempi, però, aveva diminuito le passeggiate, non perché fosse stanco o gli facessero male le gambe, ma perché non ne aveva voglia. Le cose che gli erano sempre piaciute ora non gli davano più la stessa soddisfazione di un tempo. Ma era intenzionato a tenere la situazione sotto controllo e, quando si sentiva in forma, riusciva ad andare e tornare a piedi in un paio d’ore. Quel mattino, però, si era alzato con un dolore persistente al polpaccio sinistro e aveva deciso di prendere la macchina.
Si era trascinato fuori dal letto, aveva fatto la doccia, si era vestito e poi si era ricordato, con un po’ di fastidio, che la sua automobile era ancora in carrozzeria: si era dimenticato di andare a prenderla il pomeriggio precedente. Brontolando a bassa voce, aveva attraversato il cortile zoppicando per chiedere alla nuora se poteva prestargli la sua.
Helen, la moglie di Sean, era in cucina e stava lavando il pavimento. Era la preside della scuola; durante l’anno scolastico ci teneva ad arrivare in ufficio prima delle sette e mezza, ma anche nelle vacanze estive non era certo il tipo da rimanere a letto a oziare.
«Ti sei alzata presto» esclamò Patrick, entrando in cucina. Lei gli sorrise; le rughe intorno agli occhi e i primi capelli grigi la facevano sembrare più vecchia dei suoi trentasei anni. Più vecchia e più stanca, pensò Patrick.
«Non riuscivo a dormire» replicò lei.
«Mi dispiace, tesoro.»
Lei si strinse nelle spalle. «Che ci vuoi fare?» Rimise il mocio nel secchio e lo spostò verso la parete. «Bevi un caffè, papà?» Adesso lo chiamava così. All’inizio era stato strano, ma ora gli piaceva sentire l’affetto nella sua voce: gli scaldava il cuore. Le disse che ne avrebbe preso un po’ in un thermos e avrebbe fatto un salto al fiume. «Non andrai allo Stagno, vero? Se ci penso…»
Lui scosse la testa. «No, certo che no.» Fece una pausa. «E Sean? Come l’ha presa?»
Lei scrollò le spalle. «Lo sai, lui non parla molto.»
Sean e Helen abitavano nella casa dove Patrick aveva vissuto dopo il matrimonio, e dove era rimasto a vivere con il figlio dopo la morte della moglie. Molti anni più tardi, quando Sean si era sposato, avevano ristrutturato il vecchio fienile vicino alla casa e Patrick si era trasferito lì. Sean aveva protestato un po’, dicendo che semmai erano lui e Helen a dover traslocare, ma il padre non aveva voluto sentire ragioni. Desiderava che rimanessero lì, in segno di continuità col passato, e gli piaceva l’idea che quella fosse la loro piccola comunità, parte di Beckford ma separata al tempo stesso.
Quando arrivò al cottage dei Ward, Patrick capì subito che qualcuno era stato lì: le tende erano tirate e la porta socchiusa. All’interno, il letto era sfatto. Sul pavimento c’erano alcuni bicchieri vuoti, sporchi di vino. Nella tazza del water galleggiava un profilattico. Nel posacenere vide alcuni mozziconi di sigaretta, di quelle rollate a mano: ne prese uno e lo annusò, cercando l’odore della marijuana, ma puzzava di cenere fredda. C’erano altre cose, indumenti e oggetti di scarso valore, come un calzino blu spaiato e un filo di perline. Raccolse tutto in una borsa di plastica, tolse le lenzuola dal letto, lavò i bicchieri, gettò i mozziconi nella spazzatura, poi richiuse con attenzione la porta e se ne andò. Portò tutto in macchina: buttò le lenzuola sul sedile posteriore, l’immondizia nel baule e il resto delle cianfrusaglie nel vano portaoggetti.
Chiuse la macchina e passeggiò fino al fiume, accendendosi una sigaretta. La gamba gli faceva male, e anche il petto, quando inspirava; il fumo gli bruciava la gola. Tossì e immaginò di sentirlo raschiare contro i polmoni stanchi e anneriti. Di colpo si sentì molto triste. A volte gli capitava, e allora desiderava che fosse tutto finito. Tutto quanto. Guardò l’acqua e tirò su con il naso. Non avrebbe mai ceduto alla tentazione di arrendersi, di sprofondare, ma era abbastanza sincero con se stesso da ammettere che persino lui, a volte, subiva il fascino dell’oblio.
Quando tornò a casa il sole era alto nel cielo, era quasi mezzogiorno. Vide la gattina randagia alla quale Helen dava da mangiare. Stava attraversando il cortile a passi felpati, in cerca dell’ombra del rosmarino che cresceva sotto la finestra della cucina.
Patrick notò la schiena inarcata e il ventre rigonfio. Era incinta. Si sarebbe dovuto occupare anche di quello.