Jules
Me l’ero dimenticato: prima della partita a pallone era successo qualcos’altro. Ero seduta a leggere, da sola, ed eri arrivata tu, insieme a Robbie. Non mi avevate vista, siete corsi in acqua e vi siete messi a nuotare, a giocare, a baciarvi. Lui ti ha presa per mano e ti ha trascinata a riva, poi si è sdraiato su di te, ti ha spinto le spalle a terra, ha inarcato la schiena e ha alzato gli occhi. È stato allora che si è accorto di me, che vi stavo osservando. Ha sorriso.
Più tardi, quel pomeriggio, rientrai a casa da sola. Misi il costume a quadretti e i bermuda in ammollo nell’acqua fredda, nel lavandino. Poi mi feci un bagno e mentre ero lì, semisdraiata nella vasca, con l’acqua che mi copriva a malapena, pensai che non mi sarei mai liberata di tutta quella maledetta carne.
Cicciona. Un armadio. Ha le gambe come due mongolfiere. Dovrebbe giocare nella nazionale di rugby.
Ero troppo ingombrante per gli spazi che abitavo, debordavo sempre. Occupavo troppo volume: quando ero entrata nella vasca l’acqua era traboccata dappertutto. Che bello.
Tornai nella mia camera e andai a letto, nascondendomi sotto le coperte, soffocata dalla tristezza, dall’autocommiserazione mista a senso di colpa, perché mia madre era nella stanza accanto e stava morendo di cancro al seno, mentre io riuscivo soltanto a pensare che non volevo più andare avanti, non volevo più vivere così.
Mi addormentai.
Mi svegliò papà. Lui e la mamma stavano andando in città: lei doveva sottoporsi ad alcuni esami, l’indomani, così avevano deciso di partire il giorno prima e dormire fuori per evitarsi una levataccia. La cena era in forno, era tutto pronto.
Sapevo che Nel era rientrata perché sentivo la musica provenire dalla sua stanza. Poi la musica finì e iniziai a sentire altri rumori: grugniti e sussurri, lamenti e sospiri. Scesi dal letto, mi vestii e uscii nel corridoio. La luce era accesa, la porta socchiusa. La stanza era buia, ma sentivo Nel che diceva qualcosa, ripeteva il suo nome.
Mi avvicinai, trattenendo il respiro. Attraverso la fessura della porta, vedevo i loro corpi muoversi nel buio. Non riuscivo a non guardare, era più forte di me. Rimasi a spiare finché lui non emise un rantolo sonoro e animalesco. Poi si lasciò andare a una risata, e capii che avevano finito.
Le luci al piano inferiore erano accese. Le spensi, poi andai in cucina e aprii il frigorifero, poi il congelatore. Lì dentro, con la coda dell’occhio, notai una bottiglia di vodka a metà. Imitai quello che avevo visto fare a Nel: mi versai mezzo bicchiere di succo d’arancia e il resto di vodka. Avevo già assaggiato vino e birra, e il sapore dell’alcol non mi era piaciuto, ma scoprii che quell’intruglio era dolce, per niente sgradevole.
Finii il drink e me ne preparai un altro. Mi piaceva la sensazione fisica che dava: il calore che saliva dalla pancia al petto, il sangue che si surriscaldava nelle vene, il corpo che si rilassava, la tristezza del pomeriggio che svaniva.
Mi spostai in salotto e guardai il fiume: l’acqua nera scorreva sotto la casa. Mi sorprese un pensiero nuovo: che il mio problema forse non era impossibile da risolvere. Fu un momento di chiarezza assoluta: non c’era niente di sbagliato in me, potevo essere fluida, come il fiume. Non era poi così difficile. Avrei digiunato, fatto più movimento (in segreto, quando nessuno guardava). Mi sarei trasformata da bruco in farfalla, sarei diventata una persona diversa, irriconoscibile, e la ragazza brutta e sporca di sangue sarebbe sparita. Sarei diventata un’altra, nuova di zecca.
Tornai in cucina per prendermi ancora qualcosa da bere.
Sentii dei passi in corridoio e poi giù per le scale. Mi rifugiai nel soggiorno, spensi la lampada e mi rannicchiai al buio, sulla panca sotto la finestra.
Lui entrò in cucina e aprì il frigorifero. Anzi no, il congelatore, sentii lo scricchiolio del ghiaccio, e un attimo dopo il gorgogliare del liquido nella sua gola. Lo vidi allontanarsi, poi fermarsi di colpo e tornare indietro.
«Julia, sei tu?»
Non risposi e trattenni il respiro. Non volevo vedere nessuno, men che meno lui, ma stava già armeggiando con l’interruttore. Accese le luci e lo vidi lì, in boxer, abbronzato, le spalle larghe, la vita sottile, la peluria della pancia che scompariva sotto l’elastico delle mutande. Mi sorrise.
«Stai bene?» mi chiese. Mentre si avvicinava, vidi che aveva l’espressione più sorniona del solito. «Cosa ci fai qui al buio?» Vide il bicchiere e sorrise. «Mi era sembrato che la vodka fosse diminuita!» Fece tintinnare il bicchiere contro il mio, poi si sedette accanto a me, la sua coscia premeva contro il mio piede. Feci per alzarmi, ma lui mi appoggiò una mano sul braccio.
«Aspetta! Dove vai? Voglio parlarti, voglio scusarmi per oggi pomeriggio.»
«Non è successo niente.» Mi sentii arrossire. Non riuscivo a guardarlo in faccia.
«Davvero, mi dispiace. Quei ragazzi sono delle teste di cazzo. Sono desolato.»
Annuii.
«Non c’è niente di cui vergognarsi.»
Mi feci piccola piccola: una parte di me aveva continuato a sperare che non avessero visto, che non avessero capito.
Lui mi strinse il braccio e socchiuse gli occhi mentre mi guardava. «Hai proprio un bel faccino, sai?» Rise. «Sì, dico sul serio.» Mollò la presa e mi mise il braccio intorno alle spalle.
«Dov’è Nel?»
«Dorme» rispose, poi bevve e schioccò le labbra. «Credo di averla sfinita.» Mi strinse più forte. «Julia, hai mai baciato un ragazzo? Vuoi provare con me?» Mi girò la faccia e premette le labbra contro le mie. Sentii la sua lingua, calda e viscida, dentro la mia bocca. Avevo paura mi venisse da vomitare, ma lo lasciai fare, ero curiosa di sapere cosa si provava. Quando mi tirai indietro, mi sorrise. «Ti è piaciuto?» mi chiese. Il suo alito caldo puzzava di alcol e di fumo. Mi baciò ancora e io ricambiai, cercando di provare le sensazioni che avrei dovuto. Lui mi infilò la mano sotto l’elastico del pigiama. Quando sentii le dita farsi strada tra i rotolini della pancia e avvicinarsi alle mutandine, cercai di divincolarmi.
«No!» Volevo urlare, ma mi era uscito solo un mormorio.
«Non ti preoccupare. Un po’ di sangue non mi fa mica schifo.»
Dopo, si arrabbiò con me perché non la smettevo di piangere.
«Dai, non ti ho fatto così male! Piantala di frignare! Non è stato bello? Non dirmi che non ti è piaciuto! Eri abbastanza bagnata. Dai, Julia. Bevi qualcosa, da brava. E basta piangere, cazzo! Pensavo che mi avresti ringraziato.»