Jules

Ho sobbalzato, cercando di rimettermi in piedi, con un sorriso trionfante sulle labbra. Si erano sbagliati, lo sapevo! Non te n’eri andata, eri lì, sulla porta, che mi ordinavi di togliermi dalle palle. Avevi sedici o diciassette anni, mi afferravi per la vita, affondandomi le unghie dipinte nella carne. Julia, brutta cicciona, ti ho detto FUORI!

Il mio sorriso si è spento subito: naturalmente non eri tu, ma tua figlia, quasi identica a te da adolescente. Era ferma sulla porta, con una mano sul fianco. «Che cosa stai facendo?» ha ripetuto.

«Scusa» ho risposto. «Sono Jules. Non ci siamo mai viste… Sono tua zia.»

«Non ti ho chiesto chi sei» ha ribattuto lei, guardandomi come se si trovasse davanti un’imbecille. «Ti ho chiesto cosa fai. Che stai cercando qua dentro?» Ha lanciato un’occhiata alla porta del bagno, poi ha aggiunto: «Di sotto c’è la polizia». È scomparsa nel corridoio: gambe lunghe, passi indolenti, le infradito strascicate sul pavimento.

Le sono corsa dietro.

«Lena…» Le ho appoggiato una mano sul braccio, ma lei si è scansata, quasi il contatto le avesse bruciato la pelle, e si è girata verso di me. «Mi dispiace» ho sussurrato.

Lei ha abbassato lo sguardo, massaggiandosi il punto in cui l’avevo toccata. Le unghie avevano tracce di smalto blu, sembravano le dita di un cadavere. Ha annuito, senza alzare gli occhi. «La polizia vuole parlare con te.»

Non me l’ero aspettata così, sai. Credevo che avrei trovato una bambina, ancora intontita dal dolore, bisognosa di conforto, ma mi sbagliavo. Lena non è affatto una bambina, ha quindici anni ed è quasi un’adulta ormai, e quanto al conforto, be’, sembrava poterne fare a meno. Del mio, se non altro. È pur sempre tua figlia.

I poliziotti aspettavano in cucina. Erano in piedi vicino al tavolo, lo sguardo fuori dalla finestra, verso il ponte. Erano due: un tizio alto, con un’ombra di barba brizzolata, e una donna parecchio più bassa di lui.

L’uomo mi si è lentamente avvicinato, gli occhi chiari, quasi grigi, fissi su di me. «Ispettore Sean Townsend.» Ha allungato la mano e ho notato un lieve tremore. Quando gliel’ho stretta, era fredda e ruvida come carta, sembrava quella di un vecchio. «Mi dispiace per la sua perdita.»

Che strano sentire quelle parole. Sono le stesse che mi hanno detto ieri, quando sono venuti a darmi la notizia. Le avevo quasi pronunciate anch’io poco prima, con Lena. Ma ora suonavano diverse. La mia perdita… Avrei voluto replicare che tu non ti sei persa, che non è così che funziona con te. Loro non ti conoscono, Nel. Non sanno di che pasta sei fatta.

L’ispettore Townsend mi stava osservando, in attesa che dicessi qualcosa. Troneggiava su di me in tutta la sua altezza, ma aveva un fisico magro e affilato, sembrava quasi che ad avvicinarsi troppo si corresse il rischio di tagliarsi. Lo guardavo ancora quando mi sono accorta che la collega a sua volta mi stava fissando, la sua faccia un capolavoro di compassione.

«Erin Morgan. Sentite condoglianze.» Aveva la pelle olivastra, gli occhi scuri e i capelli di un nero corvino, quasi blu. Li portava pettinati all’indietro, ma alcuni riccioli erano sfuggiti all’altezza delle tempie e dietro le orecchie, dandole un’aria quasi discinta.

«Il sergente Morgan farà da tramite tra lei e la polizia» mi ha spiegato Townsend. «La terrà aggiornata sull’andamento delle indagini.»

«Perché… ci sono delle indagini in corso?» ho chiesto stupidamente.

La donna ha annuito, ha sorriso e mi ha fatto cenno di sedermi al tavolo della cucina, poi ha preso posto di fronte a me. L’ispettore, con gli occhi bassi, ha iniziato a strofinarsi il palmo della mano destra contro il polso sinistro, con movimenti rapidi e nervosi: uno, due, tre.

Il sergente Morgan aveva cominciato a parlare. Il tono dolce e rassicurante della sua voce faceva a pugni con le parole che uscivano dalla sua bocca. «Il corpo di sua sorella è stato avvistato ieri mattina presto, nel fiume, da un uomo che era uscito per portare fuori i cani.» Accento londinese, una voce esile come un filo di fumo. «Dai primi accertamenti sembra che sia rimasto in acqua per poche ore.» Ha guardato l’ispettore, poi di nuovo me. «Sua sorella era completamente vestita e le ferite sono compatibili con una caduta dall’alto.»

«Credete che sia caduta?» ho chiesto. Guardavo i poliziotti e Lena, che era scesa in cucina con me e si era appoggiata al bancone, dall’altra parte della stanza. Scalza, indossava un paio di leggings neri e una canottiera verde che lasciava scoperte le spalle e aderiva al seno, appena accennato. Ci ignorava, come se ciò che stava accadendo nella sua cucina fosse una scena normale, ordinaria. Roba di tutti i giorni. Teneva in mano il cellulare e faceva scorrere lo schermo con il pollice mentre con l’altro braccio si cingeva la vita. Era una ragazzina minuta, il suo avambraccio poco più spesso del mio polso. La osservavo: la bocca grande e l’espressione imbronciata, le sopracciglia nere, i capelli biondo scuro che le ricadevano sul viso.

Doveva essersi accorta che la stavo fissando, perché ha alzato lo sguardo e ha sgranato gli occhi per un attimo, costringendomi a guardare altrove. «Non penserete mica che sia caduta?» ha chiesto, con una smorfia sulle labbra. «Andiamo, lo sapete meglio di me.»

Dentro l'acqua
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