Jules
La mamma mi aveva comprato un costume nuovo, un modello anni Cinquanta a quadretti bianchi e blu, “rinforzato”. Una cosa alla Marilyn Monroe. Io però ero grassa e bianchiccia, e di Norma Jean non avevo proprio nulla, ma non avevo protestato perché la mamma aveva faticato tanto per procurarselo: non era facile trovare un costume da bagno per una come me.
Sopra il costume, avevo un paio di bermuda blu e una maglietta bianca, larga. Quando Nel scese a pranzare, in pantaloncini di jeans e bikini a fascia, mi guardò e chiese: «Vieni al fiume oggi pomeriggio?». Il tono della sua voce era inequivocabile: non mi voleva. Però poi intercettò un’occhiata della mamma. «Non intendo badare a lei, capito? Vado al fiume per stare con i miei amici.»
«Nel, sii gentile.»
La mamma era convalescente, ma era così debole che sarebbe bastato un soffio di vento per farla cadere. La pelle olivastra era ingiallita, simile a carta vecchia, e papà ci aveva ordinato di andare d’accordo.
Andare d’accordo significava anche passare del tempo insieme, quindi sarei andata al fiume. Ci andavano tutti, anche perché non c’era molto da fare a Beckford: non era una città di mare, niente giostre, niente sala giochi, neppure un prato per giocare a minigolf. C’era soltanto l’acqua.
Nelle prime settimane d’estate si stabilivano le regole, le comitive a cui ciascuno apparteneva, le amicizie e le rivalità; i locali si mescolavano con i forestieri e finalmente si iniziava ad andare al fiume, in gruppi. I più piccoli preferivano nuotare a sud del mulino, dove l’acqua scorreva più tranquilla e si poteva pescare. I più trasgressivi bazzicavano dalle parti del cottage dei Ward, dove andavano a drogarsi, a fare sesso e a giocare con le tavolette ouija per cercare di evocare fantasmi arrabbiati. (Nel diceva che, se guardavi con attenzione, vedevi ancora il sangue di Robert Ward sulle pareti.) Il gruppo più numeroso si radunava allo Stagno delle Annegate, dove i ragazzi si tuffavano dalle rocce e le ragazze prendevano il sole. Si ascoltava musica e si poteva accendere la griglia. C’era sempre qualcuno che portava qualche bottiglia di birra.
Io avrei preferito starmene a casa, al chiuso, lontano dal sole, sdraiarmi sul letto a leggere oppure giocare a carte con la mamma, ma non volevo che lei si preoccupasse per me, perché aveva problemi più seri a cui pensare. Volevo dimostrarle che ero capace di stare in compagnia e farmi degli amici. Anch’io potevo socializzare.
Sapevo che Nel non gradiva la mia presenza. Fosse stato per lei, avrei dovuto starmene chiusa in casa, così i suoi amici non avrebbero avuto occasione di incontrarmi, di vedere me, il mostro, la vergogna: Julia, la cicciona brutta e sfigata. Quando eravamo insieme, cercava di tenermi alla larga, camminava due passi avanti o dieci indietro. Il suo disagio era così palpabile da non passare certo inosservato. Un giorno che eravamo andate a fare la spesa, sentii alcuni ragazzi di Beckford che commentavano: «Dev’essere adottata. Quel cesso non può essere la sorella di Nel Abbott!». Si erano messi a ridere, io avevo guardato Nel in cerca di conforto, ma sul suo volto avevo letto soltanto vergogna.
Quel giorno mi incamminai verso il fiume da sola. Mi ero portata una borsa con l’asciugamano, un libro, una Diet Coke e due barrette di cioccolato, in caso mi fosse venuta fame durante il pomeriggio. Mi faceva male la pancia e anche la schiena. Volevo solo tornare a casa, nell’intimità della mia cameretta fresca e buia, dove potevo stare in santa pace, lontano dagli sguardi degli altri.
Le amiche di Nel erano arrivate poco prima di me, occupando la piccola mezzaluna di sabbia in riva al fiume. Era il posto più bello, in leggera pendenza, dove ci si poteva distendere allungando i piedi nell’acqua. C’erano tre ragazze, due di Beckford e una certa Jenny di Edimburgo, che aveva una splendida carnagione chiara e i capelli neri, tagliati a caschetto. Era scozzese, ma parlava con un perfetto accento inglese. I ragazzi ci provavano con lei in tutti i modi, perché si diceva che fosse ancora vergine.
Tutti tranne Robbie, ovviamente, che aveva occhi soltanto per Nel. Si erano conosciuti due estati prima, quando lei aveva quindici anni e lui diciassette. Ormai facevano coppia fissa, almeno in estate, perché nel resto dell’anno era impossibile credere che lui le fosse fedele. Robbie era alto un metro e novanta, era bello e benvoluto da tutti, giocava a rugby e la sua famiglia era piena di soldi.
Quando Nel stava con lui, a volte tornava a casa con dei lividi sui polsi o sulle braccia. Un giorno le chiesi cosa fosse successo, lei scoppiò a ridere e rispose: «Secondo te?». Robbie mi faceva uno strano effetto, e non riuscivo a smettere di osservarlo. Ci provavo, ma era inutile. Lui se n’era accorto e si divertiva a ricambiare i miei sguardi. Lui e Nel mi prendevano in giro. A volte lui, fissandomi, si passava la lingua sulle labbra, e poi scoppiava in una gran risata.
Anche i ragazzi erano già lì, ma dall’altra sponda del fiume. Nuotavano, si arrampicavano e poi si spingevano giù dalle rocce, ridendo, imprecando e insultandosi l’un l’altro. Era così che funzionava: i ragazzi facevano sempre un gran casino, poi a un certo punto si stancavano e rivolgevano le loro attenzioni, più o meno gradite, alle ragazze che fino a quel momento erano rimaste sedute, in attesa. Tutte meno Nel, che non aveva paura di tuffarsi né di bagnarsi i capelli, che partecipava ai giochi dei maschi e riusciva a essere, allo stesso tempo, una di loro e il principale oggetto dei loro desideri.
Ovviamente, io non mi ero messa vicino alla comitiva di Nel. Avevo steso l’asciugamano sotto gli alberi e mi ero seduta da sola. Lì vicino c’era un gruppetto di ragazzine della mia età. Mi ricordavo di una di loro da qualche estate passata. Mi salutò con un sorriso. Io ricambiai e feci un cenno con la mano, ma lei distolse lo sguardo.
Avevo caldo, e avrei avuto voglia di bagnarmi. Immaginavo la sensazione dell’acqua sulla mia pelle liscia, il fango tra le dita dei piedi, la luce aranciata sulle palpebre chiuse mentre galleggiavo sull’acqua. Mi tolsi la maglietta, ma non servì a molto. Jenny mi fissava; arricciò il naso e fece una smorfia di disgusto, poi abbassò gli occhi perché si accorse che l’avevo vista.
Mi sdraiai sul fianco destro, per non dover vedere nessuno di loro, e aprii il libro che stavo leggendo. Era Dio di illusioni. Mi sarebbe piaciuto far parte di un gruppo di amici come quelli del romanzo: uniti, intelligenti, complici. Volevo qualcuno da seguire, qualcuno che mi proteggesse, un’amica che fosse speciale per la sua testa, e non per le sue gambe lunghe. Ma sapevo che se anche ci fossero state persone così, a Beckford o nella mia scuola a Londra, non si sarebbero mai interessate a me. Non ero stupida, ma di certo non brillavo.
Nel, invece, sì.
Arrivò al fiume a metà pomeriggio. La sentii chiamare le sue amiche, poi udii i ragazzi che gridavano il suo nome dall’alto delle rocce, dove si erano seduti a fumare con le gambe penzoloni. La sbirciai e vidi che si spogliava, entrava lentamente in acqua e si bagnava un po’ alla volta, felice di attirare l’attenzione.
I ragazzi stavano scendendo dal promontorio, passando in mezzo agli alberi. Mi girai sulla pancia e abbassai la testa, tenendo gli occhi fissi sulla pagina, così vicina da non riuscire a distinguere le parole. Rimpiangevo di essere lì, sarei voluta sgattaiolare via, allontanarmi senza che mi vedessero, ma non c’era nulla che potessi fare senza che la gente mi notasse, proprio nulla. Ero una massa bianca informe, e non potevo sgattaiolare da nessuna parte.
I ragazzi avevano portato il pallone e si erano messi a giocare. Sentivo le loro voci, i rimbalzi sull’acqua, i gridolini delle ragazze bagnate dagli spruzzi. Poi fui colpita alla coscia e sentii un dolore acuto. Sghignazzavano tutti. Robbie correva verso di me per riprendersi la palla.
«Scusa! Scusa!» continuava a dire, e intanto rideva. «Mi dispiace, Julia, non l’ho fatto apposta, davvero.» Raccolse il pallone e si fermò a guardare l’impronta rossa e fangosa sulla mia carne pallida e striata, come grasso d’animale. Qualcuno stava dicendo qualcosa a proposito di un grosso bersaglio: «Non riusciresti a centrare la porta di un fienile, ma quel culone non puoi mancarlo!».
Ripresi a leggere. La palla colpì un albero a un metro da me, qualcuno gridò «Scusa!», ma io feci finta di niente. Successe un’altra volta, poi un’altra ancora. Mi girai e capii: si stavano allenando, e il bersaglio ero io. Le ragazze erano piegate in due dalle risate, Nel si sganasciava più di tutte, si divertiva un mondo.
Mi misi seduta e provai ad affrontarli. «Va bene, molto divertente! Adesso basta, okay?» Un altro ragazzo stava già prendendo la mira, io sollevai il braccio per proteggermi e la palla mi colpì, facendomi male. Mi alzai, sentendo arrivare le lacrime. Anche le altre ragazze, quelle più piccole, stavano guardando, una aveva la mano sulla bocca.
«Piantatela!» gridò. «Le avete fatto male! Sta sanguinando!»
Mi guardai: un rivolo di sangue scendeva dall’interno della coscia verso il ginocchio. Non era stata la palla, lo sapevo, era qualcos’altro: i crampi alla pancia, il mal di schiena, la tristezza che mi aveva perseguitato per tutta la settimana. Sanguinavo copiosamente, avevo i bermuda inzuppati. E loro mi fissavano, tutti quanti. Le ragazze non ridevano più, si guardavano a bocca aperta, a metà tra l’orrore e il divertimento. Nel faceva finta di niente, ma sapevo che sarebbe voluta sprofondare. Mi infilai la maglietta in fretta e furia, mi avvolsi l’asciugamano intorno alla vita e poi mi allontanai lungo il sentiero, trascinandomi come potevo. Sentivo le risate dei maschi, alle mie spalle.
Quella notte entrai in acqua. Era tardi – erano passate molte ore – e mi ero ubriacata, per la prima volta nella mia vita. Erano successe anche altre cose. Robbie era venuto a cercarmi e si era scusato per il comportamento suo e dei suoi amici. Mi aveva detto che era davvero dispiaciuto, mi aveva abbracciato e aveva aggiunto che non dovevo vergognarmi.
Ma io andai allo Stagno delle Annegate lo stesso, e fu Nel a tirarmi fuori. Mi trascinò sulla riva e mi aiutò a rimettermi in piedi, poi mi diede un ceffone. «Stupida, stupida cicciona, che cosa hai fatto? Che cazzo stavi cercando di fare?»