Jules

Mi sono ricordata. Io e te sul sedile posteriore del camper, una pila di cuscini a segnare il confine tra il tuo territorio e il mio. Stiamo andando a Beckford per l’estate. Tu entusiasta, impaziente, non vedi l’ora di arrivare. Io verde per il mal d’auto, che cerco disperatamente di non vomitare.

Non l’ho soltanto ricordato. L’ho sentito, di nuovo. Lo stesso identico malessere, oggi pomeriggio, mentre guidavo tutta china sul volante come una signora anziana. Guidavo male e troppo veloce, tagliavo le curve, poi frenavo di colpo e sterzavo quando vedevo arrivare le altre auto. E avevo quella sensazione, quella che provo quando in strada incrocio un furgone bianco e penso che sto per farlo, sto per invadere la sua corsia e andargli contro, non perché lo voglia, ma perché devo. Come se in quell’istante ogni volontà mi abbandonasse. Forse la conosci, è la stessa sensazione di quando ti affacci su uno strapiombo o passeggi sul binario del treno ben oltre la linea gialla, e senti come una mano invisibile che ti sospinge. E se lo facessi davvero? Se avanzassi anche di un solo passo? Se girassi appena un po’ il volante?

(Vedi? Tu e io non siamo poi così diverse.)

La cosa strana è che ricordo tutto molto bene. Troppo bene. Com’è possibile che le cose che mi sono successe a otto anni siano perfettamente chiare nella mia memoria, e invece, per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare se ho parlato con i colleghi per spostare quell’incontro con il cliente? Mi sfugge ciò che vorrei trattenere, invece quello che voglio dimenticare riaffiora di continuo. Oggi, mentre guidavo, più mi avvicinavo a Beckford, più il passato mi si ripresentava davanti, schizzando in ogni direzione come i passeri quando volano fuori da una siepe, improvviso e inevitabile.

Tutta quella natura, quel verde incredibile, il giallo acido e squillante della ginestra mi bruciavano il cervello, e forse è anche colpa loro se ho cominciato a vederli, i miei ricordi, uno dopo l’altro: io a quattro o cinque anni in braccio a papà che mi porta a fare il bagno nel fiume, i miei gridolini di gioia, i tuoi tuffi dalle rocce, ogni volta più in alto. I picnic sulla riva sabbiosa dell’acqua, il sapore della crema solare sulle labbra, i grossi pesci scuri pescati a valle, oltre il mulino. Tu che torni a casa con le gambe piene di graffi, perché hai esagerato con i salti, e mordi forte un tovagliolo mentre papà ti disinfetta. No, tu non piangi, non davanti a me. E poi la mamma che indossa un prendisole azzurro e prepara la colazione in cucina, scalza, con la pianta dei piedi scura, color ruggine. Papà seduto a disegnare in riva al fiume. Qualche anno dopo: noi due più grandi, tu con i pantaloncini di jeans e il costume sotto la maglietta. Le tue fughe notturne per incontrare un ragazzo, non uno qualsiasi, quel ragazzo. La mamma, sempre più magra e più debole, che dorme sulla poltrona in soggiorno, e papà che va a fare lunghe passeggiate con la moglie del parroco, una donna paffuta, pallida e sempre col cappello in testa per proteggersi dal sole. Mi torna in mente una partita a pallone. Il sole caldo, l’acqua; tutti mi guardano, io chiudo forte gli occhi per non piangere, sangue tra le cosce, echi di risate. Le sento ancora. In sottofondo, il rumore dell’acqua che scorre.

Ero così immersa in quell’acqua da non accorgermi di essere arrivata a destinazione. Eccomi qui, nel centro di Beckford. Me ne sono resa conto all’improvviso, come se avessi chiuso gli occhi e un istante dopo, per magia, li avessi riaperti qui. Ho proseguito lentamente con la macchina lungo le strade strette, piene di suv parcheggiati, oltre le case di pietra rosa, verso la chiesa e il vecchio ponte. Mi sentivo sempre più all’erta. Tenevo gli occhi fissi sull’asfalto e cercavo di non guardare verso il bosco e il fiume. Cercavo di non vedere, ma non ci riuscivo.

Ho accostato e ho spento il motore. Ho alzato lo sguardo: intorno a me c’erano gli alberi e i gradini di pietra, coperti di muschio e scivolosi perché aveva piovuto. Mi è venuta la pelle d’oca, e mi sono ricordata: la pioggia gelida che sferzava la strada, i lampeggianti blu che facevano a gara con i fulmini per illuminare il cielo e lo specchio dell’acqua, i volti terrorizzati, le piccole nuvole di vapore che uscivano dalle bocche e un ragazzino, bianco come un cencio, tremante, accompagnato su per la scalinata da una poliziotta. Lei lo teneva per mano, ma aveva gli occhi sbarrati e continuava a girarsi da ogni parte come se stesse cercando qualcuno nella folla. Posso ancora sentirla, la sensazione che provai quella notte, il terrore e la fascinazione. E le parole che mi sussurravi all’orecchio: Chissà com’è… Ci pensi? Veder morire tua madre…

Ho distolto lo sguardo, ho rimesso in moto e attraversato il ponte. Da lì in poi, la strada diventa tortuosa. Ero indecisa su dove svoltare, la prima a sinistra? No, la seconda. Eccolo là, il grande blocco di pietra scura: il mulino. Ho sentito un brivido percorrermi la pelle fredda e sudata, e il cuore battere più in fretta, mentre superavo il cancello aperto e imboccavo il viale di accesso alla casa.

C’era un tizio, un agente in divisa, che guardava il cellulare. Si è avvicinato alla macchina e io ho abbassato il finestrino.

«Sono Jules… cioè, Julia… Abbott. Sono… la sorella.»

Sembrava a disagio. «Oh, sì… certo.» Si è girato verso la casa. «Adesso non c’è nessuno. La ragazza… sua nipote… è uscita. Non so dove…» Ha preso la radio agganciata alla cintura.

Sono scesa dall’auto. «Posso entrare in casa?» Ho guardato in su, verso la finestra aperta, quella della tua vecchia stanza. Mi è sembrato di vederti lì, seduta sul davanzale, con i piedi penzolanti nel vuoto. È stato strano.

Il poliziotto sembrava esitante. Mi ha dato le spalle, ha detto qualcosa alla radio e poi si è voltato di nuovo verso di me. «Nessun problema, entri pure.»

Ho salito i gradini dell’ingresso senza vedere nulla, ma sentivo lo sciabordio dell’acqua e l’odore della terra, quella umida sotto gli alberi, all’ombra della casa, nei punti mai raggiunti dalla luce del sole, e il tanfo delle foglie marce. E mi sono sentita riportare indietro nel tempo.

Ho aperto la porta. Una parte di me si aspettava di sentire la voce della mamma chiamare dalla cucina. Per un riflesso condizionato, ho spinto un po’ la porta col fianco nel punto in cui si bloccava sempre contro il pavimento. Sono entrata, ho richiuso e mi sono fermata un momento per adattare gli occhi all’oscurità. Un altro brivido, forse per il fresco improvviso.

In cucina, sistemato sotto la finestra, c’era un tavolo di quercia. Era lo stesso? Forse sì, ma da allora questo posto ha cambiato molti proprietari. Mi sarei potuta togliere il dubbio controllando se c’erano ancora le nostre iniziali incise sotto il piano, ma il solo pensiero mi ha fatto accelerare il battito.

Ricordo che il tavolo era inondato di sole al mattino, e se ti sedevi dal lato sinistro, di fronte alla cucina di ghisa, potevi vedere il vecchio ponte perfettamente incorniciato dalla finestra. Un panorama splendido, dicevano tutti, ma nessuno lo guardava davvero. Nessuno apriva mai quella finestra per affacciarsi verso la macina in disuso, nessuno guardava oltre la luce che giocava con la superficie dell’acqua, e nessuno vedeva quell’acqua per com’era davvero, verde scura, quasi nera, piena di cose vive e di cose morte.

Uscendo dalla cucina, ho superato l’ingresso e le scale, e mi sono addentrata nella casa. Mi si sono parate davanti all’improvviso, in modo così violento da farmi sobbalzare, le enormi finestre che danno sul fiume, dentro il fiume, quasi, tanto da farti pensare che se aprissi i vetri l’acqua inonderebbe la stanza, riversandosi come una cascata sulla panca di legno sotto il davanzale.

Un altro ricordo. Ogni estate io e la mamma ci sistemavamo sopra i cuscini della panca e ci sedevamo con le gambe strette al petto, i talloni che si sfioravano e un libro sulle ginocchia. Da qualche parte c’era un vassoio di stuzzichini, ma lei non mangiava quasi mai.

Non riuscivo a guardare quella stanza. Vederla di nuovo mi ha fatto sentire disperata, mi ha spezzato il cuore.

L’intonaco doveva essere stato rimosso, rivelando i mattoni, e i mobili che c’erano adesso erano senza dubbio tuoi: tappeti orientali, oggetti in ebano, divani e poltrone di pelle e troppe candele. Dappertutto c’erano indizi delle tue ossessioni: grandi stampe incorniciate, l’Ophelia di Millais, bella e serena, con gli occhi e la bocca aperti, i fiori tra le mani. E ancora Ecate di William Blake, Il sabba delle streghe e Il cane di Goya. Quest’ultimo lo odiavo più di tutti: una povera bestia che lotta per tenere la testa al di sopra della marea che sale.

Mi è parso di sentire lo squillo di un telefono, sembrava arrivare dalle fondamenta della casa. Ho seguito il suono attraverso il soggiorno, poi ho sceso degli scalini; credo che all’epoca ci fosse un ripostiglio, lì, pieno di cianfrusaglie. Poi un anno c’era stata un’inondazione e la melma aveva ricoperto tutto, come se la casa stessa fosse diventata parte del letto del fiume.

Sono entrata nella stanza che adesso era il tuo studio: era piena di macchine fotografiche, schermi, lampade e tavoli luminosi, una stampante, carte, libri e raccoglitori appoggiati sul pavimento, schedari allineati lungo le pareti. E le fotografie, ovviamente, che coprivano ogni centimetro del muro. A vederle sembrava che tu fossi affascinata dai ponti: il Golden Gate, il ponte ferroviario sul Fiume Giallo, il viadotto Prince Edward. Ma non erano ponti e viadotti a interessarti, non erano le opere d’ingegneria. Guardando meglio, non c’erano solo ponti. C’erano il promontorio di Beachy Head, la foresta di Aokigahara, il Preikestolen: le cattedrali dell’angoscia, i posti dove vanno i disperati, quelli che hanno deciso di farla finita.

Di fronte alla porta, ho visto degli scatti del fiume, quel tratto che chiamano Stagno delle Annegate, in ogni versione possibile: bianco e ghiacciato in inverno, con le rocce scure e spoglie, oppure un’oasi di verde scintillante in estate, o grigio e increspato durante i temporali. Non sono riuscita a staccare gli occhi da quelle immagini, che si fondevano fino a formarne una sola. Mi sembrava di essere lì sul promontorio e di guardare giù, dentro l’acqua, irresistibilmente tentata dall’oblio.

Dentro l'acqua
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