PROLOGO
Quando avevo diciassette anni, ho salvato mia sorella dal fiume.
Eppure, che ci crediate o no, non è da lì che questa storia ha avuto inizio.
Esistono persone che sentono il richiamo dell’acqua: una specie di sesto senso, qualcosa di ancestrale che le riporta sempre a dove l’acqua scorre. Io sono una di loro. Mi sento viva solamente quando sono vicina all’acqua. A quest’acqua. È qui che ho imparato a nuotare, ad abitare con gioia la natura e il mio stesso corpo.
Da quando, nel 2008, mi sono trasferita a Beckford, sono andata al fiume quasi ogni giorno, in inverno e in estate, con mia figlia o da sola. Col tempo, ha cominciato ad affascinarmi l’idea che questo posto, che per me significa l’estasi, per altri sia stato un luogo di dolore, e di terrore.
Quando avevo diciassette anni, ho salvato mia sorella dal fiume, ma in realtà ne ero già ossessionata da tempo. I miei genitori, mia madre soprattutto, erano bravi a raccontare storie. Fu lei a narrarmi della tragica fine di Libby, del massacro al cottage dei Ward, fu lei a raccontarmi la storia tremenda del bambino che aveva visto sua madre buttarsi nel fiume. Io le chiedevo di raccontare ancora e ancora, centinaia e migliaia di volte. Ricordo che mio padre non era contento. «Non sono cose adatte alle orecchie di una bambina» diceva. Ma lei non gli prestava ascolto: «Invece lo sono! È storia».
Mia madre aveva gettato un seme dentro di me, e molto prima che mia sorella entrasse in acqua, o che io prendessi in mano una macchina fotografica o una penna, passavo già ore a immaginare come doveva essere stato, che cosa avevano provato, quanto doveva essere fredda l’acqua quel giorno.
Ora che sono una donna adulta, il mistero su cui mi interrogo di più riguarda, naturalmente, la mia stessa famiglia. In realtà sarebbe facile svelarlo, ma non lo è, perché mia sorella, nonostante i miei sforzi per superare la distanza tra noi, da molti anni non parla più con me.
Così, immersa in questo silenzio, ho cercato di capire da sola cosa possa averla spinta ad andare al fiume, quella notte, ma nemmeno io, con la mia fervida immaginazione, ci sono riuscita. Mia sorella non è mai stata un tipo melodrammatico, una dai gesti eclatanti. Poteva essere impertinente, subdola, a volte vendicativa come l’acqua stessa, ma io continuo a non comprendere. E mi chiedo se mai ci riuscirò.
Mentre mi sforzavo di capire me stessa, la mia famiglia e le storie che per anni ci siamo raccontati, ho deciso che avrei provato a trovare un senso a tutte le altre storie del fiume di Beckford, e che avrei cercato di descrivere così come li immagino gli ultimi istanti di vita delle donne che sono morte nello Stagno delle Annegate.
È un nome bizzarro, ma che ha il suo peso. Che cos’è, in fondo? È solo una pausa nel corso tumultuoso dell’acqua. Un’ansa. Ci arrivi seguendo il fiume e le sue mille deviazioni, le sue curve, i tratti in cui si gonfia ed esonda, dando la vita e togliendola, anche. Prima è freddo e limpido, poi diventa stagnante e limaccioso; serpeggia attraverso i boschi fitti di alberi, taglia come una lama le Cheviot Hills e solo allora rallenta, appena a nord di Beckford. È lì che si riposa, soltanto per un po’, allo Stagno delle Annegate.
È un angolo di paradiso: le querce fanno ombra al sentiero, faggi e platani punteggiano il pendio, la sponda meridionale è sabbiosa e in leggera pendenza. È perfetto per andare in barca e portare i bambini a fare un picnic nei giorni di sole.
Ma l’apparenza è ingannevole, perché quello è un posto di morte. L’acqua scura e vitrea nasconde il fondo: alghe che ti si attorcigliano alle caviglie e ti trascinano giù, rocce appuntite che ti lacerano la pelle. E lassù, a picco, il promontorio, una roccia di ardesia grigia: quasi una sfida, una provocazione.
È questo il posto che, nei secoli, ha preso le vite di Libby Seeton, Mary Marsh, Anne Ward, Ginny Thomas, Lauren Slater, Katie Whittaker e molte altre, che non hanno un volto né un nome. E io voglio sapere perché, come e cosa ci dicono di noi le loro vite e le loro morti. So che alcuni preferirebbero non sentire certe domande, sono quelli che vogliono nascondere, sopprimere, soffocare. Ma io non sono mai stata una che sta zitta.
In questo libro, che riguarda la mia vita e il fiume di Beckford, vorrei partire non dall’annegare, ma dal restare a galla. Perché è da lì che comincia la storia: dalla prova dell’acqua, dalle streghe che il fiume avrebbe dovuto accogliere o rifiutare. Era proprio lì, allo Stagno, a poco più di un chilometro da dove ora sono seduta a scrivere, era in quel posto idilliaco che le portavano. Le legavano, e poi le gettavano in acqua, per vedere se andavano a fondo o galleggiavano.
Alcuni dicono che quelle donne hanno lasciato qualcosa di sé nell’acqua, che il fiume ha trattenuto un po’ del loro potere, perché da allora le sue sponde attraggono le donne infelici, disperate, perdute. Vengono qui e nuotano con le loro sorelle.