Jules
Mi hai sempre fatto un po’ paura. Tu lo sapevi e ne approfittavi: ti piaceva spaventarmi, ti piaceva esercitare il tuo potere su di me. Quindi credo che, a parte un piccolo dettaglio, ti saresti divertita oggi pomeriggio.
Mi hanno chiesto di riconoscere il tuo corpo. Lena si era offerta, ma non hanno voluto, così non ho potuto sottrarmi. Non c’era nessun altro a cui chiedere. Anche se non ne avevo voglia, sapevo di doverlo fare, perché vederti era meglio che immaginarti. Gli orrori della mente fanno molta più paura di quelli reali. E poi volevo vederti perché – lo sappiamo entrambe – altrimenti avrei continuato a non crederci, che te ne sei andata davvero.
Eri al centro di una stanza fredda, sdraiata su una barella e coperta da un lenzuolo verdino. C’era un giovane medico con indosso il camice. Ha fatto un cenno a me e alla poliziotta, che ha risposto annuendo. Ho trattenuto il respiro mentre lui allungava la mano per spostare il lenzuolo. Non ricordo di aver provato così tanta paura da quando ero bambina.
Mi aspettavo che tu balzassi in piedi.
Ma non l’hai fatto. Eri immobile e bellissima. Hai sempre avuto un viso molto espressivo, nella gioia e nella cattiveria, ed eri ancora così, ancora tu, perfetta, come sempre. E allora ho pensato: ti sei buttata.
Ti sei buttata?
Davvero, ti sei buttata?
C’era qualcosa di sbagliato in quella parola. Non lo avresti mai fatto, me lo avevi detto tu stessa. Sostenevi che il promontorio non fosse abbastanza alto: solo cinquantacinque metri. Si può anche sopravvivere a un salto nell’acqua da quell’altezza. No, mi hai detto, se vuoi davvero farla finita, allora devi andare sul sicuro. Devi entrare di testa. Se vuoi farlo davvero, non ti butti. Ti tuffi.
E se invece non vuoi farlo davvero, hai proseguito, allora è inutile provarci. Bisogna farle per bene, le cose: a nessuno piacciono i dilettanti.
Si può sopravvivere, dicevi, ma non è detto che succeda sempre. D’altra parte tu sei finita qui, anche se non ti sei tuffata. Sei entrata con i piedi e ora sei qui: hai le gambe spezzate, la schiena rotta, sei tutta fracassata. Cosa significa, Nel? Hai perso il tuo sangue freddo? (No, non è da te.) Non sopportavi l’idea di sfigurare il tuo bel volto? (Sei sempre stata molto vanitosa.) Non capisco. Tu non fai mai il contrario di quello che dici. L’incoerenza non ti appartiene.
(Lena ha detto che non c’è nessun mistero, ma lei che ne sa?)
Ti ho preso la mano, sembrava un corpo estraneo, e non solo perché era gelida, ma perché non ne riconoscevo la forma, il tocco. Quando è stata l’ultima volta che ci siamo prese per mano? Forse tu hai cercato di stringere la mia al funerale della mamma? Ricordo di averti voltato le spalle, di essere andata verso papà, ricordo la faccia che hai fatto. (Cosa ti aspettavi?) Avevo il cuore pesante come piombo, il battito cadenzato come una marcia funebre.
«Scusi, non può toccarla» mi ha detto qualcuno.
La lampada ronzava sopra la mia testa, illuminava la tua pelle, grigia e pallida sul tuo letto d’acciaio. Ti ho appoggiato il pollice sulla fronte e l’ho fatto scorrere lungo la tua guancia.
«Per favore, non la tocchi.» Il sergente Morgan era alle mie spalle. Sopra il ronzio delle lampade potevo sentire il suo respiro, profondo e regolare.
«Dove sono le sue cose?» ho chiesto. «I vestiti, i gioielli?»
«Ve li restituiremo dopo che la Scientifica li avrà esaminati» mi ha spiegato.
«C’era anche un braccialetto?»
Ha scosso la testa. «Non lo so, ma le ridaremo tutto quello che abbiamo trovato.»
«Dovrebbe esserci un braccialetto» ho ripetuto, con calma, senza distogliere gli occhi da Nel. «D’argento, con il gancetto di onice. Apparteneva alla mamma, ci sono incise le sue iniziali, SJA. Sarah Jane. Lo portava sempre. La mamma, intendo. E anche tu.» La poliziotta mi fissava. «Anche lei, voglio dire. Anche Nel.»
Sono tornata a guardare te, il tuo polso sottile, nel punto in cui il gancetto di onice doveva posarsi sulle tue vene blu. Volevo toccarti, sentire la tua pelle. Ero sicura che avrei potuto svegliarti. Ho sussurrato il tuo nome, in attesa che tu sussultassi, aprissi gli occhi e mi seguissi con lo sguardo per la stanza. Forse avrei dovuto baciarti, come la Bella Addormentata, ma il pensiero mi ha fatto sorridere, perché tu lo avresti detestato. Non sei mai stata la principessa delle favole, la fanciulla remissiva che aspetta l’arrivo del principe: tu eri un’altra cosa. Appartenevi all’oscurità, stavi dalla parte della perfida matrigna, della fata cattiva, della strega.
La detective mi fissava, e allora ho stretto le labbra per trattenere il sorriso. Avevo gli occhi asciutti e la gola secca. Ti ho sussurrato qualcosa, ma non è uscito alcun suono.
«Che cos’era che volevi dirmi?»