Lena
Quando mi sono svegliata ho avuto paura, non sapevo dov’ero. Non vedevo niente. Era buio pesto. Ma dal rumore, dal movimento e dalla puzza di benzina, ho capito che mi trovavo dentro un’automobile. La testa mi faceva malissimo, e anche la bocca, era caldo e si soffocava e c’era qualcosa che mi affondava nella schiena, qualcosa di duro, come un bullone di metallo. Ho spostato la mano per provare ad afferrarlo, ma era saldato.
Peccato: mi sarebbe proprio servita un’arma.
Ero spaventata, ma sapevo che non potevo permettere alla paura di prendere il sopravvento. Dovevo pensare con lucidità. Con lucidità e in fretta, perché prima o poi l’auto si sarebbe fermata, e allora sarebbe stato o lui o me, e non gli avrei permesso mai e poi mai di far fuori Katie e la mamma e me. Per niente al mondo. Dovevo crederci, dovevo continuare a ripetermelo: sarebbe finita con me viva e lui morto.
Nei mesi successivi alla morte di Katie, avevo pensato a molti modi per farla pagare a Mark Henderson per quello che aveva fatto, ma non avevo mai preso in considerazione l’omicidio. Avevo considerato altre strade: imbrattargli le pareti, fracassare le finestre di casa sua (già fatto!), telefonare alla sua fidanzata e raccontarle tutto quello che Katie mi aveva detto. Quante volte, quando, dove. Quanto gli piaceva chiamarla “la cocca del professore”. Avevo pensato di chiedere ai ragazzi più grandi di pestarlo a sangue. Avevo pensato di tagliargli il pisello e farglielo mangiare. Ma non avevo mai pensato di ucciderlo. Non fino a quel giorno.
Come ci ero finita lì dentro? Non potevo credere di essere stata tanto stupida da permettergli di prendere in mano la situazione. Non sarei mai dovuta andare a casa sua, non senza un piano preciso, non senza sapere con esattezza cosa avrei fatto.
Non ci avevo riflettuto prima, ho cominciato a pensarci mentre andavo a casa sua. Sapevo che stava rientrando dalle vacanze, avevo sentito Erin e Sean che ne discutevano. E poi, dopo tutte le cose che mi aveva detto Louise, dopo aver parlato con Julia e aver realizzato che non era colpa mia né della mamma, ho pensato: È il momento. Volevo soltanto guardarlo in faccia e farlo sentire un po’ in colpa. Volevo che lo ammettesse, che ammettesse quello che aveva fatto e che era sbagliato. Così sono andata da lui, avevo già rotto il vetro della porta sul retro, quindi è stato abbastanza facile entrare.
La casa puzzava di sporco, come se fosse partito senza buttare l’immondizia o qualcosa del genere. Per un po’ sono rimasta in cucina e ho usato il telefonino per dare un’occhiata in giro, ma poi ho deciso di accendere la luce perché dalla strada non si vedeva, e anche se i vicini lo avessero notato avrebbero pensato che lui era tornato.
La casa puzzava di sporco perché era sporca. Faceva davvero schifo: piatti da lavare nel lavandino e confezioni di pasti pronti con residui di cibo ancora incrostati dentro, e tutte le superfici ricoperte di unto. E quintali di bottiglie di vino rosso, vuote, nel secchio dei rifiuti. Non era proprio come me l’aspettavo. Dal modo in cui si presentava a scuola, sempre vestito bene e con le unghie pulite e tagliate cortissime, pensavo che fosse un precisino.
Sono andata in soggiorno e ho dato un’occhiata, aiutandomi con la torcia del cellulare; non ho acceso la luce lì perché si sarebbe vista dalla strada. Era una stanza molto ordinaria. Mobili economici, un sacco di libri e cd, neanche una stampa alle pareti. Era ordinaria, sporca e triste.
Il piano di sopra era anche peggio. La camera da letto puzzava. Il letto era sfatto, l’armadio spalancato emanava un cattivo odore, diverso da quello del piano di sotto, di acido e sudore, come un animale malato. Ho aperto la finestra, chiuso le tende e acceso la luce sul comodino. Era in uno stato ancora più pietoso del piano inferiore, sembrava che ci vivesse un vecchio: pareti di un giallo orribile e tende marroni e abiti e carte sul pavimento. Ho aperto un cassetto e c’erano auricolari e tagliaunghie. Nel secondo cassetto c’erano profilattici, lubrificante e manette di peluche.
Mi è venuto un conato. Mi sono seduta sul letto e ho notato che nell’angolo opposto il lenzuolo era sollevato dal materasso, così ho visto una macchia marrone. Ho creduto di vomitare davvero. Era doloroso, fisicamente doloroso, pensare che Katie era stata lì, con lui, in quella stanza orrenda in quella casa schifosa. Ero pronta ad andarmene. In ogni caso, era stata un’idea stupida arrivare lì senza avere un piano. Ho spento la luce e sono scesa di sotto, ero quasi arrivata alla porta quando ho sentito un rumore all’esterno, i passi sul vialetto. Poi la porta si è spalancata e lui era lì. Era brutto, la faccia e gli occhi rossi, la bocca aperta. Gli sono saltata addosso. Volevo strappare gli occhi da quella brutta faccia, volevo sentirlo gridare.
Poi non so cosa è successo. Lui è caduto, credo, io ero in ginocchio e qualcosa ha attraversato il pavimento nella mia direzione. Un pezzo di metallo, una chiave, forse. L’ho preso e ho sentito al tatto che non aveva il bordo seghettato, ma liscio. Un cerchio. Un cerchio d’argento con il gancetto di onice nera. Lo rigiravo nella mano. Sentivo il ticchettio rumoroso dell’orologio della cucina e il respiro di Mark. «Lena» ha detto, e io ho sollevato lo sguardo e ho visto che era spaventato. Mi sono alzata. «Lena» ha ripetuto, e mi si è avvicinato. Stavo sorridendo, perché con la coda dell’occhio avevo visto un oggetto di un colore argentato, un oggetto appuntito, e sapevo esattamente cosa avrei fatto. Avrei fatto un gran respiro e sarei rimasta ferma, avrei aspettato finché lui non avesse detto il mio nome un’altra volta, e allora avrei preso le forbici che erano appoggiate sul tavolo della cucina e gliele avrei conficcate in quel fottuto collo.
«Lena» ha detto ancora, e ha allungato una mano verso di me, e tutto è successo in un attimo. Ho afferrato le forbici e mi sono lanciata su di lui, ma è più alto di me, e aveva le braccia sollevate, devo averlo mancato, vero? Perché lui non è morto, sta guidando e io sono chiusa qui dentro con un bernoccolo sulla testa.
Mi sono messa a urlare, stupidamente, perché, siamo seri, chi mi poteva sentire? Capivo che l’auto filava a tutta velocità, ma io urlavo comunque. Fammi uscire, fammi uscire, stupido bastardo! Battevo i pugni sul cofano di metallo, urlavo con tutto il fiato che avevo in corpo, e poi di colpo, bang! L’auto si è fermata e io sono andata a sbattere contro il bordo del bagagliaio, e allora mi sono messa a piangere.
Non era soltanto per il dolore. Per qualche motivo, continuavo a pensare alle finestre che avevamo fracassato, io e Josh, a quanto si sarebbe arrabbiata Katie. Avrebbe odiato quella situazione, tutto quanto: avrebbe odiato il fatto che suo fratello fosse stato costretto a dire la verità dopo mesi di bugie, avrebbe odiato vedere me in quello stato, ma soprattutto avrebbe odiato quelle finestre rotte, perché erano la cosa che temeva. Finestre rotte e PEDOFILO scritto sui muri e gli escrementi nella cassetta della posta e i giornalisti sul marciapiede e la gente che gli sputa addosso e lo prende a cazzotti.
Piangevo per il dolore e piangevo perché stavo male per Katie, perché sapevo che quella storia le avrebbe spezzato il cuore. Sai una cosa, Katie? Mi ritrovavo a sussurrarle, come una pazza, come Julia che borbotta da sola, nel buio. Mi dispiace. Mi dispiace davvero, perché questo non è quello che lui si merita. Adesso posso dirlo, perché tu non ci sei più e io sono nel bagagliaio della sua automobile, con la bocca sanguinante e una ferita alla testa, e posso affermarlo con certezza: Mark Henderson non merita di essere perseguitato o picchiato. Merita di peggio. So che ne eri innamorata, ma lui non ha rovinato la vita soltanto a te: l’ha rovinata anche a me. Lui ha ucciso mia madre.