Erin

Il cottage vicino al fiume, quello che avevo visto quando ero andata a correre, sarà la mia nuova casa. Per un po’, almeno. Soltanto finché non risolveremo la faccenda di Henderson. È stato Sean a suggerirlo. Ha origliato mentre raccontavo a Callie, l’agente, che stamattina sono quasi finita fuori strada, tanto ero distrutta, e ha detto: «Be’, non possiamo permettercelo. È meglio che tu stia in città. Potresti usare il cottage dei Ward. Si trova lungo il fiume e non è abitato. Non è un posto di lusso, ma sarà a costo zero. Ti porto le chiavi oggi pomeriggio».

Quando se n’è andato, Callie mi ha sorriso. «Il cottage dei Ward, eh? Fai attenzione a Annie la pazza!»

«Scusa?»

«Quel posto vicino al fiume, quello che Patrick Townsend usa come capanno da pesca, quello è il cottage dei Ward. Come Anne Ward. È una di quelle donne. Si racconta» ha detto, abbassando la voce fino a bisbigliare, «che, se guardi con attenzione, puoi ancora vedere il sangue sulle pareti.» Devo aver fatto una faccia stupita – non capivo di cosa stesse parlando –, perché lei ha sorriso e ha concluso: «È soltanto una storia, una di quelle di secoli fa. Una delle antiche storie di Beckford». A me non interessavano molto le antiche storie di Beckford, ne avevo di più recenti di cui preoccuparmi.

Henderson non rispondeva al telefono e abbiamo deciso di lasciarlo in pace fino al suo ritorno. Se la storia di Katie era vera e avesse subodorato che ne eravamo al corrente, sarebbe potuto non rientrare affatto.

Nel frattempo, Sean mi ha chiesto di interrogare sua moglie, che, in quanto preside della scuola, è il capo di Henderson. «Sono sicuro che non ha mai avuto il minimo sospetto su Mark Henderson» ha precisato. «Credo che abbia un’ottima opinione di lui, ma qualcuno deve parlare con lei, e per ovvi motivi non posso farlo io.» Sean mi ha detto che l’avrei trovata a scuola ad aspettarmi.

Se davvero mi stava aspettando, non sembrava proprio. Era nel suo ufficio, carponi sul pavimento, la guancia appoggiata alla moquette grigia, che allungava la testa per guardare sotto una libreria. Ho tossito educatamente e lei ha alzato la testa di scatto, colta di sorpresa.

«La signora Townsend?» le ho domandato. «Sono il sergente Morgan. Erin.»

«Oh, sì» ha farfugliato. È arrossita, si è portata una mano al collo. «Ho perso un orecchino» ha detto.

«Entrambi, a quanto pare» ho commentato.

Ha emesso uno strano suono, una specie di gemito, e mi ha fatto cenno di accomodarmi. Si è tirata in giù l’orlo della camicetta e si è risistemata i pantaloni grigi prima di sedersi. Se mi avessero chiesto di descrivere la moglie dell’ispettore, me la sarei immaginata molto diversa. Attraente, elegante, magari sportiva: una maratoneta, una triatleta. Helen indossava abiti più adatti a una donna di vent’anni più vecchia di lei. Era pallida, e poco tonica, come una che di rado esce di casa o vede il sole.

«Voleva parlarmi del signor Henderson?» ha detto, rivolgendo uno sguardo vagamente infastidito al mucchio di carte che aveva sulla scrivania. Niente chiacchiere, zero preamboli: è una che va dritta al punto. Forse è questo che all’ispettore piace di lei.

«Sì» ho replicato. «Lei è al corrente delle accuse mosse da Josh Whittaker e Lena Abbott, vero?»

Lei ha annuito, stringendo le labbra sottili fino a farle scomparire. «Mio marito me ne ha parlato ieri. Le assicuro che è la prima volta che sento dire una cosa del genere.» Ho aperto la bocca per dire qualcosa, ma lei ha continuato. «Ho assunto Mark Henderson due anni fa. È arrivato con ottime referenze e i suoi risultati finora sono stati molto incoraggianti.» Ha armeggiato coi fogli davanti a sé. «Ho qui le schede di valutazione, ne ha bisogno?» Ho scosso la testa e lei ha ripreso a parlare, prima che riuscissi a farle la domanda successiva. «Katie Whittaker era una studentessa coscienziosa e molto diligente. Ecco i suoi voti. C’è stato un calo, a dire il vero, la scorsa primavera ma è durato poco, era di nuovo migliorata prima che… prima di…» si è passata una mano sugli occhi «prima dell’estate.» È sprofondata un po’ nella sedia.

«Quindi lei non aveva sospetti, non giravano voci…?»

Ha inclinato la testa. «Oh, io non ho parlato delle voci… Sergente Morgan, le voci che girano in una scuola superiore le farebbero drizzare i capelli. Sono sicura» ha detto, e ho notato un lieve tic nervoso alla bocca «che, se ci pensa un attimo, può immaginare facilmente il tipo di cose che dicono, scrivono e twittano di me e della signora Mitchell, l’insegnante di educazione fisica.» Ha fatto una pausa. «Lei ha conosciuto il signor Henderson?»

«Sì.»

«Allora può capire di cosa parlo. È giovane. Di bell’aspetto. Le ragazze… sono sempre le ragazze… dicono di lui ogni genere di cose. Ogni genere. Ma bisogna imparare a non farsene fuorviare. E io credevo di esserci riuscita. Anzi, ci credo ancora.» Di nuovo volevo parlare e, di nuovo, lei ha continuato, imperterrita. «Devo dirle» ha proseguito, alzando la voce, «che nutro seri dubbi su queste accuse. Seri dubbi, considerati la fonte e il tempismo.»

«Io…»

«Capisco che il primo a muovere l’accusa è stato Josh Whittaker, ma sarei sorpresa se non ci fosse Lena Abbott dietro tutto questo: Josh ha un debole per lei. Se Lena ha deciso di sviare l’attenzione dai suoi misfatti, come procurare farmaci illegali alla sua amica, per esempio, sono certa che può aver convinto Josh a farsi avanti con questa storia.»

«Signora Townsend…»

«Un’altra cosa che devo menzionare» ha aggiunto, senza permettere alcuna interruzione, «è che ci sono alcuni precedenti tra Lena Abbott e Mark Henderson.»

«Precedenti?»

«Un paio di cose. Innanzitutto, il comportamento di Lena a volte è stato inopportuno.»

«In che senso?»

«Lei flirta. E non soltanto con Mark. A quanto pare le hanno insegnato che è la maniera migliore per ottenere ciò che vuole. Molte delle ragazze lo fanno ma, nel caso di Lena, Mark sembrava pensare che si fosse spinta un po’ troppo oltre. Ha fatto delle osservazioni, lo ha toccato…»

«Lo ha toccato?»

«Sul braccio, niente di scandaloso. Ma si è avvicinata un po’ troppo, ed è stato necessario che parlassi con lei dell’accaduto.» Mi è sembrato che trasalisse al ricordo. «L’ho sgridata, ma lei non l’ha presa troppo sul serio, ovviamente. Credo che abbia detto qualcosa tipo “Sì, gli piacerebbe!”.» Mi è scappato da ridere, e lei mi ha guardata male. «Sergente, non c’è niente da ridere. Queste cose possono essere terribilmente dannose.»

«Sì, certo. Lo so. Mi scusi.»

«Bene.» Ha di nuovo stretto le labbra, un’espressione rigida che era il ritratto del puritanesimo. «Anche sua madre non l’ha presa sul serio. Il che non mi stupisce.» È arrossita, la rabbia le è affluita al collo, la voce si è fatta più decisa. «Non mi stupisce affatto. Tutto quel civettare, sbattere le ciglia e scuotere i capelli, quell’insistente, affettata manifestazione di disponibilità sessuale: da chi crede che Lena l’abbia imparato?» Ha inspirato profondamente, poi ha espirato, si è spostata i capelli dagli occhi. «La seconda cosa» ha detto, più calma, più controllata, «è un episodio risalente alla primavera. Questa volta non si è trattato di un tentativo di seduzione, ma di un’aggressione. Mark ha dovuto espellere Lena dall’aula perché si è mostrata irruente e piuttosto offensiva, e ha usato un linguaggio volgare mentre discutevano di un testo che stavano analizzando.» Ha lanciato un’occhiata agli appunti. «Credo fosse Lolita.» Ha inarcato il sopracciglio.

«Be’, questo è… interessante» ho commentato.

«Abbastanza. Potrebbe anche suggerire da dove la ragazza abbia preso lo spunto per quelle accuse» ha ribattuto Helen, il che non era affatto quello a cui stavo pensando io.

La sera, ho guidato fino al mio cottage temporaneo. Sembrava molto più solitario nel crepuscolo che si stava profilando, le betulle chiare simili a fantasmi sullo sfondo, il mormorio del fiume più minaccioso che allegro. Le sponde e il pendio di fronte erano deserti. Se avessi gridato, nessuno mi avrebbe sentita. Quando ero passata di lì di giorno, durante la corsa, mi era parso un tranquillo angolo di paradiso. In quel momento, mi ricordava di più il capanno disabitato di centinaia di film dell’orrore.

Ho aperto la porta chiusa a chiave e mi sono data un’occhiata veloce intorno, imponendomi, per quel che potevo, di non cercare il sangue sulle pareti. Ma il posto era in ordine e aveva il profumo acre di detersivo al limone, il caminetto era stato spazzato, una pila di legna era stata tagliata e sistemata con cura al suo fianco. Non c’era molto, era davvero più un capanno che un cottage: soltanto due stanze, un soggiorno con angolo cottura a vista e una camera con un piccolo letto matrimoniale con lenzuola pulite e coperte ripiegate sul materasso.

Ho spalancato le finestre e la porta per far uscire l’odore artificiale di limone, mi sono stappata una delle birre che avevo comprato al negozio lungo la strada e mi sono seduta sul gradino dell’entrata, a osservare le felci sul pendio di fronte, che nella luce del tramonto viravano dal bronzo all’oro. Mentre le ombre si allungavano, sentivo la solitudine che si trasformava in isolamento, e ho preso in mano il cellulare, senza sapere chi avrei chiamato. In quel momento mi sono accorta – ovviamente – che non c’era campo. Mi sono alzata e ho fatto un giro nei dintorni, agitando il cellulare in aria: niente, niente, niente finché non sono arrivata sulla riva del fiume, dove sono apparse due tacche. Sono rimasta lì un po’, con l’acqua che mi sfiorava le dita dei piedi, guardando il fiume nero che scorreva, rapido e poco profondo. Continuavo a pensare che mi sembrava di sentire qualcuno ridere, ma era soltanto l’acqua che fluiva agilmente sulle rocce.

Ci ho messo una vita a addormentarmi e quando mi sono svegliata di soprassalto, calda come quando hai la febbre, l’oscurità era totale, di un nero così profondo che non sarei riuscita nemmeno a vedermi la mano davanti alla faccia. Qualcosa mi aveva svegliata, ne ero sicura: un rumore? Sì, un colpo di tosse.

Ho allungato la mano per prendere il cellulare, facendo rovesciare il tavolino vicino al letto, che cadendo in quel silenzio ha fatto un rumore pazzesco. Cercavo il telefono a tentoni, d’un tratto attanagliata dalla paura, sicura che, se avessi acceso la luce, avrei visto qualcun altro lì nella stanza con me. Dagli alberi dietro il cottage sentivo un gufo che bubbolava, poi di nuovo: qualcuno che tossiva. Il cuore batteva troppo in fretta, e come una stupida ero paralizzata dal terrore di spostare la tendina sopra il letto, nel caso ci fosse stata, dall’altra parte del vetro, una faccia che mi guardava.

Quale faccia mi aspettavo di vedere? Quella di Anne Ward? Di suo marito? Ridicolo. Mormorando a me stessa parole di rassicurazione, mi sono fatta coraggio, ho acceso la luce e aperto le tende. Niente e nessuno. Ovvio. Sono scivolata fuori dal letto, ho indossato i pantaloni della tuta e una maglietta e sono andata in cucina. Stavo pensando di farmi un tè, ma ho cambiato idea quando ho scoperto una bottiglia di Talisker mezza vuota nella credenza. Me ne sono versata due dita e l’ho bevuto tutto d’un sorso. Mi sono infilata le scarpe, ho messo il cellulare in tasca, ho afferrato una torcia dalla mensola e sono uscita.

Le batterie della torcia dovevano essere quasi scariche. Il raggio era debole, non arrivava a più di un paio di metri davanti a me. Oltre, c’era l’oscurità totale. L’ho inclinata verso il basso per illuminare il terreno davanti ai miei piedi, e mi sono incamminata nella notte.

L’erba era fradicia di rugiada. Dopo pochi passi, le scarpe e l’orlo dei pantaloni erano tutti bagnati. Ho fatto il giro della casa, lentamente, guardando il raggio di luce che danzava tra i tronchi argentei delle betulle, una schiera di pallidi spettri. L’aria era dolce e fresca, la brezza trasportava un sentore di pioggia. Ho sentito di nuovo il gufo e il gorgoglio del fiume, e anche il gracidio ritmico di un rospo. Ho concluso il giro del cottage e ho iniziato a camminare verso la sponda del fiume. Il gracidio si è fermato di colpo, e ho sentito di nuovo qualcosa di simile a un colpo di tosse. Non era per niente vicino, proveniva dal pendio, da qualche parte oltre il fiume, e questa volta non sembrava neanche un colpo di tosse. Più un belato. Una pecora.

Vagamente imbarazzata, sono rientrata nel cottage, mi sono versata un altro goccio di whisky e ho afferrato il manoscritto di Nel Abbott dalla borsa. Mi sono raggomitolata sulla poltrona del soggiorno e ho cominciato a leggere.

Dentro l'acqua
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