Louise
Il dolore di Louise era come il fiume: costante e mutevole. Gorgogliava, straripava, rifluiva e riprendeva a scorrere. Alcuni giorni era freddo e oscuro, profondo, altri tumultuoso e abbacinante. Anche il suo senso di colpa era liquido, e si insinuava nelle crepe ogni volta che tentava di arginarlo. Aveva giorni migliori e giorni peggiori.
Il giorno prima era andata al funerale per vedere il corpo di Nel sprofondare sottoterra. Non era successo – avrebbe dovuto immaginarlo – ma Louise aveva comunque assistito mentre la portavano via, per ridurla in cenere. Perciò, tutto sommato, era stata una giornata buona. E poi dare sfogo alle proprie emozioni – aveva pianto per tutta la funzione, senza riuscire a fermarsi – era stato catartico.
Quello che aveva davanti adesso, invece, sarebbe stato un giorno bastardo. L’aveva sentita subito, appena sveglia: non una presenza, ma un’assenza. L’euforia che aveva provato nei giorni passati, il piacevole senso di vendetta stavano già svanendo. E adesso, con Nel diventata un mucchio di cenere, a Louise non era rimasto niente. Niente. Non poteva deporre il suo dolore e la sua sofferenza davanti alla porta di nessuno, perché Nel se n’era andata. E temeva che ormai l’unico posto dove poter esibire il proprio tormento fosse casa sua.
La casa di suo marito e suo figlio. Pazienza. Sarebbe stato un giorno bastardo, e lei quel bastardo lo avrebbe affrontato guardandolo negli occhi. Aveva preso una decisione: era il momento di voltare pagina. Dovevano andarsene da lì, prima che fosse troppo tardi.
Louise e suo marito Alec ne discutevano da settimane, anche se ormai il loro, più che discutere, era un parlare sommesso e affaticato. Lui era convinto che fosse meglio traslocare prima dell’inizio dell’anno scolastico. Avrebbero permesso a Josh di riprendere la scuola in un posto completamente nuovo, dove nessuno sapeva chi fosse. Dove non si sarebbe dovuto confrontare con l’assenza della sorella ogni giorno.
«Quindi non dovrà più parlare di lei?» chiedeva Louise.
«Ne parlerà con noi» replicava Alec.
Erano in piedi nella cucina, le voci stanche, esitanti. «Dobbiamo vendere la casa e ricominciare da capo» diceva lui. «Lo so,» aggiungeva, alzando le mani appena la moglie provava a protestare, «lo so che questa era casa sua.» Poi vacillava, appoggiando le sue mani grandi, chiazzate dal sole, sul bancone. Ci si aggrappava con tutte le sue forze. «Lou, dobbiamo farci una nuova vita, lo dobbiamo a Josh. Se fossimo soltanto io e te…»
Se fossero stati solo loro due, pensava Louise, avrebbero seguito Katie in acqua e l’avrebbero fatta finita. Oppure no? Non era sicura che Alec ne avrebbe avuto il coraggio. Aveva sempre pensato che soltanto un genitore può capire quel genere di amore, quell’amore che ti divora, ma adesso si chiedeva se non fossero unicamente le madri a capirlo. Alec soffriva, ovvio, però Louise non era certa che sentisse la stessa disperazione che provava lei. O lo stesso odio.
Così il loro matrimonio, che lei aveva sempre creduto indistruttibile, stava iniziando a incrinarsi. Non avrebbe mai potuto prevederlo. Ma adesso le era chiaro come il sole: nessun matrimonio è abbastanza forte da sopravvivere a una perdita come quella. Sarebbe stata sempre lì, in mezzo a loro, la consapevolezza che nessuno dei due fosse stato in grado di fermare Katie. Anzi peggio, che nessuno dei due avesse avuto il minimo sospetto. Entrambi erano andati a dormire, quella sera, e il mattino dopo avevano scoperto che la figlia non era nel suo letto. E nemmeno per un secondo avevano pensato che potesse essere in fondo al fiume.
Non c’era più speranza per Louise, e poca, a parer suo, per Alec, ma Josh era diverso. La sorella gli sarebbe mancata ogni giorno, per il resto della vita, però poteva ancora essere felice. Lo sarebbe stato. L’avrebbe portata sempre con sé, ma avrebbe anche lavorato, viaggiato, si sarebbe innamorato. Avrebbe vissuto. E la cosa migliore per lui era andare via da lì, lontano da Beckford, lontano dal fiume. Louise sapeva che il marito aveva ragione.
Da qualche parte dentro di lei lo aveva capito da tempo, solo che era restia ad ammetterlo. Tuttavia, il giorno prima, guardando suo figlio dopo il funerale, era stata assalita dal terrore. Quel visino pallido, inquieto. La facilità con cui trasaliva, sussultando a ogni rumore forte, rannicchiandosi come un cucciolo spaventato tra la folla. Il modo in cui con lo sguardo cercava continuamente lei, quasi fosse regredito alla prima infanzia e non fosse più un dodicenne, ma un bambino piccolo, timoroso e bisognoso di rassicurazioni. Dovevano portarlo via da lì.
Eppure… eppure era lì che Katie aveva mosso i suoi primi passi, che aveva imparato a parlare, a giocare a nascondino, a fare la ruota in cortile. Lì aveva litigato con il fratellino, e poi lo aveva consolato, lì aveva riso, pianto, gridato, imprecato, sanguinato e abbracciato la mamma ogni giorno quando tornava a casa da scuola.
Ma Louise ormai aveva deciso. Era una donna determinata, proprio come la figlia, anche se le costava uno sforzo immenso. Sarebbe stato difficilissimo alzarsi dal tavolo della cucina, trascinarsi fino alle scale e salirle, un gradino dopo l’altro, appoggiare la mano sulla maniglia, abbassarla ed entrare nella sua camera per l’ultima volta. Sì, perché quella sarebbe stata la camera di Katie solo per un giorno ancora. Dopo, sarebbe diventata qualcos’altro.
Il cuore di Louise era un blocco di legno: non batteva più, le faceva solo male, raschiando contro i tessuti molli, lacerando vene e muscoli, inondandole il petto di sangue.
Giorni migliori e giorni peggiori.
Non avrebbe potuto lasciare la stanza così com’era. Per quanto fosse difficile pensare di inscatolare le cose di Katie, mettere via i suoi vestiti, staccare le foto dalle pareti, ripulire le sue tracce e nasconderla alla vista, era anche peggio immaginare degli sconosciuti lì dentro. Era anche peggio pensare a cosa avrebbero toccato, agli indizi che avrebbero cercato, a come si sarebbero meravigliati che tutto sembrasse così normale, che Katie stessa, a giudicare da quella stanza, sembrasse normale. Lei? Possibile? Come può essere lei la ragazza che è annegata?
Quindi lo avrebbe fatto Louise: avrebbe tolto le cose della scuola dalla scrivania e raccolto la penna che un tempo aveva impugnato sua figlia. Avrebbe ripiegato la morbida maglietta grigia con cui dormiva e tolto le lenzuola dal letto. Avrebbe preso gli orecchini blu che Katie aveva ricevuto in dono dalla zia preferita per il suo quattordicesimo compleanno e li avrebbe riposti nel portagioie. Avrebbe preso la grossa valigia nera che stava sull’armadio dell’ingresso e l’avrebbe riempita con i suoi vestiti.
L’avrebbe fatto.
Era in piedi, in mezzo alla stanza, e pensava a tutte queste cose quando sentì un rumore alle sue spalle. Si voltò e vide Josh, fermo sulla soglia, che la stava fissando.
«Mamma?» Era bianco come un fantasma, la voce gli si strozzava in gola. «Che stai facendo?»
«Niente, tesoro. Sto soltanto…» Fece un passo verso di lui, ma Josh indietreggiò.
«Stai… stai svuotando la sua stanza adesso?»
Louise annuì. «Sto iniziando.»
«Che ne farai delle sue cose?» La voce si fece più acuta. «Le darai via?»
«No, tesoro.» Si avvicinò e allungò una mano ad accarezzargli i soffici capelli sulla fronte. «Terremo tutto, non daremo via niente.»
Sembrava preoccupato. «Ma non sarebbe meglio aspettare papà? Non dovrebbe esserci anche lui? È meglio se non lo fai da sola.»
Louise gli sorrise. «Sto solo iniziando» replicò, cercando di sembrare allegra. «A dire il vero, credevo che tu fossi da Hugo stamattina, quindi…» Hugo era un amico di Josh, forse l’unico vero amico che aveva. (Louise ringraziava il Signore ogni giorno dell’esistenza di Hugo e della sua famiglia, che erano sempre pronti ad accogliere Josh, quando aveva bisogno di una via d’uscita.)
«Ci sono andato, ma mi ero dimenticato il telefonino a casa, così sono tornato a prenderlo.» Alzò la mano per mostrarle il cellulare.
«Bene, bravo il mio bambino. Resti a pranzo da loro?»
Lui annuì e si sforzò di sorriderle, dopodiché se ne andò. Lei aspettò di sentire il rumore della porta d’ingresso che si richiudeva, poi si sedette sul letto e si concesse di piangere tutte le lacrime che le restavano.
Sul comodino vide un vecchio elastico per capelli, ormai allentato e consumato, con alcuni dei lunghi, scuri e splendidi capelli di Katie rimasti impigliati. Louise lo prese e se lo rigirò in mano, intrecciandolo tra le dita. Se lo portò al viso. Si alzò e andò alla scrivania, aprì il portagioie di peltro a forma di cuore e ci sistemò dentro l’elastico. Sarebbe rimasto lì, insieme ai braccialetti e agli orecchini. Non avrebbe buttato via niente, avrebbe conservato ogni cosa. Non lì, ma in un altro posto; avrebbero portato tutto via con loro. Nulla che fosse appartenuto a Katie, nulla che avesse toccato, sarebbe finito a languire sulla mensola impolverata di un negozio di seconda mano.
Louise portava la collana che Katie aveva indosso quando era morta: una catenina d’argento con un ciondolo a forma di uccellino. Le sembrava così strano che sua figlia avesse scelto quel gioiello in particolare. Non pensava fosse tra i suoi preferiti. Non quanto gli orecchini di oro bianco che lei e Alec le avevano regalato per il suo tredicesimo compleanno, che Katie adorava, oppure il braccialetto dell’amicizia (ribattezzato “il braccialetto della fratellanza”) che Josh le aveva comprato (con i suoi soldi!) durante la loro ultima vacanza in Grecia. Louise non riusciva proprio a capire perché Katie avesse scelto quella catenina: un regalo di Lena, dalla quale tuttavia negli ultimi tempi sembrava essersi allontanata un po’, e con incisa sul ciondolo la scritta (non proprio nello stile di Lena): CON AMORE.
Non aveva messo altri gioielli. Un paio di jeans, una giacca troppo pesante per le sere estive, le tasche piene di sassi. Anche lo zaino era stracarico. Quando l’avevano trovata era circondata di fiori, alcuni li teneva in mano. Come Ophelia. Come il quadro sulla parete di Nel Abbott.
La gente diceva che era assurdo, se non addirittura ridicolo e crudele, incolpare Nel per quello che era successo a Katie. Nel aveva scritto del fiume, ne aveva parlato, aveva scattato molte foto, intervistato parecchie persone e pubblicato articoli sulla stampa locale, e una volta aveva preso parte a un programma radiofonico della BBC dedicato allo Stagno delle Annegate, usando l’espressione “luogo di suicidi” e parlando delle sue amate “donne del fiume” come di eroine romantiche, donne coraggiose che avevano scelto di andare incontro alla morte liberatrice in quel luogo idilliaco. Ma tutto questo non bastava a ritenerla responsabile.
Però Katie non si era impiccata allo stipite della porta della sua camera da letto, né si era tagliata le vene o aveva preso una manciata di pillole. Lei aveva scelto lo Stagno. La cosa davvero assurda era ignorarlo, ignorare il contesto, ignorare quanto possano essere suggestionabili alcune persone particolarmente sensibili, soprattutto le più giovani. Gli adolescenti – ragazzini buoni, intelligenti e gentili – possono essere avvelenati da certe idee. Louise non capiva perché Katie lo avesse fatto, non lo avrebbe mai capito, ma era sicura che l’idea non le fosse venuta da sola.
Lo specialista da cui era andata solo per due sedute le aveva consigliato di non indagare. Che non avrebbe mai trovato una risposta alla sua domanda, che nessuno avrebbe potuto spiegarle il perché di quel gesto. Che in molti casi non c’è un’unica ragione a spingere qualcuno al suicidio: la vita non è così semplice. Louise, disperata, aveva ribattuto che Katie non aveva mai avuto episodi di depressione né era stata vittima di bullismo (avevano parlato con la scuola, letto le sue email, la sua pagina Facebook, e avevano trovato soltanto affetto). Era bella, andava bene a scuola, era ambiziosa, determinata. Non era una ragazza infelice. A volte era un po’ stralunata, nervosa. Aveva sbalzi d’umore. Ma era una quindicenne! E soprattutto non era un tipo riservato. Se fosse stata nei guai, ne avrebbe parlato con sua madre. Le diceva tutto, lo aveva sempre fatto. «Lei non aveva segreti per me» aveva assicurato allo psicologo, ma lui aveva distolto lo sguardo.
«È quello che pensano tutti i genitori» le aveva risposto, in tono calmo. «Ma si sbagliano. Tutti quanti.»
Dopo quel colloquio, Louise non aveva più voluto vederlo, ma il danno era fatto. Quelle parole avevano aperto una crepa e il senso di colpa ci si era insinuato: prima un rivolo, poi un fiume in piena. Lei non conosceva sua figlia. Ecco perché quella catenina le dava il tormento: non solo perché gliel’aveva regalata Lena, ma perché era diventata il simbolo di tutto ciò che Louise ignorava della vita di sua figlia. Più ci rimuginava, più incolpava se stessa: per essere stata troppo impegnata, per essersi concentrata troppo su Josh, per non aver saputo proteggere la sua bambina.
Il senso di colpa montava come una marea e c’era soltanto un modo per tenere a galla la testa, per non esserne travolta. Doveva trovare una spiegazione, individuarla con chiarezza e poter dire: Ecco. È stato per questo. Per quanto illogica fosse stata la scelta di sua figlia, Katie si era riempita le tasche di sassi e teneva dei fiori tra le mani. C’era un riferimento ben preciso, ed era stata Nel Abbott a fornirglielo.
Louise appoggiò la valigia sul letto, aprì l’armadio e iniziò a togliere i vestiti di Katie dagli appendiabiti: le magliette colorate, gli abitini leggeri, la felpa rosa shocking che aveva portato tutto l’inverno precedente. Le si appannò la vista e provò a evocare un’immagine che impedisse alle lacrime di cominciare a scorrere, così pensò al cadavere disarticolato di Nel Abbott nell’acqua e ne trasse tutta la consolazione che poté.