Trentacinque

In tribunale Alessandro e Nicola si presentarono puntuali, accompagnati dai genitori.

Aziz Bernardini faticò a far sedere i Latorri in fondo all’aula, per cui il processo sembrava uno spettacolo da godere da vicino. I genitori di Giulia, accanto ai Tosi, invece, erano subito dietro il banco degli avvocati. In piedi, al solito contro la colonna che era alle loro spalle, Giacomo Cataldo: corrucciato, con le mani sprofondate nelle tasche, come se non fosse tranquillo su quello che stava per accadere.

Alex, al centro del banco, era ben pettinato, composto in un completo di gabardine chiaro, con camicia rosa e cravatta scura. E portava gli occhiali. Anche Nicola, tra il pubblico, indossava sopra i jeans, puliti e stirati, una felpa blu senza slogan.

Bernardini stava in fondo al banco. All’inizio le cartelle che sarebbero eventualmente servite a Gilardi.

Bernardini andò nella hall ad aspettarlo. Fu allora che la vide. Si guardarono, lei gli fece un cenno con la mano.

«Che cosa ci fa, qui?»

Aprì le braccia. «Eh…»

Rientrando in aula, la cercò con gli occhi e la vide arrivare e sedersi dietro il banco del PM. Un testimone che non era stato previsto.

Max Gilardi e Adriana Santini arrivarono insieme. Si sorrisero.

«Vinca il migliore» gli mormorò lei, una frase che tra loro era diventata abitudine. «Cioè, io».

«Vedremo, dottoressa. Vedremo».

«Ho un testimone…»

«Tranquilla, non mi opporrò».

La stessa cosa la ripeté a Bernardini quando gli disse di aver incontrato la dottoressa Gianna Pascali, che ora era seduta dietro il banco dell’accusa. Aziz gli disse chi era e come l’aveva conosciuta, a casa di Amelia Cuotolo. «In relazione alle fotografie».

«Molto bene, stai tranquillo».

«Ci sono anche i fratelli del moldavo, Lara e i due ragazzini… Mi hanno mentito anche loro. Mi hanno preso in giro. Sono chiamati a testimoniare. Legga qui».

«Ma perché ti agiti? È nel pieno diritto dell’accusa convocare i testimoni che ritiene utili alla propria tesi accusatoria».

«Doveva comunicarcelo».

«L’ha fatto. Leggi con calma. Scusa, forse ho dimenticato di dirtelo, ma io sapevo che ci sarebbero stati. Diranno quello che hanno detto a te. E ci faranno un regalo».

«Come, un regalo?»

«Mettiti calmo, stai tranquillo. Ci stanno facendo un favore convinti di avere il processo in pugno. Vai a sederti e tieni tranquillo il ragazzo. Raccomandagli di rispondere a tono, senza commenti. Io penserò a questo, che mi sembra spaventato a morte». Diede un’occhiata in tralice ad Alessandro e gli sorrise. In cuor suo sperò che mantenesse quell’atteggiamento anche sul banco dei testimoni. La sua storia doveva commuovere.

Dopo le procedure di rito, iniziò il dibattimento. Adriana Santini sfoderò le armi più sofisticate del suo repertorio, alle quali seguirono esposizioni alternate dei fatti emersi, spesso interrotte da eccezioni accolte dal presidente. E finalmente si diede inizio al processo con l’interrogatorio di Alessandro Tosi.

Sulla sedia dove era stato fatto accomodare, oltre il banco degli avvocati, il microfono ben posizionato perché tutti potessero sentire le risposte, Alessandro Tosi era pallido, gli occhi arrossati, le mani che gli tremavano, la voce flebile per cui ogni volta bisognava chiedergli di ripetere la risposta.

«Non abbiamo sentito, vuole ripetere?»

«Vuole ripetere alla corte…»

«Alzi la voce, prego. Era un no?»

Adriana Santini con un sorriso gli passò davanti. «È tutto tuo» sibilò.

«Nessuna domanda» disse Gilardi. «Mi riservo di intervenire più tardi, se la corte me ne darà facoltà».

«Va bene, avvocato. L’udienza è sospesa, riprenderà alle quindici e trenta». Un colpo di martelletto che fece sobbalzare i non addetti ai lavori.

Gran rumore di panche smosse, flash, voci. Qualche risata.

Max Gilardi mise una mano sulla spalla del ragazzo. «Bene, Alex. Tutto bene».

«Grazie.»

Il processo era stato istruito contro Alessandro Tosi per l’uccisione di Nicolae Lovinescu. L’omicidio di Giulia Mauri entrava in causa esclusivamente per il sospetto che quella morte fosse da attribuire alle foto scattate dal ragazzo, ed esibite come prova per un eventuale ricatto da parte sua ai danni di Tosi – fattore che era considerato, per l’omicidio, come un’aggravante. Questo spiegava quei testimoni: i tre fratelli, che ripeterono, attraverso un traduttore scrupolosissimo, le accuse ad Alessandro basandosi sulle foto che Nicolae aveva ripreso ed esibito in sequenza. E la dottoressa Gianna Pascali, che ripeté con distacco quanto aveva sentito quel giorno dalla bocca della sua paziente, tale Amalia Cuotolo, impossibilitata a essere presente per motivi di salute.

Sullo schermo passarono e ripassarono le fotografie di Nicolae. Ogni testimone evidenziava un particolare. I ragazzini furono i più efficaci: avevano sentito la ragazza strillare contro qualcuno, che identificarono, attraverso le foto, con Alessandro Tosi.

«A lei, avvocato».

«Grazie signor presidente. Vorrei rivedere quelle foto».

«Ancora, avvocato?»

«Ancora, signor presidente. Con il permesso della corte vorrei sottolineare un particolare che forse è sfuggito».

«Che la prima foto non sia coerente con il resto, per via del motorino, l’abbiamo ampiamente discusso. Che cosa vuol dimostrare, avvocato?»

«Signor presidente, la prima foto aggiunta a caso, per dare coerenza al racconto dei due ragazzi, dimostra che tutte quelle foto sono state ordinate a posteriori e in quel senso per creare l’accusa contro il Tosi. Se avessimo il cellulare con cui sono state scattate ne avremmo la prova inconfutabile, ma questo non è necessario. E ora vi spiego il perché. L’unica immagine plausibile è quella che ritrae il mio assistito all’arrivo con la polizia. Le foto sono state sistemate volutamente secondo uno schema preciso e accusatorio. Che non ha tenuto conto…»

«Ma che cosa dice, signor presidente. La sequenza è perfetta».

«Un momento, dottoressa… dica, avvocato Gilardi».

«La sequenza è perfetta, ma chi l’ha costruita ha commesso uno stupido errore».

«Sì, l’abbiamo sottolineato» disse nervosamente Adriana Santini. «Il motorino… siamo ancora a quel punto?»

«No, mi dispiace. C’era il sole, quel giorno. Stabilito dalla polizia, erano le dieci e trenta del mattino. Come risulta chiaro, osservando queste foto, non sono i soggetti ma le ombre a determinare che queste foto sono state riprese in giorni precedenti e in ore diverse. Se consideriamo l’ombra di ciascuno sul muro ci renderemo conto che tra uno scatto e l’altro sono passati assai più di venti, trenta minuti. Questi scatti non dimostrano niente. Sono immagini riprese in giorni diversi e in ore diverse e messe insieme allo scopo di creare una prova accusatoria contro il Tosi, già scosso per la tragica morte di Giulia Mauri».

«E lo scopo?»

«Ricattatorio, suppongo. Ma possiamo farcelo confermare dai testimoni».

Ripassarono le foto tra il mormorio dell’aula e il martellare del giudice per ristabilire la calma. A tutti l’obiezione di Massimo Gilardi sembrò persino ovvia tanto era lampante.

Il verdetto, che non sorprese nessuno, dopo quella breve ed efficace arringa dell’avvocato Massimo Gilardi, fu di completa assoluzione per Alessandro Tosi. Non c’era premeditazione, perché quella notte il ragazzo non poteva immaginare che in casa stesse entrando proprio Nicolae: non aveva mai preso sul serio un ricatto montato su basi palesemente inconsistenti. Su quelle foto ci aveva riso. Aveva invece pensato che fosse entrato in casa un ladro.

La sua reazione fu considerata dalla corte necessaria per difendere un diritto minacciato, tra difesa e offesa, con l’attenuante inoltre del particolare stato emotivo del soggetto dopo l’aggressione mortale all’amica Giulia Mauri.

Gilardi dimostrò che si era trattata di legittima difesa, non di errore colposo, come illustrato nell’articolo 59 del codice penale.

Sottolineò ancora una volta lo stupido errore di quelle foto, che scagionava in modo evidente l’imputato Alessandro Tosi.

La sentenza fu accolta da applausi. In aula c’erano molti compagni di università di Alex, e molti amici del padre. Giuseppina Mauri abbracciò Gilardi.

«Grazie, avvocato».

«Non ringrazi me. L’ha salvato lo stupido errore che è costato la vita anche a quel balordo».

Anche Bernardini volle stringergli la mano. «Accidenti, avvocato: ma come ha fatto? Era sfuggito a tutti, quel particolare del sole».

«Lo so. Perché siete tutti partiti dal presupposto che Tosi fosse innocente. Dimostrare la colpevolezza di un innocente non è molto facile. Io invece lo ritengo colpevole…»

«Di aver ucciso Giulia?»

«Non posso risponderti di sì. Posso averlo considerato come possibile colpevole. Mi ha stupito che avesse la maglietta forse diversa, ma pulita. Che mentre camminava, uscito dalla casa, non cercasse di coprirla. Quella maglietta, probabilmente sporca del sangue di Giulia, era stata messa nella lavatrice con il resto per simulare un bucato normale. Quella nella lavatrice era la maglietta che aveva quando è entrato ed è uscito da Giulia e che nessuno ha fotografato. Sono partito da lì. Invece mi chiedo perché hanno fatto quel pasticcio con le foto. Non c’era un cane in quella strada…»

«No, avvocato. C’era un uomo con un cane, ora che mi ci fa pensare. Non mi ha detto di averli visti, ma forse i ragazzini hanno visto lui e sono stati disturbati. Quando hanno pensato al ricatto, hanno ricostruito a modo loro, con foto che avevano già scattato, la storia che hanno raccontato. Deve essere andata così. La storia che hanno raccontato è vera, ma le foto, no». Gilardi gli sorrise. «Ma io… sono frastornato».

«Lo so, capita anche a me. Noi non siamo la giustizia. Noi possiamo soltanto applicarla al meglio. Non sono stato io a salvare Alessandro Tosi dalla galera, ma uno stupido errore che è sfuggito a tutti. E io ho fatto il mio dovere: io l’ho difeso».

S’interruppero per salutare i genitori di Alessandro. «Grazie, avvocato».

Anche Alessandro si avvicinò a Gilardi. «Grazie… è tutto finito?»

Lo guardò corrugando la fronte. «Sei sicuro?» gli rispose adagio, muovendo appena le labbra.

Sei sicuro?

Con Giacomo Cataldo uscirono dalla porta e dal corridoio laterali, che erano diventati la loro via di fuga dopo ogni processo, per evitare telecamere e flash.

«Hai capito, avvocato? Innocente, secondo te?»

«Innocente secondo il tribunale che l’ha giudicato».

«Ma tu sai che è colpevole. Tu sai che è stato lui! Quello stupido errore che è sfuggito a tutti… tu l’hai salvato per il fondo dei calzoni per uno stupido errore. E non ti fa schifo? Ma come fanno a piacerti ’sti mascalzoni?»

«E a te chi te l’ha detto? A me i miei clienti non piacciono mai. Hanno diritto alla migliore difesa, e questo è il dovere che io ho accettato in piena coscienza. È la giustizia che li assolve, io sono soltanto il mezzo».