Ventisette
Aperto il portone, Alex lo riconobbe dalla statura. L’aveva intravisto una volta nel corridoio dello studio di Aziz Bernardini e ne era rimasto colpito.
‘Ma quanto è alto?’ si era chiesto. ‘Ma alto assai…’
«Avvocato Gilardi. Tu devi essere Alessandro».
«Sì, sono io». Alex fece un cenno con il capo verso la porta di casa. «È di là».
«Toccato niente?»
«Ci vivo, è casa mia».
«Certo, suppongo che ci siano tue impronte. Ma sul ragazzo, sulla scena… hai toccato niente?»
«Ho toccato lui, volevo vedere se potevo fare qualcosa, se era vivo…»
«Andiamo bene… Vediamo».
Gilardi entrò in casa, diede un’occhiata intorno, poi abbassò lo sguardo sul ragazzo che era a terra. «E quei vetri?»
«Forse il tavolino… non so, forse lo ha urtato cadendo».
«L’hai colpito con quello?» chiese Gilardi indicando il bastone.
«Sì».
«Sei tu che giochi a golf?»
«Sì, campione giovanile…» Con il braccio gli indicò la sacca ai piedi della scala. «Quando ho sentito dei rumori sono sceso al buio e la prima cosa che mi è venuta in mano… non pensavo di ucciderlo, volevo soltanto spaventarlo».
Gilardi diede nuovamente un’occhiata alla mazza. «Shaft in acciaio, sbaglio?» Alex gli fece di sì con la testa. «Pesantina. Comunque ora chiamiamo la polizia e stiamo a vedere».
Mentre aspettavano, Gilardi salì in camera di Alex, mise la testa nelle altre stanze, poi si guardò attorno in quel soggiorno dove giaceva la vittima. Che dentro di sé continuava a definire ‘vittima’, ma che poi con la polizia avrebbe chiamato in altro modo. Magari ‘ladro’, ammesso che quel ragazzo avesse intenzione di rubare. Nella casa non sembravano esserci lussi, almeno non esposti.
«Avete una cassaforte, in casa?»
«Credo di sì, nello studio di mio padre, in fondo al corridoio».
«Quadri, gioielli?»
«No, lo saprei».
«Tenete soldi?»
«Forse l’incasso del negozio di mia madre. Mai somme stratosferiche… non so».
Gilardi gettò un’occhiata distratta e frettolosa al cadavere. «È un ragazzino, forse diciassette anni. Che cosa cercava in una casa come questa?»
«Soldi, che altro?» Stava ancora tremando.
«Probabilmente. Ma forse le tue mazze da golf: costano molto. Oppure iPhone, qualche oggetto elettronico… l’avevi mai incontrato prima?»
«Non ci ho fatto caso. Ci sono sempre alcuni ragazzini in strada, non sembrano italiani. Chiedono soldi ma non danno fastidio».
«Capisco». Gilardi alzò la testa come un segugio all’avvicinarsi della preda. «La polizia è arrivata» disse. «Tu mettiti là e parla solo quando sei interrogato. Nessuna impressione personale, soltanto i fatti. Con chiarezza e con ordine. Se ti fanno domande, prima di rispondere guarda me. Rispondi esclusivamente alle cose che sai per certe».
Non terminò la frase e andò incontro all’ispettrice Laura Buozzi, che conosceva.
«Lei qui, avvocato?»
«Sì, mi dispiace. Brutto guaio».
«Vediamo…» L’ispettrice si rivolse ad Alex. «Sei tu che l’hai colpito? Nome…»
Alex guardò la ragazza in divisa che gli stava di fronte. «Nome? Mi chiamo Alessandro Tosi».
«Abiti qui?» Fece un cenno con la testa. «Solo?»
«No, con i miei genitori, che però ora sono al mare per dei lavori».
La ragazza mise un foglio sul tavolo, erano in cucina. «Leggi e compila con le risposte. Poi firma in fondo, tre volte… qui, dove…»
«Sì, ho capito».
«Ma tu tremi».
«Non capita spesso di ammazzare qualcuno».
La ragazza si guardò attorno come se si accorgesse soltanto allora di trovarsi in una cucina. «Ti faccio una tisana? Ce ne avete?»
«Non lo so… forse là dentro». Non voleva la tisana, ma voleva restare da solo con quei fogli davanti, e rispondere con calma alle domande, anche se sembravano sciocche. «Devo rispondere a tutte?»
«Sì, a tutte… come si accende il gas?»
«È elettrico».
«Ah, così… Le tazze?» L’ispettrice Buozzi trovò anche le tazze e lo zucchero. Versò il liquido bollente in una tazza, ci mise due cucchiaini di zucchero e la fece scivolare sul piano del tavolo davanti ad Alex. «Ecco, bevi. Ha un buon profumo».
«Prendi… Ne prenda…» si corresse subito Alex, dopotutto era di fronte a un’esponente della polizia. «Ne prenda anche lei, prego».
«Sì, grazie. Un sorso soltanto». E lo guardò con tenerezza quasi materna.
Lasciarono le tazze vuote sul tavolo e tornarono in soggiorno. Intanto era arrivata la Scientifica, e anche la dottoressa Silvia Morini.
«Morto è morto. Età circa diciassette anni. Colpito alla testa violentemente con un corpo contundente che posso identificare in quel bastone da golf. Rilevati sulla mazza…»
«Testa» la corresse a bassa voce Gilardi.
La dottoressa Morini lo guardò, poi fece una smorfia. «Testa? Bene, rilevati alcuni capelli della vittima sulla testa del bastone da golf usato per colpirlo».
«Quanto violentemente?» chiese l’ispettrice.
«Abbastanza violentemente. Dato il peso dell’attrezzo non è stata necessaria troppa forza».
«Credo che l’ispettrice volesse sapere se è stata usata una forza attivata dall’intenzione di uccidere oppure se sia bastata una forza inconsapevole, che dato lo strumento e il gesto si sia rivelata in grado di uccidere».
«Certo, con una racchetta da tennis gli avrebbe fatto un po’ male. Al massimo un bernoccolo e una sbucciatura. Quell’arnese pesa, soprattutto fatto girare in aria come ha fatto lui. Io non posso stabilire se avesse intenzione di ammazzare il ladro. Posso solo dire che ci è riuscito. Anche in base allo strumento usato. Il resto è roba vostra. Posso andare? Mandatemelo in obitorio e tra un paio di giorni vi canterò tutta la sonata. Posso andare a dormire adesso?»
Si alzò dal posto che aveva occupato al tavolo da pranzo, raccolse le sue carte e si avviò alla porta. «Ci vediamo» disse.
«Grazie, dottoressa…»
Passandogli davanti, Silvia Morini gli lanciò un sorriso sbieco. «Anatomopatologa, avvocato. ’Notte».