Ventuno

Erano in tre. Il maggiore, forse sui diciott’anni, era anche il più alto: jeans con il cavallo appena sopra il ginocchio, una felpa con alcune scritte sbiadite, un berretto di cotone in testa. Gli altri due, che potevano essere sui dodici o tredici anni, avevano ricci sporchi e arruffati.

Ridevano, tutti e tre, mentre gli venivano incontro: il più grande avanti di qualche passo. Stava mostrando ad Alex un vecchio modello di smartphone, probabilmente rubato, che teneva stretto in mano.

E rideva. «Tu ammazzato ragazza» gli disse. Agitandogli davanti al viso l’apparecchio che teneva stretto nella mano. «Tu ammazzato ragazza…»

«Ma levati…»

«Noi qui… tu venuto e ragazza strillava, strillava». Mentre parlava, saltellandogli davanti, muoveva l’altra mano davanti alla faccia. La stessa cosa facevano gli altri due, alle sue spalle, ridendo come di uno scherzo.

«Strillava strillava strillava…» Il maggiore agitò la mano che aveva libera davanti alla fronte. «Strillava, poi silenzio e arrivato amico… qui c’è tutto. Polizia… tu andato come qui e tornato… polizia».

Alex si era fermato, guardandosi intorno: la strada era deserta. «Ma che cazzate stai dicendo, togliti dai coglioni, avanti».

«Polizia… polizia… noi qui. Tu comperi e noi cancelliamo… polizia e tu prigione».

«Alla polizia ti ci porto io: fammi vedere».

L’altro arretrò di un passo, con le spalle contro il muro della casa. Gli mostrò lo schermo dello smartphone.

«Questo tu che va… sei tu, vedi?»

«Ma fammi un piacere, vallo a raccontare a qualche fesso come te. Togliti di mezzo, altrimenti ti pianto un cazzotto su quella testa d’asino… Vattene, va’».

«Polizia… tu prigione. Tu paghi e io distruggo».

«Ma levati, va’…»

Mentre gli altri due ragazzini gli saltellavano davanti Alex li minacciò con il pugno chiuso e attraversò la strada.

Si era riconosciuto. Ripreso male, ma riconoscibile. Era lui. Che camminava lungo la cancellata del giardino di Giulia. Sì, era lui: serio, preoccupato. L’avrebbe riconosciuto chiunque.

Non voleva dirlo a Nicola.

Non poteva dirlo a suo padre.

Gli venne in mente l’avvocato. Forse era venuto il momento di raccontare tutto almeno a lui. Un gesto folle, inconsulto. Preso dalla disperazione per essere stato ingannato dalla donna che amava e dal suo amico migliore. Forse c’erano attenuanti per un gesto simile. Forse qualche anno di galera, poi suo padre…

Suo padre. Questo pensiero lo immobilizzò. Suo padre, no.

Chiamò Nicola. «Devo parlarti, dove ci troviamo?»

Decisero per il solito posto alla Marina. Alle cinque, dopo l’università.

Alle cinque.

Si lasciò cadere sulla roccia piatta che ormai avrebbe riconosciuto il suo sedere, tante erano le volte in cui ci si era seduto sopra: le braccia abbandonate tra le ginocchia aperte e la testa piegata da un lato.

«E allora?» chiese Nicola. Sempre quel tono, che lo faceva sentire più grande di tutti gli altri, anche quando gli altri avevano più anni di lui. «E allora? Ti vuoi sbrigare?»

Alex lo guardò, mordendosi le labbra. «Mi stanno ricattando» disse in fretta.

«Ricattando? Chi? E per che cosa? C’eravamo soltanto noi due. Non penserai che io… se è per quel cinquanta che mi hai dato… ehi, sentimi, appena li ho te li ridò. Che cazzo dici?»

«Hai finito? Mi stanno ricattando». E gli raccontò dei tre che lo avevano fermato per strada. Li aveva rivisti, dopo quella volta, lo stavano aspettando. Ma c’era altra gente sul marciapiede, così lo avevano lasciato passare, mostrandogli però lo smartphone. «Che cosa devo fare?»

«Hai chiesto quanto vogliono?»

«No di certo. Secondo te mi metto a trattare con loro? Io pensavo di andare dall’avvocato».

«Ti sei bevuto il cervello? Metti di mezzo anche me, te lo ricordi? Io ti ho coperto, ho cancellato le tue impronte. Ehi, coglione: non ci vado in galera per te. Ti ho aiutato, ma mi lasci fuori. Ho già le mie grane per le forbici… ma l’avvocato dice che me la caverò. Ora ci manchi tu. Con ’sta storia. Non mi mettere di mezzo, hai capito? Io voglio finire l’università e voglio andare in aeronautica, questo voglio. E non lascerò certo che un cacasotto come te mi cacci nei guai». Alzò il pugno verso l’amico, ma senza fare minaccioso, era soltanto un gesto. «Hai capito?»

«E allora che faccio? Mi lascio ricattare?»

«Intanto nega tutto e chiedi quanto vogliono per togliersi dai piedi. E senti: magari con due o trecento euro te la cavi».

«Poi ritorneranno».

«Poi tu te ne andrai in Inghilterra e vedrai che la smetteranno. Dalla polizia loro non ci guadagnano niente».

Alex fece di sì con la testa.

«Ma tu non pensi mai, accidenti? Devo sempre arrivare io? Perché dovrebbero andare alla polizia? Con un apparecchio rubato… e da dove vengono, poi? A loro conviene che tu resti vivo e vegeto. Duecento euro e se tornano, li minacci, gliene dai ancora cento… poi tu te ne vai e la giostra si chiude. Non perdere la testa, Alex, non è proprio il momento. Hai capito?»

«Sì, ho capito. Grazie, sai? Ero davvero spaventato».

«Ragiona, invece». Si era alzato e stava passandosi le mani sui calzoni. «Falla lavorare quella testa che hai, che non sei scemo. A loro conviene che tu resti in circolazione… Magari spaventali, minacciali tu. Vedrai che si stancano».

«Potrei prendergli lo smartphone…»

Nicola sbuffò. «Avranno di sicuro delle copie delle foto. Comunque diglielo, minacciali. Tireranno la corda finché potranno succhiare, ma ti vogliono vivo e libero. Ricordati solo questo».

«Sì, me lo ricorderò. Certo che se ci vedessero insieme, saprebbero che siamo in due».

«Vuoi che venga con te? Si può fare. A che ora li trovi?»

«Forse mi tengono d’occhio, me li trovo per strada quando vado a prendere la macchina per andare dall’architetto Salvini».

«Va bene allora, domani ci troviamo a casa tua e facciamo la strada assieme. Poi mi faccio crescere le tette per allattarti, porco cane». Gli batté la mano sulla spalla. «Ciao, vecchio. E stai su di giri che ce la faremo».