Diciassette

«L’esame?»

«Andato. Ma sono stufo, ho voglia di piantar lì. Non ci sto più con la testa».

«Ma sei scemo? Quanto ti manca?»

«Due anni…»

«Già, tu finisci un anno dopo. Non far lo scemo. Vuoi buttar via tutto quello che hai studiato, per fare che?»

«Vorrei che mio padre mi mandasse in Inghilterra, vorrei soltanto giocare a golf».

«Figurati tu… ti ci mandano subito, in Inghilterra».

«Mi hanno lasciato andare a Roma».

«Che è voltato l’angolo. Stai certo che in Inghilterra non ti ci mandano di sicuro. Prima o poi inizierà il processo, te lo sei scordato?»

«Ma se noi non c’entriamo!»

«Io c’entro, te lo sei dimenticato? O mi vuoi piantare nelle grane, solo a ’mme, il più fesso?»

«Non dire cazzate. Non so che cosa avrei fatto senza di te».

«Lo so io che cosa avresti fatto, scemo che sei… Saresti in galera a studiare».

«Sì, davvero… come potrò mai dirti…»

«Senti, piantala, ’ste moine mi fanno schifo. L’abbiamo schivata, e non pensarci più. Invece, è venuta a trovarmi mamma Pina».

«Perché a te? Io non l’ho più rivista».

«Ora stanno al Residence de’ Fiori… è vicino a casa tua. Ma stanno cercando casa dalle mie parti. Allora ha suonato il campanello e io ero in casa».

«Come sta?»

«Come vuoi che stia, povera donna. A lei importa poco chi le ha ammazzato la figlia. A lei importa che Giulia non c’è più… Credo che per un genitore sia insopportabile sopravvivere a un figlio. Anche se sai che è malato, che non è felice. Che è un farabutto o un ladro. Ma non vuoi seppellirlo tu».

«Sì, immagino di sì».

«Mi ha fatto impressione. Sorride. Con me è stata affettuosa e mi ha chiesto di te. Con quel dolore che glielo vedi in fondo agli occhi. Valla a trovare».

«Sì, mi farò forza e andrò a cercarla al residence. Spero di farcela».

«Accidenti… sì, devi farlo».

Erano arrivati in fondo al viale e si fermarono.

«Tu che stai facendo, ora?» chiese Alex.

«Sto preparando due esami, sono pieno fino al collo. Appena ne esco, ci vediamo. Hai più sentito l’avvocato?»

«No, perché? Doveva chiamarci?»

«No, chiedevo… Accidenti, ho finito le sigarette». Nicola si batté con le mani le tasche dei jeans, davanti e dietro. «E ho lasciato i soldi a casa. Hai dieci euro da prestarmi?»

Alex gli allungò un biglietto da cinquanta.

«Te li rendo… ci vediamo?»

«Sì, non ti preoccupare. Andrò da mamma Pina. Ciao. E in culo alla balena per gli esami. Fatti vivo…»

«Sì, ciao». Nicola gli mostrò il biglietto da cinquanta euro che aveva ancora in mano. «E grazie, sai…»

I due coniugi Mauri stavano seduti in punta alla sedia, con la schiena diritta, come se non fossero comodi in quella posizione. Giuseppina Mauri aveva appoggiato le mani sulla scrivania, come i bambini a scuola.

«Le mani sul banco, voglio vederle… sono pulite?»

E i bambini di quelle elementari mai dimenticate, con le mani sul banco, rigirandole in modo da nascondere le macchie di colore o d’inchiostro.

«Le mani…»

«Dunque lei mi conferma che sua figlia stava preparandosi a un provino canoro».

Pina Mauri alzò gli occhi. Quell’uomo che le stava seduto di fronte, il commissario capo Severino Silvestri, non era gentile come l’avvocato Gilardi: la intimidiva. Come se avesse il diritto di dubitare di quello che diceva. Come se le rimproverasse di aver permesso a qualcuno di ammazzarle la figlia.

«No che non glielo confermo. Glielo sto dicendo così come lo so io. Mi sono ricordata di una compagna di università di Giulia, che un paio di volte era venuta a casa nostra a studiare. Aveva i capelli rossi, certo non naturali. Si truccava e si vestiva in modo molto diverso da Giulia. Non so perché, ma ho pensato che se Giulia voleva fare un provino come cantante, quella fosse la persona giusta alla quale chiedere un parrucchiere e una sarta. Ci sono arrivata così».

Gli raccontò del loro incontro e del nome di quel parrucchiere che era riuscita a strapparle di malagrazia.

«Le ha detto perché Giulia voleva un nuovo parrucchiere?»

Pina Mauri scosse la testa.

«Quindi lei è andata da questo parrucchiere…» Sbirciò un foglio che aveva sulla scrivania. «Bob Guateri di Fair Lady: questo?»

«Sì, questo». E gli raccontò di quella visita e della parrucca con il nome e l’indirizzo di sua figlia. Anche l’acconto: cinquanta euro. «Ho pagato, loro mi hanno dato lo scontrino e mi sono portata via la parrucca in una cappelliera del negozio. Dentro avevano lasciato il foglietto con il nome, la ricevuta dell’acconto e l’indirizzo di Giulia».

«Ho capito. E le hanno detto perché Giulia volesse una parrucca?»

Giuseppina Mauri fece di sì con la testa. Ma in modo dubbioso. «Mi hanno parlato di un biondino che era con lei. Sa, uno di quelli…»

«Vuol dire omosessuale?»

«Sì, omosessuale». E arrossì lievemente: non le riusciva di parlarne senza imbarazzo. «Sì… Lui aveva scelto la pettinatura e il colore. Da lui avevano sentito che stavano cercando anche un vestito adatto. Così ho saputo di quella sartoria teatrale».

«Dove ha trovato il vestito che sua figlia aveva scelto per quel provino».

«Questo è quello che pensiamo noi, sì». A voler sottolineare che non c’erano prove certe che Giulia volesse fare un provino, ma che era molto probabile.

«Lei ha portato a casa questi indumenti e suo marito li ha bruciati. Dove?»

Questa volta toccò a lui. Non alzò neppure gli occhi. «Nella caldaia della Forensi, a Cestara, la fornace dove lavora mio cognato. Li ho gettati là dentro».

«Perché?»

L’uomo questa volta dovette guardare in faccia il commissario capo. Ma di sfuggita, riabbassando subito gli occhi a cercare quella macchia d’inchiostro che era sulla scrivania, proprio verso il bordo dalla sua parte. «Era roba del diavolo» disse a labbra strette.

«Scemenze» lo rintuzzò la moglie con durezza. «E insieme hai bruciato gli scontrini dove loro avevano scritto l’indirizzo di Giulia. Sapevano dove abitava».

«Non è un indizio sufficiente. Comunque a noi basta che lei abbia visto quegli scontrini e quello che vi era annotato. Semmai volessero negarlo, ma non credo. E comunque l’esercente ha una copia degli scontrini. Perché avrebbero dovuto far del male a sua figlia? Era una cliente, se fosse diventata famosa, per loro sarebbe stata tanta pubblicità… sinceramente non credo che sia importante. Questo è tutto?»

«Sì, è tutto quello che sappiamo».

«Vi costituirete parte civile nell’eventuale processo?»

Giuseppina Mauri stette a osservarlo, prima di chiedere: «Ma l’assassino dov’è?»

«Lo troveremo, questo glielo prometto». E, come faceva da ragazzino quando prometteva qualcosa di importante a sua madre, si batté il pugno chiuso sul petto. «Di questo stia sicura. Avete un legale di vostra fiducia che vi assiste?»

«Ci hanno dato questo» disse spingendo verso di lui un biglietto da visita.

«Già, e i due ragazzi?»

Pina Mauri alzò la testa di colpo. «I due ragazzi, chi? Nicola e Alex? Che cosa c’entrano? Ne sapevano come noi».

«È sicura?»

«Certo che sono sicura. Ne avrebbero discusso, sarebbe saltato fuori… no, avanti. Hanno detto che non ne sapevano niente e io so che è vero. Immaginando che sarebbero stati contrari a questa idea del provino, Giulia l’ha fatto di nascosto anche a loro. Una sorpresa per tutti doveva essere, questo credo io. E ci è riuscita, accidenti» aggiunse abbassando il tono di voce a un sussurro. Non voleva piangere. «No, i ragazzi, no…»

«Sicura?»

«Certo, gliel’ho detto».

«Quindi mi par di capire che lei esclude tassativamente anche l’ipotesi che possa essere stato uno di loro, magari per gelosia, in un momento di rabbia…»

«Non vada avanti, la prego. Non sa quello che dice. Lei non li conosce come li conosco io. L’altro giorno ho visto Nicola, che è il più forte dei due. Ho dovuto sgridarlo perché ha saltato l’esame, non se l’è sentita di farlo: ora deve ripresentarsi a febbraio. Piangeva, si rende conto? E lei non sa che ragazzo tosto sia. Anche Alex è uno straccio. Ora noi abitiamo in un residence dietro la nostra vecchia casa, ed è venuto finalmente a trovarmi. Non aveva avuto il coraggio di venire prima perché sapeva di non farcela. Ho dovuto essere io a consolare lui… No, non perda tempo con i due ragazzi, sono disperati quanto noi. Non immagina neppure quale affiatamento ci fosse tra quei tre. Più che fratelli, loro si amavano».

«Chi dei due?»

«Cose da ragazzi, non dia retta. Alex voleva sposarla dopo la laurea».

«E l’altro?»

«Non è da moglie, quello». Sorrise. «Nicola non è da moglie…»

«Però mi dicono…»

«Non dia retta, chiacchiere. Nessuno li conosce come li conosco io. Alex era innamorato e Nicola era un fratello. Tra di loro le cose stavano così». Rimise le mani sulla scrivania. «A che punto siete?» domandò.

«Glielo faremo sapere. Magari avremo ancora bisogno di voi».

«A disposizione, commissario. Sarà dura» aggiunse Giuseppina Mauri con un sospiro, «ma contate sempre su di noi. Vogliamo sapere chi ce l’ha ammazzata in quel modo e perché… che male aveva fatto, ’sta figlia nostra? Che male… Sempre a disposizione, commissario».

Silvestri evitò di ricordarle che era commissario capo. Ci teneva, ma non gli sembrò il caso. Quando richiuse la porta alle loro spalle, scosse la testa.

Il padre credeva ai diavoli e la moglie ai santi.

Aveva assolutamente bisogno di parlare con qualcuno che avesse i piedi per terra. Sulla scrivania era rimasto il biglietto che gli aveva dato la signora Mauri: lo rivoltò per leggerlo.

Avvocato Massimo Gilardi.

Accidenti, pensò. Se un avvocato come lui aveva accettato di sostenerli in una causa come quella, un sospetto ce l’aveva di sicuro. E doveva essere grosso assai.

Ma assai assai, per smuovere un pezzo da novanta come l’avvocato Massimo Gilardi.

Forse… con due dita si pizzicò il naso. ‘Due chiacchiere, che male mi fanno?’