Cinque
Quando entrarono in casa, i genitori di Alex avevano l’aria di quelli che sapevano già tutto ed erano afflitti. Anche preoccupati.
«Com’è successo?» chiese la madre. «E tu… si sa chi è stato?»
«No… non so. Ci hanno interrogati…» rispose Alessandro.
«Tu e quell’altro».
«Sì, Nicola. Abbiamo detto quello che sapevamo. Cioè, niente. Lui le ha tolto le forbici… basta, ma’. Non voglio più parlarne. Basta…»
«Forse dovremmo telefonare ai Latorri, sentire anche loro».
«E perché? Che cosa c’entriamo?» intervenne il padre. «Hai letto, no? Alex è arrivato con la polizia, che cosa c’entra lui? Io non devo sentire nessuno e non devo parlare con nessuno. Adesso in negozio, mi raccomando», aggiunse, rivolto alla moglie, che aveva un negozio d’abbigliamento, «niente chiacchiere. Se ti chiedono qualcosa, noi sappiamo quello che c’è scritto sui giornali. Capito? Muti… lo dico anche a te. Non hai un esame tra tre giorni?»
«Una settimana».
«Bene, tu pensa agli esami e qui ci badiamo noi. E adesso ceniamo, che ho fame».
L’uomo mangiò da solo. Alex e sua madre guardarono le melanzane nel piatto, le rimescolarono un po’ con la forchetta, poi appoggiarono le posate a croce, una sopra l’altra. Un gesto per dire che non avevano fame.
«Neppure il gelato che ho comperato qua sotto?»
Alex disse di no, neppure il gelato voleva.
Poi il suo cellulare suonò e si alzò da tavola per rispondere.
«Che cosa c’è? Sono tornati i tuoi?»
«Sì, tornati. Anche mio fratello. Domani vuole andare da un avvocato, che era suo compagno di scuola».
«Perché un avvocato?»
«Dice che è meglio. Vieni anche tu?»
«No, che cosa c’entro? Lui vorrà proteggere te».
«Vabbè, glielo dico. Se accetta, ti chiamo. E i tuoi?»
«Sconvolti. Specie mia madre. Ora la faranno lunga… non mi lasceranno in pace».
«Sei pronto con l’esame?»
«Sì, sai che cosa me ne frega? Ho quella scena sempre davanti agli occhi».
«Piantala. Vuoi uscire?»
«No, non me la sento… resto a casa».
«Allora, ciao. Se hai bisogno, chiamami».
Alex avrebbe voluto essere come Nicola. Avere il suo carattere, la sua freddezza.
Ancora il cellulare. «Che cosa c’è? Ti ho detto che non esco».
«L’ho capito. Mi presti il tuo motorino? Il mio l’hanno…»
«No, dài, l’ho appena ripulito…»
«Mica te lo sporco. Il mio è rimasto in garage dietro le macchine, è un casino. Avanti, che ti costa?»
Conosceva Nicola, sapeva come trattava il proprio motorino, gliel’avevano rubato due volte. Ma non riusciva a trovare la forza di dirgli no.
«Non puoi farti venire a prendere…»
«Ma quante storie, accidenti. Che sarà mai? Tienitelo, vabbè. Grazie tante… ’na volta un favore!»
«No, senti…»
«Senti tu. Non me ne frega niente del tuo motorino, ne trovo finché ne voglio di quelli che mi prestano il motorino. Starò a pregare te… Grazie tante».
«No, senti… vieni, l’ho giù in garage. Vado a vedere».
«Allora, vieni da me, poi ti riaccompagno a casa e te lo riporto domattina. Ne hai bisogno?»
«Non importa… Scendo e arrivo».
«Sveglia!»
Quando lo vide uscire sua madre alzò la voce. «Dove vai?»
«Nicola ha bisogno del motorino, glielo porto».
«Perché non usa il suo, quello? Sempre tu che corri».
«Sì, se ne approfitta perché tu gli dici sempre di sì» rincarò suo padre. «Quel ragazzo non mi piace. Togliere le forbici dal petto della ragazza: un cretino».
Quando Alex tornò a casa, salì direttamente in camera sua e si lasciò cadere sul letto.
Aveva ammazzato una ragazza. Che amava. Un amico gli aveva salvato la testa, ma ora non avrebbe più potuto rispondergli di no. Non avrebbero più litigato, come facevano da quando erano ragazzini, per poi fare la pace scambiandosi un giocattolo. Ora Nicola sarebbe diventato il suo padrone. Questo pensava. Senza rancore, ma con la consapevolezza che non sarebbe mai stata una partita chiusa.
Si accorse di star piangendo. Quelle che sentiva scendere lungo la pelle formando chiazze opache sulla federa del cuscino erano lacrime.
Da quanti anni non piangeva così? Forse da quando era piccino e suo padre lo sgridava. Allora piangeva. Mai per una caduta o per un dentino da togliere. Mai perché la minestra non gli piaceva e non voleva mangiarla.
‘Sei un bambino brutto e cattivo’. Allora faceva il mento a cucchiaio, guardava suo padre, dal sotto in su, e piangeva. In silenzio. Perché nessuno se ne accorgesse, perché nessuno lo consolasse. ‘Sei un bambino brutto e cattivo’.
Sì, era rimasto un bambino brutto e cattivo di ventidue anni.
E aveva amato una ragazza che l’aveva tradito.
Quante risate si erano fatti quei due, alle sue spalle? Alle spalle del povero scemo che voleva sposarla.
L’aveva uccisa.
Non riusciva a rivivere quel momento. Non riusciva a rivedere se stesso mentre allungava la mano sul tavolo… perché quelle forbici erano lì? Perché lei aveva urlato: ‘Vattene, sei ridicolo!’?
Vattene, sei ridicolo.
‘Giulia, che cosa ci fai nuda in casa, con la porta aperta?’
‘E allora? È casa mia, non posso fare come mi pare?’
‘E la porta aperta? Chi stavi aspettando?’
‘Che t’importa? Saranno fatti miei… vattene ora, che ho fretta’.
‘No, voglio sapere chi stai aspettando… perché mi hai detto di venire a mezzogiorno, che dovevi studiare? E mettiti qualcosa addosso, accidenti’.
‘Lasciami, non mi toccare! La nostra storia è finita, non te ne sei accorto?’
‘Io ti amo, lo sai…’
‘Sì, anch’io, ma come un fratello. Io amo Nicola, sono pazza di lui’.
‘Nicola?! Stai aspettando Nicola? Come puoi farmi una cosa simile, è il mio amico’.
‘Bell’amico, quello. Che ti fotte la ragazza sotto il naso. Svegliati! E ora va’, ti ho detto di andartene. Voglio fare l’amore con Nicola… vuoi stare a guardare?’
‘Copriti! Non dire scemenze, tu non fai l’amore con nessuno. Io…’
Una risata. ‘Tu? Ma fammi ’sto piacere. Tu… vattene, va’. Vattene!’
‘Giulia, io ti amo’.
‘Ma smettila, avanti… Quello andrà bene per quando sarò vecchia, ma ora ho sangue nelle vene e tu non sai che cosa sia. Nicola invece sì. Vattene. Vattene!’ Stava urlando. E con il braccio gli indicava la porta. ‘Vuoi andartene, accidenti a te?’
Era stato in quel momento che aveva allungato la mano verso il tavolo, che era di fianco a loro. Non aveva nessun pensiero. Non voleva ucciderla. Voleva soltanto farla smettere di urlare. Voleva che ritornasse a essere la ragazza che lui amava. Giulia…
‘Vattene, sei ridicolo!’
Aveva allungato la mano verso il tavolo, forse soltanto per trovare un appoggio.
‘Vattene, mi hai stufato. Vuoi stare a vedere? È questo che vuoi? Ti prude? Vattene, va’! Sei ridicolo’.
Senza rendersene conto aveva afferrato quella forma d’acciaio lunga e stretta, che era vicina alla sua mano, e, senza capire che cosa fosse né che cosa stesse facendo, aveva alzato il pugno e si era scagliato contro Giulia. L’aveva vista barcollare. Forse aveva gridato. Forse era morta all’istante. Un fiotto di sangue, poi si era accasciata come un vestito vuoto. Prima che cadesse a terra l’aveva sorretta ed era caduto insieme a lei.
Il viso stravolto, gli occhi spalancati, le braccia in un gesto molle. Era morta.
Era stato allora, mentre tremava dalla testa ai piedi, che aveva sentito la porta che si apriva alle sue spalle. E la voce di Nicola. ‘Giulia…’
Stava ridendo.