Sedici

La tua mamma…

«Che cosa è successo?» Stava gridando. Carla aveva appoggiato la testa tra le braccia e piangeva, proprio come faceva quando era bambina: gridando ‘Mammaaa Mammaaa’, urlando e tossendo, con la voce rotta dai singhiozzi.

«Vuoi smetterla? Che cosa è successo?»

«Tuo marito… guarda… guarda».

«E cosa guardo… che ha fatto?»

«È venuto, con quell’altro matto di mio marito, hanno preso le cose di tua figlia…»

«Maria santissima… il vestito! E dove l’hanno portato?»

«Via, sembrava pazzo. Dice che vuole bruciare tutto. Non sai le cose…»

«Maronna benedetta, ma perché hai fatto ’sti ommn? Perché li hai fatti, ’sti ommn?… E ora dove è andato?»

«E che ne posso sapere? Ha fatto di tutto un fagotto…»

Giuseppina era corsa nella stanza in cui lei e suo marito stavano da quando erano tornati da Roma. La coperta del letto matrimoniale ricavato da un divanoletto era spiegazzata, ma il vestito, la parrucca e le scarpe erano spariti.

«Ha detto che bruciava tutta ’sta vergogna».

Pina si portò una mano alla testa, sembrò rassegnata. «Scemo, avevamo la prova che quelli della televisione sapevano l’indirizzo di Giulia. E lui l’ha bruciata…» Si era seduta di fronte a Carla. «Stasera ce ne andiamo» le disse.

«E dove ve ne volete andare? Non avete più una casa».

«Ce ne andiamo, vi abbiamo portato soltanto scompiglio. Io non voglio che tu litighi con tuo marito per colpa nostra».

«Ma quale colpa?»

«Insomma, ha ragione pure lui a non sopportare più ’sti giornalisti fuori dalla porta. C’ha ragione, lasciamelo dire. E anche tu, stai sempre a piangere. Questa è una cosa che è toccata a noi, dobbiamo sbrigarcela da soli. Avete fatto pure assai».

Quando suo marito rientrò a casa, la trovò in camera che stava facendo le valigie.

«Dove stai andando?»

«Dove andiamo, vorrai dire. A casa nostra non possiamo tornarci finché la polizia non ha finito. Me l’ha detto l’avvocato».

«E quale avvocato?»

«L’avvocato che difenderà i nostri diritti in una eventuale causa contro l’assassino di nostra figlia. Siamo parte civile».

«Tu ti sei bevuta il cervello… Un avvocato per che cosa? Se ne fregano che nostra figlia è stata ammazzata, magari da uno strapelato fuori di testa… se non ci sono soldi da prendere gli avvocati se ne fregano».

«Non alzare la voce. Io ho un avvocato serio e mi costituisco parte civile. Se vuoi, stai con me, altrimenti vado da sola. E ora fatti la borsa che dopo cena ce ne andiamo».

«E tutta ’sta fretta?»

«Nostro cognato non ci sopporta più, e c’ha ragione pure lui».

«E dove vorresti andare?»

«Mentre parli, fatti la borsa, avanti. Tieni le mani occupate. Andiamo al Residence de’ Fiori, che è proprio dietro casa nostra. Ho telefonato, avevano giusto un appartamentino libero. E intanto ci cerchiamo casa». Pina chiuse la valigia e con un gesto quasi stizzoso tirò la cerniera della borsa che aveva riempito. «Dove hai messo i vestiti di Giulia?»

«Bruciati! Vestiti del diavolo, quelli».

«Da scemo, pure tu. Avevamo la prova che quelli della televisione conoscevano l’indirizzo di Giulia. E tu te li sei bruciati».

«Ma a te chi te le dice ’ste cose?»

«L’avvocato, me le dice. Che ne sa più di te. Davvero davvero li hai bruciati?»

«Sì, li ho portati alla caldaia, nella fabbrica di Giovanni, e ce li ho buttati dentro. Con tutta quella scatola. Li ho guardati bruciare e mi pareva di aver fatto una cosa buona per nostra figlia».

«Vabbè, la prossima volta, quando vuoi fare una cosa buona, chiedimelo. Ora devo dire all’avvocato che la prova se l’è bruciata la caldaia di mio cognato Giovanni. L’unica prova che avevamo».

«Ne troveranno altre».

«Come no? Sono tutti in corsa a procurarci indizi per capire chi è quel maledetto che ci ha ammazzato la figlia».

E finalmente riuscì a piangere. In silenzio, come aveva sempre fatto. Sulla spalla di quell’uomo che aveva sposato per obbligo: sette mesi dopo era nata Giulia.

Il mattino seguente, svegliandosi nella nuova camera al Residence de’ Fiori, Giuseppina Mauri guardò fuori dalla finestra. Una mattina di fine estate, senza sole ma con quella nebbiolina umida che saliva dal mare.

Si rese conto che la strada che ora aveva di fronte era sempre stata lì, dietro la loro vecchia casa: eppure non l’aveva mai guardata. Mai viste quelle case a più piani, innalzate per creare nuove abitazioni a nuovi inquilini, nuove famiglie. Probabilmente non italiane. La strada era diritta, poche piante a segnare un marciapiede già invaso da vecchie macchine tutte in fila. Nessun fiore ai balconi ingombri di panni stesi. Pochi i negozi.

Quella era una Napoli che ora non voleva più vedere.

Chiuse la finestra con un brivido e fece il numero dello studio Gilardi.

«Mi dispiace, avvocato. Mio marito, non sapendo che erano importanti, ha bruciato quelle note della sartoria teatrale. Non ho più le prove che i tizi della tv sapessero il nostro indirizzo».

«Peccato, ma ne faremo a meno. Loro sanno che lei quelli scontrini li ha visti. Sarà la sua parola contro la loro. Un dubbio per il pubblico ministero è un punto a nostro favore. Non si preoccupi. Probabilmente il commissario Silvestri la chiamerà, vorrà parlare nuovamente con lei, dopo la scoperta di questi capi ordinati da sua figlia».

«Anche se non li ho più?»

«Distrutti anche quelli?»

«Sì, mi dispiace… non li ho più».

«Va bene, lei racconti al commissario come li ha recuperati, dove e da chi. Le crederà».

«Speriamo. Lei verrà con me?»

«Non sarà necessario questa volta. Siete stati convocati come persone a conoscenza dei fatti».

«Ma quali fatti? Non eravamo neppure qui».

«Certo. Vorranno sapere qualcosa su vostra figlia. Sui due ragazzi che conoscete fin da quand’erano piccoli. Cose di questo genere, stia tranquilla».

«Grazie, avvocato. E con me abbia pazienza».

Ora avrebbe voluto dirglielo che non era stata colpa sua.