Venticinque

Ora Alex aveva paura. Sabato, cioè domani.

Suo padre aveva deciso che lui e la mamma sarebbero andati due giorni nella casa al mare, perché erano necessari dei lavori.

Prima dell’inverno, aveva detto.

‘Vuoi venire con noi?’

Alex aveva risposto di no, doveva studiare.

‘Puoi studiare anche là, che cosa ci fai qui da solo?’

‘Studio… ho le mie cose’.

‘Ora non hai più neppure la ragazza’ aveva suggerito la madre con un sospiro.

Il padre aveva riso. ‘E che ne vuoi sapere, tu? Magari lo “studio” in realtà è quello… maschio, è!’ Suo padre ci teneva che si facesse valere anche da quel lato, com’era stato lui da ragazzo: non ne aveva persa una, di questo si vantava spesso. Ma dopo il matrimonio, mai. E non ci credeva nessuno, neppure sua moglie.

‘Ti ho lasciato nel frigo…’

‘Sì, mamma, vai tranquilla’.

‘Nel microonde…’

‘Sì, mamma, come sempre’.

‘Vatti a sgranchire al golf, hai capito? Ti devi tenere in allenamento, a marzo…’

‘Sì, papà. Al golf’.

E c’era andato davvero al golf. Era sabato, doveva rimanere calmo.

Era tornato nel tardo pomeriggio quando era scesa una nebbiolina umida. Non aveva telefonato a Nicola, non lo aveva detto a nessuno, questa volta avrebbe fatto da solo.

Gli avrebbe parlato da solo, a quel tale. Gli avrebbe fatto capire che non aveva paura, che la polizia gli aveva creduto. E che gli avrebbe regalato un po’ di soldi per fargli la carità. Magari gli avrebbe promesso anche un posto di lavoro da suo padre. Era pane e companatico. Non era calmo. Gli tremavano le mani mentre scaldava nel microonde le lasagne che sua madre gli aveva lasciato.

Mangiò svogliatamente guardando la televisione senza seguire quello che si diceva. C’erano stati dei morti da qualche parte. Forze di polizia contro malviventi.

Avevano giusto tempo da perdere con lui e con quel ragazzo squinternato che veniva da chissà dove. Slavo, pensò. Fuori di testa. Un ladruncolo. Questo gli avrebbe detto, per fargli capire che doveva star lontano dalla polizia perché avrebbe avuto tutto da perdere.

Le otto e mezzo, si disse piano.

Salì in camera sua e si lasciò cadere sul letto. A occhi chiusi. A ripassare tutto quello che avrebbe detto.

Potevano essere amici, se aveva bisogno di qualcosa lui l’avrebbe aiutato. Ma doveva smetterla con quella storia di ‘Strillava strillava…’: lui non c’era, era arrivato dopo.

Pensò persino di suggerirgli che si sbagliava, che forse era stato l’altro, cioè Nicola, a farla strillare. Nicola era pulito, poteva sostenerlo anche in tribunale sotto giuramento.

Gli sembrò una buona idea. ‘Forse era l’altro, ti stai sbagliando’.

Duemila euro non li aveva e non glieli avrebbe mai dati. Pochi spiccioli ogni tanto, al massimo, per tenerlo legato. E per tenerlo zitto.

Scese dabbasso. La porta d’ingresso si apriva sul soggiorno, una trovata dell’architetto che aveva disegnato la casa. Un soggiorno grande, con due divani, due poltrone e un tavolino quadrato al centro. In fondo, verso la parete, un mobile lungo e basso e il tavolo da pranzo, che usavano soltanto nelle grandi occasioni, con otto sedie, o quando veniva gente a cena. Altrimenti mangiavano in cucina, che era di fianco, oltre il corridoio che conduceva alla camera e al bagno dei genitori. Dalla parte opposta c’era la scala che saliva alla sua camera, lo studio, un piccolo spogliatoio e il suo bagno.

‘Così stai tranquillo. E anche noi’ gli aveva detto suo padre, quando aveva approvato il progetto. Strizzandogli l’occhio, per fargli sapere che lui, di queste cose, era pratico e approvava.

Alex era sempre stato da solo oltre quella scala che lo divideva dall’appartamento dei suoi. In quelle stanze c’era stata anche Giulia. Spesso anche quando i suoi erano in casa. Salivano in silenzio, chiudevano la porta e si abbracciavano ridendo.

Giulia…

Aveva rivissuto quel gesto mille volte. E per mille volte si era detto di no, non era stato lui. Non ricordava di aver stretto quelle forbici nel pugno. Di aver alzato il braccio, con forza, con disperazione. Accecato dalla delusione e dal dolore. Non era stato lui.

Non ricordava il gesto, ma ricordava l’urlo di Giulia. Le sue parole.

Vattene, sei ridicolo. Con quel cosino che hai in mezzo alle gambe che cosa vuoi da me? Vattene, sei ridicolo…

Con quel cosino che hai in mezzo alle gambe…

Se l’era ricordato all’improvviso.

Sei ridicolo. Con quel cosino che hai in mezzo alle gambe…

Era il suo segreto. Non si faceva vedere da nessuno. Gli altri compagni si spogliavano nudi per andare alle docce, lui mai.

Avanti, spogliati, non fare la monachella…

Qualcuno raccontava che era dell’altra parrocchia, ma poi ridevano: se così fosse stato Giulia non ci sarebbe mai stata. E invece ci stava, eccome.

Deve avere un affare da fenomeno.

Pensavano, anche al golf, che fosse così dotato che non si spogliava insieme a loro per non metterli in imbarazzo. Con una come quella Giulia, figuriamoci.

Non lo sapeva neppure suo padre. Sua madre, invece, gli diceva di non badarci, tutte sciocchezze. Una donna è felice anche se quel cosino è piccino. Basta a farla felice.

Lui ci credeva. Che bastasse.

Quella mattina, però, Giulia gli aveva sbattuto in faccia la verità con disprezzo.

Con quel cosino che hai in mezzo alle gambe che cosa vuoi da me?

Voleva farla tacere. Voleva che smettesse. Si era messa a ridere. Soltanto quando aveva sentito le forbici nella carne aveva urlato. Un attimo. Ed era morta.

Morta, senza che lui lo volesse. Senza che lui sapesse che cosa stava facendo.

Voleva soltanto che tacesse.

Zitta. Zitta. Zitta.

E aveva taciuto, infatti. Per sempre.

Giulia sarebbe stata zitta per sempre.

Con quel suo segreto strozzato in gola.