Tredici
Giuseppina Mauri si ricordò della macchina di Martina, una due posti rosso fiamma come i suoi capelli. La capote era abbassata e sul cruscotto c’era un pupazzetto che riconobbe subito: era lo stesso che Giulia portava legato alle sue chiavi.
Si appoggiò con la schiena alla portiera e guardò l’ora: era quasi l’una. Ora la ragazza sarebbe uscita dall’università, sarebbe arrivata alla macchina e l’avrebbe riconosciuta.
«Ciao, ti ricordi chi sono?» le disse non appena la vide.
«Certo, mi scusi sa… ma con tutto quello che hanno detto e scritto… Mi scusi». E l’abbracciò in un effluvio di mughetto.
«Ho bisogno di parlarti».
«Guardi che io non so niente, l’ho detto anche a quelli della tv. Non avevamo confidenza io e Giulia. Sono venuta da lei due o tre volte… era più brava di me in inglese e in storia. Questo lo sa anche lei, vero? Non eravamo amiche, l’ho detto anche a quelli della tv».
«Io non sono la tv, Martina. Era mia figlia». Non si sarebbe commossa, non davanti a lei. «Con me puoi parlare tranquillamente. Tu sapevi che stava preparandosi a un provino per cantanti?»
Martina si mordicchiò le labbra scuotendo la folta capigliatura rosso fiamma. «Se ne dicono di cose…» E intanto muoveva le chiavi, tra le mani, perché Pina Mauri capisse che aveva premura.
«Mi basta soltanto sapere se è vero. Se andava dal tuo parrucchiere, per esempio. Se si stava preparando a questo provino. Non sono cose gravi, sono utili a me. Fai conto che avesse ordinato delle cose e non le avesse pagate… devo pensarci, no?»
«Non lo so se faccio bene. Senta, io non lo so davvero. Mi aveva chiesto qual era il mio parrucchiere, voleva cambiare colore. Io faccio l’henné. Le avevo detto chi era, ma non so altro». Aveva alzato il tono della voce, come a farsi sentire da tutti gli altri che stavano arrivando alla spicciolata alle loro vetture, motorini, motociclette e biciclette. «Io non so niente» ripeté. «E ora mi scusi, ma sono di fretta».
«Certo. E chi è questo parrucchiere? Magari gli devo dei soldi».
«Sì, allora… Il negozio si chiama Fair Lady, come il film. Lei va per XX Settembre, prima del rondò c’è una strada a sinistra… no a destra, mi scusi. È lì, il negozio lo vede certamente, perché ha una grande insegna a colori. Io non so altro, davvero. Mi scusi».
Era salita in macchina chiudendo la portiera con forza. Mentre metteva in moto si infilò un paio di occhiali neri e a gesti salutò qualcuno che stava davanti a loro. La macchina si mosse lentamente e Pina Mauri si scansò.
Una cosa l’aveva saputa: Fair Lady. Ma il film non era My Fair Lady?
Comunque, avrebbe iniziato da lì.
Telefonò a Carla per avvertirla che non sarebbe andata a casa a colazione.
«Dove sei? Che cosa stai facendo? Non fare sciocchezze, dove sei?»
«Non mi sto ammazzando, non ti preoccupare. Sono con una compagna di università di Giulia, mangio con lei, erano amiche». Mentire le riusciva benissimo.
«E quando torni?»
«Quando ho finito, con calma. Stai tranquilla».
Sbuffò, chiudendo la comunicazione. In cuor suo sperò che suo marito, attraverso le sue conoscenze in Comune, trovasse una casa dove traslocare: la convivenza con sua sorella non avrebbe potuto durare a lungo.
Della vecchia casa non voleva niente, di questo era sicura. Ne voleva una tutta nuova, dai tappeti ai lampadari. Da quella casa maledetta non avrebbe portato via uno spillo. Da quella casa dove era passato il diavolo.
In un bar, seduta a un tavolino all’aperto, si fece servire un cappuccino e un toast. Dal tavolo vicino, che era vuoto, prese il giornale. In terza pagina scrivevano ancora di Giulia, questa volta avevano interrogato alcuni suoi compagni di università. Anche Martina, ritratta in una bella foto in primo piano. Nessuno sapeva niente, la vedevano giusto a lezione, e nessuno era a conoscenza del provino né sapeva chi fosse quello che l’aveva avvicinata per farla cantare.
Pina Mauri lesse il pezzo, senza stupirsi né commuoversi. Diritto di cronaca, fedele ai fatti.
‘Quali fatti?’ si chiese Pina Mauri, ordinando mezzo bicchiere di vino bianco, frizzante.
‘Quali?’
Nessuno conosceva i fatti, frantumati in mille schegge. Non ci stava riuscendo la polizia… perché un cronista avrebbe dovuto arrivare alla verità prima e meglio degli inquirenti?
Pina Mauri ripiegò il giornale. Non riusciva più a piangere, ma ora voleva la verità.
La strada era quella. E quella l’insegna: Fair Lady.
Ci passò davanti un paio di volte. Guardando oltre la porta a vetri si accorse che c’era gente che si muoveva convulsamente. Erano quasi le tre, e forse per questo parrucchiere alla moda era un’ora di punta.
Dalla vetrina apprese che in quel locale avrebbe trovato una serie di servizi speciali: massaggi con pietre, oli rilassanti, pomate e bevande dimagranti, creme ringiovanenti per pelli stanche. Trucchi e truccatrici. Parrucche di veri capelli. Profumi: l’ultima novità al mughetto.
Nessuna di quelle promesse era certamente diretta a una ragazza come Giulia: lei era un fiore. Lei era bella…
Si sorprese di quel verbo coniugato istintivamente al passato. Era bella.
Deglutì, poi con forza abbassò la maniglia di cristallo ed entrò.
«Ha un appuntamento?» le chiese una ragazza, vestita di rosa come un confetto.
«No… volevo parlare con il proprietario».
«Bob è impegnatissimo. I fornitori e gli agenti di vendita si ricevono il lunedì pomeriggio». La ragazza si era già avviata alla porta. «L’entrata per loro è dal portone accanto, mi dispiace».
«Anche a me. Sono la madre di Giulia Mauri» disse la donna con fermezza.
«Oh… mi scusi, signora. Ma siamo occupati, come vede…»
Quindi la conoscevano. «Anch’io ho premura. Volevo sapere se aveva lasciato un conto da pagare, se aveva ordinato una parrucca. Volevo regolare…»
«Aspetti, signora. Appena si libera Franca, la direttrice, la faccio parlare. Si metta qui, può sedersi. Lo vuole un caffè?»
«No, grazie. Aspetto».
Quasi un quarto d’ora. In piedi a guardare quelle donne impomatate, con i piedi nudi in mano a qualcuno che limava e lucidava le unghie. I capelli in riccioli di carta argentata.
Voci basse, e su tutte quella di Bob che dava istruzioni.
«Tu, Cesare, alla cabina quattro. Mi raccomando quel castano, il numero cinque… Giusi, la signora Ottolenghi aspetta… vogliamo offrirle la cena? Sbrigarsi! Franca! Dov’è Franca?»
E allora, finalmente, si accorsero di lei.
«Sono qui, Bob, lasciami stare. Devo parlare con questa signora… Venga, entriamo nel mio ufficio, altrimenti Bob mi sfinisce. Si sieda, le hanno offerto un caffè?»
«Sì, ma non voglio niente. Soltanto sapere se mia figlia veniva qui».
«È venuta due volte, mi pare. Ce l’aveva portata una nostra cliente. Voleva cambiare colore dei capelli ma aveva il timore che sua madre… cioè lei, non gliel’avrebbe permesso. Era molto bella, sua figlia».
Anche quella donna dai capelli biondi a onde sciolte e il viso sapientemente truccato per confondere gli anni, in uno sfoggio di gioielli probabilmente veri, aveva usato il verbo al passato. Era molto bella sua figlia…
«Sì, era molto bella. Allora?»
«Aveva ordinato una parrucca».
«L’aveva ritirata?»
«No, no, naturalmente».
«L’aveva pagata?»
«Lasci stare, signora, ma le pare? La venderemo a qualcun’altra».
«No, la vorrei io. Posso vederla?»
«Signora, posso solo immaginare che cosa prova…»
«Non credo. Mi scusi, posso vederla?»
La signora Franca la guardò un attimo perplessa, poi si convinse. Azionò il microfono. «Roberta, portami in studio la parrucca di Giulia Mauri, è pronta».
«Bob mi aveva detto di metterla in vetrina» rispose l’altra al vivavoce.
«Bene, la vai a prendere e me la porti qui. Subito!»
«Sì, signora Franca. Subito».
Era in vetrina. Allora l’aveva vista sulla testa di un manichino senza volto prima di entrare. Una specie di uovo bianco con le sole labbra rosso fuoco. Era bionda, non era rossa come i capelli di Martina. Liscia da una parte e a riccioli dall’altra… ma non l’aveva guardata bene.
Ora che l’aveva davanti, la riconobbe: era proprio quella.
«Le stava benissimo. L’aveva scelta con lo stilista della casa di produzione».
«Chi era?»
«Non lo so, non lo conosco. Era uno…» E fece un gesto significativo con la mano all’altezza dell’orecchio, che infastidì Pina Mauri. «So che la signorina doveva prepararsi per un provino. Cantava, sua figlia?»
Pina Mauri le rispose con un cenno del capo: stava fissando la parrucca bionda, cercando di immaginare il viso di Giulia con quei capelli attorno. Sì, doveva essere bellissima.
«Sa, qui non facciamo domande».
«Certo. Non l’aveva pagata, immagino».
«No». La signora Franca sembrò imbarazzata. «Aveva dato un piccolo acconto. A noi bastava per sistemargliela sulla sua misura».
«Quanto le devo?»
Sempre al microfono la signora Franca richiamò Roberta. «Una cappelliera, la signora ritira la parrucca. Subito».
Mentre Pina Mauri provvedeva a pagare la fattura, Roberta aveva ritirato la parrucca e poco dopo era tornata con una elegante cappelliera verde a nodi d’amore: Fair Lady.
«La ringrazio». Ora lei e la signora Franca erano in piedi, una di fronte all’altra. Si stavano guardando come se non fosse ancora arrivato il momento di salutarsi.
«Io non so chi era né che cosa faceva, quel tizio. Se lo sapessi glielo direi, deve credermi. Però ho sentito, mentre erano qui e decidevano della parrucca, che lui le parlava del vestito».
«Sa dove lo aveva ordinato? Magari aveva dato un piccolo acconto anche lì, mi dispiacerebbe».
«Certo che lei è una persona perbene, ce ne fossero tante come lei. Qui lasciano chiodi per anni… e non le dico i nomi, da vergognarsi. Comunque, non potrei giurarlo, ma mi pare che parlasse di quella sartoria teatrale che è in via Visconti, sa dove si trova?»
«No, mi dispiace. Non sono pratica di questa parte di Napoli, noi abitiamo dalla parte opposta, verso la Marina».
«Capisco… Allora, venga, non è lontano».
Mentre passavano dal salone, la signora Franca fece un gesto a Bob, in un camice bianco allacciato intorno al collo come quello di un chirurgo, per dirgli che era tutto a posto. Sull’ingresso, tenendo aperta la porta a vetri, si sporse in avanti.
«Fa tutta questa strada fino in fondo, è abbastanza lunga. Lì c’è un negozio di casalinghi: dopo due o tre portoni, e lo vede perché c’è la targa, trova questa sartoria teatrale. Non sono sicura, ma gliel’ho sentito dire. Provi, signora». Le strinse la mano. E a mezza voce aggiunse: «Condoglianze, naturalmente».