Trentaquattro
Gilardi spinse la porta del laboratorio, avendo intuito, in un grugnito non meglio specificato che gli arrivava dall’interno, l’invito a entrare.
«Buongiorno, dottore».
Il dottor Pasinotti si voltò di scatto, togliendosi i guanti di gomma. «Ah, è lei… che cosa ci fa uno dei trenta avvocati più famosi d’Italia nel mio modesto laboratorio?»
«Lasci perdere…»
«No, no. Tanto di foto sui giornali: i trenta avvocati più famosi d’Italia, e c’è anche lei».
«Chiacchiere. Siamo stati coinvolti in processi di ordinaria amministrazione, niente di speciale. Invece, posso farle qualche domanda a proposito del delitto Mauri?»
«La ragazza? Sì, certo. Si sieda».
«Non importa, grazie».
«Le domande».
«Vorrei che lei mi chiarisse come, secondo i suoi calcoli, la ragazza sia stata ammazzata con quelle forbici. Posizione, altezza dell’assassino, caduta… Insomma, la dinamica e le conseguenze di quel gesto. È possibile risalire a quel momento?»
«Certo. Con approssimazione, naturalmente. Dunque, vediamo. L’assassino…»
«Mi scusi, certamente un uomo?»
Pasinotti fece una smorfia. «O una donna alta un metro e ottanta. Lei quanto è alto? Due metri?»
«Sì, poco più di due metri. Era alto come me?»
«No, non come lei…» Alzò il pugno con il pollice e il mignolo aperti. «No, sul metro e ottanta. Perché la ragazza, se ricordo, era alta un metro e sessantotto. Quindi una spanna più alto di lei». E gli mostrò la mano per indicargli quanto stava dicendogli.
«E da che cosa lo deduce?»
«Dalla direzione delle forbici nella carne». Sollevò il braccio con il pugno chiuso come se impugnasse un’arma. «Vede? Dall’alto al basso. Se fossero stati alti uguali la forbice sarebbe entrata più o meno diritta. Invece dall’alto al basso».
«Secondo lei il colpo è stato inferto in quel punto consapevolmente o per caso?»
«Cioè?»
«Chi ha inferto quel colpo sapeva di colpire il ventricolo sinistro in quel punto, o è stato casuale?»
«Avvocato, come lo posso sapere? Sono il Padreterno, io? Se è un medico o uno studente in Medicina, probabilmente sì. Altrimenti… direi casuale, dall’alto al basso. Non poteva che infilarsi in quel punto».
«Capisco… Lei ha detto che potrebbe anche essere stata una donna. Basta la forza di una donna per un gesto simile?»
«Una donna di oggi… Sollevano pesi, vanno in palestra, fanno sport come la boxe: chi le distingue più? Una donna con i muscoli, forse».
«Ma lei propende per un uomo, se capisco bene».
«No, avvocato: capisce male. Io non propendo per nessuno. Ci vuole una persona con bei muscoli nelle braccia sul metro e ottanta. Il resto è affar suo. È lei che lo difende?»
«Alessandro Tosi, sì. Per l’omicidio del ragazzo moldavo, però, non c’entra con questa storia».
«Il biondino? Quello che è arrivato con la polizia e continuava a piangere?» Altra smorfia. «Non ce lo vedo proprio a fare una cosa simile… Troppo molle».
«A volte… Comunque ha la sua statura e ha forza nelle braccia, è un giocatore di golf, potrebbero corrispondere. Lei ha dato alla polizia queste sue considerazioni?»
«Sono nel rapporto. Non così dettagliate ma abbastanza chiare. Per quel che si può ragionevolmente dedurre… vede, avvocato, la ragazza avrebbe potuto essere in ginocchio. Ci avete pensato? Tutti vi figurate che i due fossero in piedi. Vi siete chiesti… lei, che è così bravo, si è chiesto per esempio come ha fatto la ragazza a cadere in terra supina e non di faccia? Noi l’abbiamo trovata sulle gambe di quel pazzo che ha strappato le forbici, supina, ancora calda, morbida… come ha fatto a cadere a quel modo se è stata colpita in piedi? Ci avete pensato?»
«No, francamente. Abbiamo dato per scontato che i due fossero in piedi. Quindi a colpirla potrebbe essere stato anche un uomo più basso del metro e ottanta. Un ragazzo…»
«Forse. Lì hanno confuso le prove, si rende conto? Via le forbici, il ragazzo che se la trascina sulle ginocchia… Io ho fatto quello che mi è stato possibile, l’ho detto anche al procuratore. Ci hanno messo le mani in troppi. Comunque nel rapporto ho scritto quello che ho potuto accertare con sicurezza. Il resto lo lascio a voi».
«Le forbici… C’erano soltanto le impronte del Latorri?»
«Sì, corrispondevano al gesto che ha compiuto per toglierle dal corpo».
«E le è sembrato normale? Delle forbici d’uso, in casa. E ci sono soltanto le impronte di quello che è arrivato a toccarle per ultimo. Chi le ha ripulite? Perché è evidente che sono state ripulite prima che il Latorri le impugnasse per toglierle dal corpo. O no?»
«Sì…» rispose Pasinotti perplesso. «Ci siamo basati su quelle impronte… ma ha ragione, le forbici sono state pulite ben bene. Certo che ha ragione. Chi l’ha ammazzata ha anche pulito le forbici».
«Oppure, chi gliel’ha tolta, l’ha prima pulita ben bene… perché?»
«Io la risposta non ce l’ho, avvocato. Mi dispiace, non ci avevo badato».
«Grazie, dottore. Lei mi è stato di grande aiuto. Le sue osservazioni escludono il mio assistito. Lo collocano in uno stadio di grande incertezza. A me basta». Allungò la mano e strinse quella del medico con forza.
Il dottore rise, forse per la prima volta da anni. «Con quelle mani… potrebbe essere stato anche lei, avvocato. Anche lei».
«Improbabile ma non impossibile, grazie».
Salì in macchina e chiamò Paola. «Ciao… va bene se stasera vengo a cena da voi?»
«Certo, ti aspettiamo. C’è anche Olga?»
«No, grane in azienda: è dovuta tornare a Siena. Sono solo».
«Bene, ti aspettiamo».
«Tra dieci minuti arrivo, ciao cara».
Arrivando fu assalito dai suoi figli: «Papà… papà…».
«Un momento, lasciatemi salutare la mamma». Baciò Paola in fronte, come aveva sempre fatto. Baciò suo padre su una guancia e strinse la mano a Giocondo. «E il matrimonio?»
L’uomo gli sorrise. «Bene, avvocato. Bene… andiamo avanti».
A tavola lasciarono soprattutto parlare i bambini: della scuola, dei compagni, dei giochi. Sergio era orgoglioso dei suoi progressi con la chitarra, Alice dei suoi voti scolastici.
«Ho due figli geniali».
«Come te, papà. Sei sempre in televisione».
«Non sono tutti geni quelli che vedete in tv, non lasciatevi confondere. Comunque io non vado in televisione, mi riprendono mentre lavoro, mentre cammino, durante le arringhe… io non ci vado in tv».
«E i due ragazzi?» gli chiese suo padre.
Informati, accidenti. «Non posso parlarne, pa’, mi dispiace. Hanno rimandato il processo a febbraio. Forse il giudice voleva andare in vacanza».
«Cosa questa che con il giudice Costanza Prati, o con me, non sarebbe mai successa, sient’a ’mme».
«Respiriamo anche noi… e ora a letto, avanti».
«Vieni anche tu?»
Paola le mise una mano sul capo. «Hai un letto troppo piccino per papà… non vedi com’è grande? Andiamo, avanti. Poi papà viene a darti la buonanotte».
Un copione che ogni volta si ripeteva uguale: i bambini non avevano sofferto della loro separazione. E ‘zia Olga’, ormai parte della famiglia, quando era a Napoli viveva con papà.
In salotto Gilardi si informò della salute di suo padre, che stava appisolandosi sulla sua poltrona.
«Invecchia» rispose saggiamente Paola. «Tra poco ha novant’anni».
«Già. E tu?»
«Vuoi sapere se invecchio anch’io?» Stava ridendo, in quel suo modo a bocca spalancata. Quella sua risata da ragazza che una volta l’aveva salvato.
«Tutto bene?»
«Sì, la prossima settimana vado due o tre giorni a Parigi, per lavoro».
«Torna Olga. Può occuparsi dei bambini, se vuoi».
«Sì, certo. Magari per i compiti e il nuoto… le solite cose».
«Sì, mio capitano». Ridendo alzarono il bicchiere. «E il tuo lavoro?»
«Sempre bene, grazie. Ora Tiffany ha una nuova linea, sono contenti. Mentre mi diverte questo gioco con i vetri. Vuoi vederli?»
«Sì, mi piacerebbe».
Scesero nello studio di Paola, in quel caos ‘artistico’, come lo definiva lei. «I vetri sono questi, guarda… ma, per vederli meglio, aspetta». Depose quattro vasi dalle forme e dai colori stravaganti in fila su un ripiano contro una parete chiara. «Un attimo…» Spense la luce e accese una pila dalla luce soffusa che passò sopra agli oggetti, uno a uno, muovendola appena. «Vedi i riflessi?»
«Bellissimi davvero».
«Li metteranno in vetrina così, faranno effetto… in luce con quelle ombre dietro, guarda».
«Aspetta».
«Che cosa?»
«Riprova a muovere lentamente la luce… così come hai fatto ora, sì… Ma certo!»
Paola riaccese la luce. «Che cosa succede?»
«Sei un genio, ragazza mia. Sei un genio».
«Ti sono piaciuti davvero?»
«Sì, molto. Per quel che ne capisco. Ma c’era il sole quella mattina. C’era il sole».
«Ma ti sei ammattito? Che sole?»
«Non puoi capire, piccolina. Ma con quei vetri e quelle ombre mi hai aiutato a trovare una spiegazione che mi mancava. Accidenti, uno stupido errore che era sfuggito a tutti».
«Non ci capisco… ma ti sono piaciuti?»
«Molto, sì. E sono contento di volerti bene. Buonanotte, piccolina». La baciò sulla fronte, uscendo allegro come se avesse bevuto.
Mentre metteva in moto la macchina, sorrideva ancora. Dottoressa Santini… ora a noi due.