Diciannove

La telefonata arrivò in studio a fine giornata. Una voce contraffatta, né uomo né donna. Un telefono pubblico. Nessun indizio chiaro.

La voce disse appena: «La maestra di canto è Sonia Abramovic». E riattaccò.

Aurora si precipitò nello studio di Bernardini. «Sei interessato a una maestra di canto, tu?»

«Che stai a dire?»

«Ha telefonato una voce…» e gli disse il resto.

«Puoi rintracciare la telefonata?»

Aurora scosse la testa. «Più furbo di noi, chiunque sia. Comunque cerchiamo su Internet questa Sonia vattelappesca, vieni».

La trovarono subito. Maestra di alcuni cantanti d’opera abbastanza famosi, lei stessa ex mezzosoprano con un curriculum di tutto rispetto: teatri internazionali, tournée in giro per il mondo… fermata da un incidente d’auto e dagli anni. La signora, che veniva proposta in ritratti d’epoca, ora aveva settant’anni e insegnava canto nel suo studio.

«Hai preso nota della via? C’è anche un numero di telefono fisso. La chiamo?»

«Sì, grazie. Una fiammella in fondo al tunnel, speriamo che diventi una fiammata».

Gli passarono un uomo, una voce gentile. «Posso sapere la ragione per cui vuole incontrare la Maestra?» Lo disse proprio così, facendo capire che lo diceva con la lettera maiuscola.

«Sono un avvocato. Vorrei parlare di Giulia Mauri con la signora. So che era sua allieva» mentì.

«Lei è avvocato… la Maestra potrà riceverla domani dopo le diciotto. Va bene per lei? Me lo conferma?»

«Certo, ringrazi la signora. Sarò puntuale».

«A domani». Fece una pausa. «Avvocato…?»

«Aziz Bernardini dello studio Massimo Gilardi. Il mio cellulare, per qualsiasi evenienza» e glielo dettò scandendo bene le cifre.

«Sì, grazie avvocato. A domani, allora».

Quando chiuse la chiamata guardò Aurora. «Poteva essere lui?»

Gli rispose con una smorfia. «Era molto contraffatta, ma questa era una voce gentile e quella mi sembrava più decisa… non ne ho idea. Mi dispiace, Aziz, sono una frana».

«Sei un tesoro, avanti… domani alle diciotto sapremo qualcosa di più. Almeno ci spero».

Gli piaceva essere puntuale, anche questo aveva imparato da Max Gilardi. E alle diciotto in punto Aziz Bernardini bussò alla guardiola della portineria di via Augusto Imperatore, al numero diciannove.

Era una vecchia casa, ancora con la portineria chiusa da saracinesche in legno e vetri scorrevoli. A uno di questi si affacciò il viso tondo di una donna anziana.

«Chi cerca?»

«La Maestra Sonia…»

«Ha appuntamento?» Non attese risposta, le sembrò naturale. «Quella scala a sinistra, primo piano. La porta la noterà di sicuro».

Salì a piedi, una scala vecchia con i gradini bassi e lucidi tra pareti scrostate che forse una volta erano state color rosso pompeiano. E la porta la riconobbe: larga, con un vetro smerigliato a tutta altezza che aveva impressa, in uno spiccato stile liberty, una donna fasciata in uno scialle che l’avvolgeva e che teneva stretto al corpo con un braccio nudo. Gli ricordò un ritratto di Giovanni Boldini, interpretato male. Sopra il campanello di porcellana bianca una sola etichetta: S.A.

Suonò, sfiorandolo appena.

La porta si aprì lentamente mostrando un’anticamera nella semioscurità. Al centro, vide una specie di pouf ricoperto da un pesante tessuto a fiori sotto un lampadario a bracci di ferro contorti con appena due lampadine accese, un attaccapanni addossato alla parete e, dalla parte opposta, tre sedie.

Un giovanotto con la testa completamente rasata, jeans e maglietta aderentissimi, gli sorrise. «L’avvocato Bernardini?»

«Sì, sono io».

«Venga, la Maestra l’aspetta». Aveva una voce gentile, come avrebbe detto Aurora, ma un tono deciso. Gli camminò davanti in un lungo corridoio poco illuminato e si fermò, in fondo, a lato di una porta spalancata. «La Maestra» annunciò, presentandogliela.

Contro ogni aspettativa, la stanza era illuminata, spaziosa e molto accogliente. Aziz si guardò attorno stupito prima di guardare lei, seduta su una poltrona che poteva sembrare un trono, per ori e dimensione, avvolta in una tunica giapponese dai colori sgargianti, i capelli biondi raccolti in cima alla testa in un ciuffo disordinato, labbra e occhi molto truccati, gioielli vistosi e tintinnanti. Stava seduta accanto a un pianoforte a coda che occupava l’intera stanza. Alle pareti quadri e fotografie raccontavano una vita e molti incontri che valeva la pena di testimoniare.

«Signora… la ringrazio per aver accettato di ricevermi».

«Di dov’è?» Aveva una voce limpida, modulata sui toni bassi.

Il giovanotto gli aveva sistemato una sedia perché potesse starle di fronte.

«Di Napoli» rispose, sedendosi. «Ma mia madre è tunisina».

«Presumo che non sia venuto per cantare». Stava ridendo. Una bella risata sonora, tra gesti vezzosi delle mani cariche di anelli. «Ci porti qualcosa da bere, Zuzu?»

Il giovanotto sparì oltre la porta e la Maestra si allungò verso Bernardini con un gesto teatrale.

«Bisogna dirgli ogni cosa, a questi… Ma mi dica lei, invece: che cosa vuole da me?»

Zuzu era rientrato spingendo un carrello su cui c’era di tutto: la caffettiera con le tazzine, bicchieri, due caraffe piene di liquidi colorati, piattini con paste e biscotti, cioccolatini colorati e piccoli zuccherini.

«Che cosa vuole?» chiese a Bernardini.

«Un caffè, grazie».

«Maestra, lei il solito?»

«Il solito, sì… con il diabete, sa, mammasantissima!»

«Lei ha un nome russo e uno spiccato accento napoletano…»

«Così è. Cantando cantando ho imparato il tedesco, l’inglese, lo spagnolo, il francese… Di russo invece ho avuto solo un marito, che m’ha lasciata con questo cognome. E allora», fece una mossa con la mano, come se suonasse una raganella, «mi son cambiata pure il nome, che era Marisa e non stava bene». Altra risata, con cui si mandò di traverso la spremuta che stava bevendo. «Ma mi dica di lei: che cosa vuol sapere da me?»

«Si sta indagando sulla morte di Giulia Mauri. E stiamo cercando di capire chi fosse e chi frequentasse».

«Noi no di certo, vero Zuzu? È venuta qui due o tre volte, avrebbe dovuto tornare… invece l’hanno ammazzata. Aveva una bella voce, molto intonata. Mi ricordava un po’ la Mannoia, che io amo molto. Quando è venuta la prima volta…»

«Ecco, come e con chi è venuta da lei?»

«Questo avrebbe dovuto chiederlo alla ragazza, non a noi. Chi ce l’ha portata, Zuzu?»

«Un biondino che non conoscevamo, Maestra. Si ricorda? Ha detto di sentirla, se poteva portarla a un provino».

«Ha detto quale?»

Insieme risposero di no. «Ha dato alla Maestra le tre canzoni che doveva interpretare, due della Mannoia.»

«Ecco, come le dicevo. L’ho presa perché aveva una voce così… la Mannoia, appunto. E poi una canzone di Madonna che non era adatta alla sua voce, non mi piaceva».

«E neppure la ragazza vi ha detto in quale trasmissione o concorso avrebbe cantato quei pezzi?»

I due si guardarono scuotendo la testa.

«Sa che cosa le dico?» disse Zuzu appoggiando il suo bicchiere sul tavolino. «Secondo noi non lo sapeva neppure lei dove stava andando a finire».

«Ma come parli, su… a finire. Abbiamo avuto l’impressione, però… in realtà più lui di me: Zuzu è sospettoso come un gatto».

Il giovanotto fece una smorfia che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto ricalcare la mossa di un gatto.

«Nessuno ci ha detto niente e niente abbiamo chiesto. Quel giovanotto è venuto la prima volta, poi è sparito».

«Veniva a prenderla, l’aspettava giù».

«Che tipo era?»

«Uno come tanti. Un artista, sa che cosa intendo. Ossigenato, vestito di borchie e di firme… Insomma, uno così».

«Posso dedurre dalle sue descrizioni che fosse omosessuale… Lo dico solo perché mi serve per identificarlo».

«Ma sì… eh, Zuzu? Biondo ossigenato, con tutto quel nero addosso. Parlava con le mossette».

«Avanti, Maestra. Che importanza ha?» E la mossetta questa volta la fece lui, esagerando per farla ridere.

«Questi… ma quando sono artisti non li batte nessuno, avvocato. Anche quello. Ci ha detto come e che cosa. Sempre riguardo alla voce e ai gesti. Al vestito avrebbe pensato lui».

«Una domanda, mi scusi. Era alto, robusto?»

La Maestra gettò all’indietro la testa esagerando la risata. Ma rispose Zuzu. «Quello? Un fiammifero svedese, ha presente? Il capino biondo, poi piccolo e secco. Carino» aggiunse. Con una punta di dispetto.

«Quindi deduco che voi non sapete dove e con chi Giulia avrebbe sostenuto questo provino. Sapete almeno per quando era previsto?»

«No, neppure questo. Quel coso ci ha detto che doveva essere pronta alla fine di settembre».

«Ce l’avrebbe fatta, secondo lei?»

La Maestra si passò l’indice e il pollice agli angoli della bocca. «Sì, penso proprio di sì. Ce l’avrebbe fatta. Aveva una voce naturale e avrebbe dovuto soltanto sistemare il fiato. La facevo sdraiare sul tappeto e le mettevo due di quei volumi sullo stomaco. Così si impara a respirare. Se non c’è respiro non si canta neppure un ritornello di Natale. Bella voce, comunque, ce l’avrebbe fatta».

«Chi pagava le lezioni?»

«Buona domanda…» intervenne Zuzu. «Un anticipo di duecento euro, e ti saluto». Altra mossetta. «Glielo dico sempre che con questi bisogna farsi pagare prima o alla fine di ogni lezione, ma a me chi mi sta a sentire?»

«Intanto lei è morta e noi siamo qui. Statt’ zitt’, va’… C’è altro? Lei è avvocato, vero?»

«Sì, signora: avvocato. E non c’è altro per il momento. Forse, se vi venisse in mente qualche particolare, o se dalle indagini risultasse che…»

«Torni, torni pure. Qua siamo». Si era girata verso il pianoforte e stava eseguendo alcuni arpeggi, la testa leggermente all’indietro, come ispirata. «Torni, torni pure».

Mentre raggiungeva l’anticamera con Zuzu, Aziz la sentì cantare: mezzosoprano, ancora una bella voce sonora.

«Grazie». E tese la mano a Zuzu.

Si accorse che era indeciso.

«Senta… posso fidarmi di lei?» gli disse quello.

«Sono un avvocato».

«Sì, appunto. Quello stronzetto che l’accompagnava, gli ho chiesto il cellulare, tanto per sapere chi era, se qualche volta potevamo vederci… non sa le storie. E poi ho visto che andava via con un altro… insomma, uno stronzetto, che chissà chi si crede. Lei però fa il bravo e non dice che gliel’ho dato io. Mi fido? Quello lì si chiama Ermanno, e lo chiamano Ermi, ho sentito Giulia che lo chiamava così. Il cognome non lo so, ma questo è il suo numero, l’ho scritto mentre ero in cucina. La Maestra dice di no, ma questa pubblicità a noi ci servirebbe».

«È lei che ci ha chiamato?»

Non volle rispondergli, ma aggiunse: «Quando verrà fuori che studiava da noi, la televisione, i giornali… insomma, tutta pubblicità che a noi fa comodo, no? Però non deve dire che gliel’ho dato io, altrimenti quello ammazza pure me».

Bernardini sorvolò sull’allusione, decisamente fuori luogo, e mise il foglietto in tasca.

«Grazie. E stia tranquillo, nessuno saprà come l’ho avuto».

«Promesso?»

«Promesso, certo. Nessuno potrà ringraziarla, perché sarà un segreto tra lei e me, ma è un bell’aiuto alle indagini. Noi non sapevamo chi fosse né dove cercarlo».

«Bene, sono utile alla patria e a questo bell’avvocato. Stia bene, eh?»

In strada Bernardini prese il foglietto e lesse il numero. L’avrebbe portato a Gilardi e insieme avrebbero deciso. O da Giacomo Cataldo, l’investigatore che collaborava con il loro studio ed era amico di Gilardi, perché indagasse per loro. O dal commissario capo Silvestri.