Trenta
Aziz aveva deciso di non andarci da solo. Telefonò a Giacomo Cataldo e gli spiegò brevemente la ragione di quella visita.
«Ci vieni?»
«Che cosa vuoi trovare che i giornali non abbiano già messo in piazza?»
«La vecchia che abita nella strada mi ha detto che i ragazzini mostravano a quei due un apparecchio, un cellulare credo, gridando: ‘Tu ucciso ragazza’. La stampa non ne ha mai parlato. Neppure la polizia, a quel che ci risulta. Voglio capire che cosa c’è in quell’apparecchio che lo avrebbe spaventato…»
«Al punto di ammazzare il moldavo?»
«Non lo so, ma vorrei capire. Ci vieni?»
«Sì, d’accordo, ma non prendiamo una delle nostre macchine».
«Perché?»
«Perché la ritrovi smontata. Ci andiamo in tassì, sperando che ci porti».
Il tassì li lasciò ai margini di quella baraccopoli ai confini estremi della città, verso le colline. Baracche di lamiera, di sassi, di cartone. Animali stremati dalla fame. Panni stesi e panni davanti ai buchi che facevano da finestre. Molti bambini scalzi e troppo magri, uomini in circolo che fumavano, donne al ruscello che lavavano i panni.
«Chi cercate?» gli chiese una donna dalla pelle scura.
Aziz Bernardini, riconoscendone l’accento, in arabo le chiese dove abitavano i fratelli di Nicolae.
«I parenti del moldavo che hanno ammazzato? Là in fondo, in quel casermone. C’è uno scantinato dopo una porta di ferro. È lì che stanno. Siete giornalisti anche voi?» e allungò la mano in un gesto fin troppo esplicito.
«No, io sono un avvocato». E le diede dieci euro che aveva in tasca.
Lei lo guardò come se stesse cercando di capire se un avvocato fosse peggio o meglio di un giornalista, poi gli sorrise. «Be’, è lì che stanno». E riprese a muovere la scopa di saggina tra cocci e putridume che si erano ammucchiati contro un muretto, al di là del quale si ergeva una baracca di legno e di cemento, forse la sua casa.
«Una casa così ce l’hanno anche in Tunisia, perché vengono qui?» chiese Cataldo.
«Vuoi che apriamo una discussione o andiamo a cercare questi ragazzini?»
«Sì, d’accordo».
Oltre il cancello di lamiera, un corridoio senza finestre e senza luce, con un acre odore di umido e di topi. In fondo al corridoio, da una fessura filtrava un raggio di luce. Bussarono.
La voce irritata di una donna gridò: «Andate via!»
«Mi scusi, sono un avvocato, per Nicolae». Cigolando, la porta di ferro si aprì di tre dita, e Aziz intravide un occhio e un pezzetto del viso di una ragazza dalla pelle chiarissima.
«Chi siete?» domandò quella in italiano.
«Un avvocato… mi fa entrare?» E mentre la porta si apriva poco a poco ragliando sui cardini arrugginiti, Aziz Bernardini le mostrò la sua tessera e un biglietto da visita. «Ci fa entrare?»
«Venite».
Aziz e Cataldo passarono uno dietro l’altro in uno stretto corridoio dove erano sistemati due materassi in terra, con coperte arrotolate e bottiglie di acqua minerale vuote. Un’altra porta, questa volta di legno, si apriva su una stanza non troppo grande, con una finestra: un tavolo al centro sotto la lampada che oscillava dal soffitto, altri due materassi in terra ai lati opposti della stanza, e sotto la finestra, accanto a un lavello di pietra, un frigorifero malandato e un fornello a tre fuochi. Intorno al tavolo alcune sedie, sul tavolo libri, penne e quaderni.
La ragazza aveva un viso pallido e ovale che sembrava disegnato su un uovo, pensò Bernardini. Due grandi occhi azzurri, labbra sottili e denti piccolissimi. Intorno alla testa una robusta treccia bionda. Indossava un grembiule di cotone a fiori, troppo largo e troppo lungo per lei.
«Un avvocato?» domandò sedendosi e facendo un cenno con la mano perché prendessero due sedie. «Io non ho niente da offrirvi» disse.
«Va bene così, grazie. Lei è la sorella di Nicolae…» e aggiunse a fatica il cognome moldavo che era nelle note della polizia: «Lovinescu?»
«Io sono Lara. Ora chiamo i miei fratelli». Si alzò sulle punte dei piedi davanti alla finestra e gridò: «Presto, c’è l’avvocato». Poiché l’aveva detto a voce alta, in rumeno, lo ripeté a bassa voce in italiano.
«Parla bene la nostra lingua».
«Sono andata a scuola, finisco ora».
Aggiunse qualcosa per cui Bernardini capì che frequentava una scuola alberghiera, e ora stava diplomandosi. «Poi cerco lavoro».
«Lei e due fratelli più piccoli… siete soli?»
«No, c’è mamma, papà morto. Mamma pulizie e cuce a macchina. Io parlo e scrivo anche inglese e tedesco. Non bene ancora. Studio».
«Brava…»
Intanto erano entrati, con gran rumore, anche i due fratelli. Smuovendo le sedie sgarbatamente si erano seduti e avevano steso le braccia sul tavolo. Guardavano i due uomini e la sorella con arroganza.
«Tu che vuoi?» chiesero ad Aziz.
«Farvi qualche domanda».
«Ma per chi stai?»
«Sono un avvocato, vogliamo capire che cosa è successo veramente a tuo fratello».
«Sì, quello…» E si misero a ridere insieme, come rispondendo a un segnale.
Si presentarono: Adam era il maggiore dei due, mentre Ion aveva undici anni.
«Non andate a scuola?»
«È lontana e non s’impara niente. Mia sorella ci va» gli rispose Ion.
«Voi eravate sempre insieme a Nicolae?»
«Ma tu chi sei?»
«Un avvocato» ripeté Aziz «e voglio sapere la verità».
«Quella…»
Adam lo interruppe gridando: «Lui ucciso ragazza… lui ucciso ragazza».
Con un tono deciso, Lara lo fece tacere. Poi, rivolta a Bernardini: «Loro sanno che quel biondino ha ucciso la ragazza».
«E lui ucciso Nicolae… questa verità».
«Vediamo. Mi rivolgo a lei perché capisce la mia lingua, poi per gentilezza le chiederò di tradurmi le loro risposte. È d’accordo? Mi aiuta?»
«Sì, certo… ma questo biondino ha ucciso mio fratello».
«Lo so, mi dispiace. Anche per questo voglio sapere la verità. Posso cominciare?»
Lara gli fece un cenno con il capo e intanto fece segno ai fratelli di togliere le braccia dal tavolo.
«Voi mostravate al biondino, che si chiama Alex, un cellulare? Perché?»
Accalorandosi Ion fece un lungo discorso alla sorella. Agitava le mani, diventando rosso in faccia. «Capito?»
«Lui dice che hanno ripreso le foto di quel giorno. Che il bion… questo Alex, è arrivato presto, gridava. Anche ragazza gridava. Porta socchiusa, si sentiva gridare. Poi silenzio. È arrivato altro ragazzo».
«Nicola».
Lara l’osservò un attimo corrugando la fronte. «Nicola? Come mio fratello?» All’assenso di Bernardini, scosse la testa. «Lui ha ammazzato…»
«No, l’altro».
«Ah, ecco… Lui dice che dopo Alex è uscito, è arrivata la polizia ed è ritornato… non so se è giusto, forse è così». Scambiò qualche battuta con il fratello, poi si rivolse ancora a Bernardini. «Sì… loro hanno fotografato questa cosa».
«Posso vedere?»
Gli venne consegnato uno smartphone non nuovissimo. Bernardini lo rigirò tra le mani, poi lo diede a Giacomo.
«Ci capisci?»
«Sì… probabilmente è rubato. Avete cancellato quello che c’era?»
«Nicolae. Lo usava solo lui».
«Strano che chi l’ha perduto non l’abbia bloccato».
«Forse non sa di averlo perduto» intervenne Bernardini. «Fai conto che ne abbia comperato uno nuovo e che sia convinto di aver sistemato questo in un cassetto. Loro l’hanno svuotato…»
«Sì, ci sono foto di loro tre e anche qualche bella foto sua» aggiunse Cataldo, rivolto a Lara. E per la prima volta da quando lo conosceva, Aziz lo vide sorridere. Ma si riprese immediatamente. «Sì, hai ragione, non sa di averlo perduto. A quel che ho visto, comunque, non è una prova importante. Ma la polizia vorrà spiegazioni su quello che Nicolae ha fotografato. L’avete mostrato ai giornalisti?»
Lara scosse la testa con tale veemenza che la treccia le oscillò sopra la testa, e fu necessario risistemarla con una forcina. «No, ci hanno fatto domande su Nicolae. Per la sua morte. Se conoscevamo Alex… mai parlato di questo. Lei ci ha detto di essere avvocato, noi speriamo che lei faccia qualcosa per noi. Nicolae portava soldi a casa, ora non c’è più. Se è una prova importante…»
«No» la interruppe Giacomo. «Guardi». Fece scorrere la sequenza delle foto che ritraevano Alex e Nicola. Erano foto nitide, con qualche cambio di luce: Alex che arriva e apre la porta, Nicola che entra, Alex che esce e poi ritorna con la polizia. Sembrava la sequenza disordinata di un film. «Ha visto? Non valgono niente queste foto. Forse l’ha notato anche lei. Nel primo fotogramma c’è un motorino appoggiato al muro, che poi scompare». E rivolto ai ragazzi, corrugando la fronte in modo minaccioso: «Sarebbe questa la vostra prova?» domandò a voce alta. «Avete minacciato Alex con queste foto? Doveva essere ubriaco se vi ha preso sul serio. Ubriaco, dico io».
«Lui ucciso ragazza».
«Ma fammi ’sto santo piacere. Qui non c’è la prova di niente». Stava alzandosi. «Andiamo, va’… tutto tempo sprecato, non c’è niente in queste foto».
«Sì, che c’è! Sì, invece… biondo arrivato, strilli strilli strilli. Poi silenzio e silenzio. È arrivato ragazzo bruno… uscito biondino e ritornato dopo con polizia. Questa verità». Accennò all’apparecchio che intanto Bernardini stava manovrando per riprendere le foto sul proprio iPad. «Quella verità…»
«Balle! Mi scusi. Andiamo, qui non c’è niente. Volete prenderci in giro?»
«Un momento. Una domanda: voi avete fatto vedere queste foto ad Alex?»
Loro gli dissero di sì.
«E lui che cosa ha detto?»
«Dati euro».
«Accidenti, che ricatto». Sorrise tranquillizzato.
«Poi detto che aveva soldi a casa, di andare a prendere».
Questa volta Aziz si rivolse a Lara. «Mi dispiace, non c’è ragione di dare queste foto alla polizia. A un qualsiasi esame dei file contenuti nella memoria del telefono, risulterebbe lampante che quelle foto sono state scattate in momenti diversi: ogni foto è un file che ha una data esatta di creazione, non lo sapeva? È fin troppo evidente che Alex e Nicola quando hanno visto queste foto hanno capito che i ragazzi volevano soldi, elemosina… Queste foto, ai fini dell’inchiesta in corso, non valgono niente».
«Loro saranno chiamati in tribunale al processo?»
«Non credo proprio. Queste foto non provano niente. E quello che i due ragazzi raccontano è davvero poco credibile».
«Lei chi difende?»
«Alex e Nicola. Sono innocenti».
«Nicolae diceva di no».
«Ma non basta. Aveva raccontato anche a lei questa storia?»
«No, diceva soltanto che Alex aveva ucciso la ragazza, e voleva soldi per stare zitto».
«Un ricatto… punibile a norma di legge. Comunque non con queste foto, era molto ingenuo». Mise sul tavolo una busta in cui aveva sistemato un suo biglietto da visita e cento euro. «Grazie». Era davvero sollevato.
«No, senta… che cos’è quella busta?»
«Il numero di telefono dello studio, se mai vi venisse in mente qualcosa di utile alle indagini, e il nostro grazie per il tempo che ci avete dedicato».
«Ma… no, senta. Non è necessario, per favore».
«È la legge, signorina… Lara. È la legge». Le sorrise e s’incamminò dietro Giacomo Cataldo che con le spalle occupava l’intero spazio del corridoio.
Si girò appena.
Lara era rimasta sulla porta. E sorrideva.