Ventidue

Il commissario capo Silvestri volle parlare anche con i genitori di Nicola Latorri.

«Domani pomeriggio alle tre… le quindici» precisò.

«Ma noi che cosa c’entriamo? I miei genitori…»

«Vuole venire anche lei?»

«No» rispose Marco Latorri, all’altro capo della cornetta. «Io non so niente».

«Bene, allora aspetto i suoi genitori come persone informate dei fatti. Lo avrete visto anche nella citazione: ‘informazioni testimoniali’».

«Ma quali fatti? Che cosa c’entrano loro con la morte di quella ragazza?»

«Niente, suppongo. Ma due chiacchiere le voglio fare anche con loro. Due chiacchiere, non si preoccupi. Sommarie informazioni… Magari mentre parliamo ci viene un’idea». Non riusciva a essere spiritoso, quella storia lo stava tormentando e il PM Adriana Santini non gli dava tregua. «Alle quindici, domani» disse con voce dura.

«Va bene… glielo dirò. Commissario…»

«Commissario capo Silvestri. Stanza numero otto. Buonasera».

Nessuno sapeva niente. Nessuno riusciva neppure a immaginare una sola ragione per cui una ragazza di ventidue anni come Giulia Mauri fosse stata assassinata in casa propria con delle forbici da sarto.

Delle forbici da sarto… Casuale o chi le aveva usate sapeva quanto fossero aguzze e taglienti? Quanto fossero mortali.

‘Non fare lo scemo’ pensò, accendendosi la pipa. Con calma, misurando i gesti, guardando la fiamma dell’accendino prima di avvicinarla al tabacco. ‘Non fare lo scemo. Non sei tu che devi fabbricarti l’assassino. È l’assassino che deve fare un passo falso’.

Prima o poi, l’esperienza gli diceva, ci sarebbe arrivato. Di sicuro.

Li guardò entrare, rimanendo seduto dietro la sua scrivania, che era di fronte alla porta. Aveva lasciato quello spazio, tra la porta e la sua scrivania, proprio per consentirsi in quei pochi momenti di osservare chi entrava.

Lui era basso di statura, robusto. Capelli neri e arricciati con due basette folte e nere che gli arrivavano agli angoli della bocca. Sfoggiava una cravatta gialla sotto una giacca di un tessuto spesso color mattone: colori che riprendevano le righe della camicia. Lei, minuta, più vecchia dei suoi cinquant’anni, raccolta in uno di quegli abiti interamente allacciati davanti, dal colletto all’orlo, come un cappottino. Il robe-manteau – sua moglie gli aveva detto che quei capi si chiamavano così – dalla cintola si allargava in un modesto godet, ed era in tessuto spigato, con un grande colletto bianco. La donna non aveva un cappello in testa, ma indossava i guanti, grigi come il vestito.

«Buongiorno».

«Buongiorno, prego… Accomodatevi pure». Davanti alla scrivania, due sedie poco comode, lui a sinistra e lei a destra, come in chiesa al matrimonio.

Gli diedero i nomi e le generalità, quasi sussurrandoli.

«Noi non sappiamo niente» disse subito lui. E per un pezzo fu l’unica cosa che riuscì a dire.

«Conoscevate i Mauri da molto tempo?»

«Da quando il mio Nicola aveva sei anni» rispose lei. «Con la figlia hanno fatto insieme le elementari, poi tutte le scuole sino alla maturità. Anche con quell’altro, Alessandro».

«Venivano anche a casa vostra?»

«Poco…». Guardò il marito. «Io lavoravo, la madre di Giulia era a casa… insomma, stavano da lei».

«Voi frequentavate la casa: compleanni, feste…»

Si accorse che lei scuoteva la testa in un gesto monotono, come se si aspettasse le domande.

«I compleanni dei bambini, che ne so?»

«No, guardi. I bambini stavano insieme, sì… i compleanni, persino il pomeriggio del Natale. Avevano i regali sotto l’albero, noi non lo facevamo. Ma io andavo soltanto a riprendermelo, all’ora che mi dicevano. Però no, non abbiamo mai avuto confidenza con loro».

«Non è un po’ strano? Vostro figlio è praticamente cresciuto in casa Mauri e voi conoscete appena questa famiglia?»

«Normale» disse lui. «Noi lavoriamo tutte e due. La madre era maestra e al pomeriggio era a casa. Non dico… ma ci faceva comodo. L’altro nostro figlio è più grande di dieci anni, neppure lui conosce i Mauri. Non sappiamo niente» ribadì, cocciuto.

«Non vi ho ancora chiesto che cosa sapete, per ora abbiamo capito che non conoscevate la famiglia Mauri e che comunque non la frequentavate. Quindi, suppongo, non conoscevate neppure Giulia, la ragazza».

«Proprio così» disse lui con fermezza.

«No… questo, no» intervenne la moglie. «Giulia veniva qualche volta a casa. Stava a colazione da noi, se doveva studiare con Nicola. A volte arrivava la domenica con Alex. Si chiudevano nella stanza di Nicola, studiavano, sentivano musica, facevano merenda… questo è capitato».

«Anche ultimamente? Diciamo, dopo la maturità?»

«Qualche volta, sì. Ma il mio maggiore nel frattempo si era sposato, lui e la moglie vivevano con noi. Ora hanno la loro casa, stanno traslocando. Ma prima… insomma, diciamo di no. Comunque accadeva poco, ecco».

«Lei sapeva, per averlo sentito dire da suo figlio…»

«Nicola non parla mai dei suoi amici. Glielo chieda. Noi non abbiamo mai saputo niente di dove erano, che cosa facevano, glielo chieda». Il padre aveva finalmente alzato la testa e da sotto le sopracciglia a cespuglio gli lanciò un’occhiata di traverso. «Noi non sappiamo niente».

«Neppure che Giulia teneva rapporti amorosi con vostro figlio?»

 «Scemenze. Quella voleva sposare l’altro perché è ricco e ha la posizione pronta dopo la laurea».

«Allora lei ammette di sapere che la famiglia di Alessandro è ricca».

«E allora? Questo ci diceva Nicola, che era ricco e che Giulia l’avrebbe sposato. Fine, non sappiamo altro».

«Lei si è fatto un’idea del perché un intruso si sia introdotto in casa Mauri e abbia ammazzato in quel modo la ragazza?»

«Io ho altro da fare, non ho idee. Mi dispiace, era una ragazza giovane… penso ai suoi genitori che forse dovevano tenerla più sott’occhio… non giudico, ho figli anch’io. Ma non voglio sapere niente. Abbiamo finito?»

«No, signor Latorri. Non abbiamo finito. Suo figlio sarebbe capace di pugnalare a quel modo una ragazza?»

«Ma che sta a dire?» Si era sollevato dalla sedia e si era rimesso a sedere, rosso in faccia, paonazzo. «Che sta a dire?»

«È una domanda che devo fare a tutti quelli che l’hanno conosciuta».

La donna appoggiò una mano sul braccio del marito e lui si scrollò perché lei la togliesse.

«No… lei è commissario?»

«Commissario capo».

«No, commissario capo. Mio marito perde la testa…»

«Ce l’hai ferma tu».

«Mio marito perde la testa per tutto il chiasso che ci stanno facendo intorno. Non respiriamo più. Capisco che la cosa sia grave, ma siamo assaliti da persone che ci aspettano fuori casa, dentro casa, in strada o nei negozi. Non possiamo più uscire senza trovarci davanti qualcuno con un microfono in mano. Ci dispiace… ma siamo esauriti. Forse è giusto così, per voi. Ma noi stiamo perdendo la testa. Tutto quello che avevamo da dire l’abbiamo detto. Mi creda, commissario… sì, commissario capo, non sappiamo niente più di quello che le abbiamo detto».

«Quindi non sapevate che la ragazza volesse fare la cantante».

Insieme dissero di no.

«Nicola non ve ne aveva mai parlato?»

«Glielo ripeto, quello non parla mai dei fatti suoi».

«Bene, parlerà con noi».

I due si erano alzati.

Attraverso la scrivania lei allungò la mano verso il commissario capo. Tentò un sorriso di liberazione, il colloquio era terminato.

«Ci dispiace, ma davvero non sappiamo niente. I figli, oggi…» Restò in sospeso e il commissario capo Silvestri non capì a quali figli si riferisse, se al proprio che in casa non parlava dei fatti suoi o se a Giulia, che probabilmente non aveva mai detto in casa quello che aveva nella testa.

«L’hanno ammazzata per questo?» domandò la donna. Come se rincorresse un pensiero che non voleva esprimere.

«Non lo sappiamo. Mi dispiace, non lo sappiamo».

«Troverete chi lo ha fatto?»

«Sì, lo troveremo». Erano in piedi tutti e tre, adesso, il commissario capo Silvestri li stava osservando. «Voi pensate che Nicola sarebbe capace di uccidere per amore?»

Il signor Latorri ricadde a sedere con una parola impronunciabile soffocata tra le labbra. La moglie si appoggiò con le mani alla scrivania.

«No» rispose seria. «Di questo sono sicura. No, commissario. Cerchi da un’altra parte, conosco mio figlio».

«Fino a che punto lo conosce?»

Lei si smarrì. Rimettendosi a sedere dalla borsetta trasse un fazzoletto di lino con un ricamo nell’angolo, come Silvestri non ne vedeva più da tempo. Sentì per lei una gran pena, ma doveva insistere.

«Lui no… no, commissario».

«È stato il primo a trovarla, le ha tolto le forbici dal petto… ci sono le sue impronte sulle forbici. Amava una ragazza che voleva sposare un altro perché era più ricco, o che voleva andarsene a fare la cantante… Un gesto, un atto disperato».

«No, non è Nicola. Lei non lo conosce, io sì. Questo che lei ha descritto non è Nicola. E quello che ha detto non lo pensa neppure lei, commissario, perché l’ha capito. Altrimenti non lo lascerebbe libero… Lui ha un solo sogno nella vita: volare. Non gliene importava niente della ragazza. Ci faceva l’amore, ma il suo sogno è volare. Da quando è piccolo, commissario. Volare, non una ragazza».

«Speriamo. Comunque lui sa che deve restare a disposizione».

«Ma certo, ha gli esami. E poi, dove deve andare?»

Quando richiusero la porta Silvestri guardò la pipa, che era rimasta sul posacenere e stava spegnendosi. Se la portò alle labbra, cercò di ravvivarla.

Non riusciva a togliersi dalla testa quella sensazione. Volare, aveva detto.

Sì. Quel ragazzino con lo sguardo strafottente in fondo gli piaceva.

Volare. Ora doveva marcarlo stretto. Fargli capire che tra i due lui, con i suoi piedi per terra, era il più forte.