Quattro
Li avevano riaccompagnati a casa, separatamente.
Un giovane agente aveva appena messo la testa dentro il soggiorno di casa di Nicola, si era guardato attorno e aveva salutato il ragazzo.
«Davvero fai Ingegneria aerospaziale?»
«Sì, circa. Mi manca un anno per iniziare la specializzazione».
«Be’, auguri».
«Grazie».
Nicola andò in bagno, si tolse la maglietta che gli avevano dato in questura dopo avergli trattenuto la camicia per le indagini. Era una T-shirt bianca con la pubblicità di un formaggino, l’appallottolò e la fece cadere nel cesto della biancheria sporca. Si lavò sotto la doccia, sfregandosi le mani finché l’inchiostro non fu completamente sparito. Un sorso d’acqua in bocca e la risputò subito.
Mentre si asciugava, ripensava a quella scena: Giulia riversa sulle gambe di Alex, con gli occhi spalancati. Gli sembrava difficile ammettere che fosse successo davvero.
E sorrideva. Aveva fregato la polizia. Da qualunque parte voltassero la frittata, lui ne usciva pulito. E anche Alex. C’era solo l’inquinamento delle prove, ma con tutte le attenuanti del caso.
Dicevano che non esisteva il delitto perfetto, ci avevano fatto anche un film. Lui, invece, c’era riuscito.
Ora avrebbero cercato le tracce di un malvivente che era entrato in casa e, sorpreso da Giulia, l’aveva uccisa.
Scosse la testa, mentre si passava l’asciugamano sui capelli. Anche così la faccenda non stava in piedi: perché un malvivente l’avrebbe uccisa? Sarebbe bastato legarla. Oppure girare le spalle e andarsene.
Ucciderla non aveva senso.
Avrebbero forse cercato qualcuno che aveva motivi di rancore e di vendetta verso suo padre. Che poi, chi era suo padre? Uno qualunque, che aveva un’azienda di trasporti. Sua moglie era stata maestra e da qualche anno si era ritirata dalla scuola.
Comunque, avrebbero indagato anche in quella direzione.
Casi come quello di Giulia Mauri ce n’erano stati più d’uno, tirati avanti per anni. Ora sarebbero arrivati gli interrogatori, le analisi, i sospetti. Poi tutto si sarebbe concluso con un nulla di fatto.
Ed era merito suo.
Li avevano fotografati, lui e Alessandro. Lui era quello che l’aveva trovata e le aveva tolto le forbici dal petto in uno slancio d’amore. Lui aveva chiamato la polizia. L’altro? Non contava niente, era giunto insieme alla polizia, era il fidanzatino della ragazza, e piangeva.
Sarebbe arrivata anche la televisione.
Si guardò nello specchio e con il pettine si aggiustò i capelli, tirati e lisci ai lati, con una cresta di riccioli al centro che ricadevano un po’ sulla fronte. In televisione avrebbe fatto la sua figura.
Ora bisognava dire tutto ai suoi: la polizia sarebbe arrivata anche a casa sua. E, prima della polizia, i giornali.
Chi contava veramente in casa era sua madre. Quella che aveva portato la dote, sposandosi. E che ancora manteneva tutta la famiglia.
Suo padre era caporeparto di una ditta di componenti elettronici. Ci lavorava da anni e aveva fatto una carriera ridicola. Suo fratello Marco, maggiore di lui di quasi dieci anni, si era laureato in Scienze della comunicazione solo per avere quel titolo davanti al nome e imboscarsi in una banca, come vicedirettore, dove l’aveva fatto assumere suo suocero, ricco impresario navale.
Da quando Marco si era sposato avevano vissuto tutti insieme nella vecchia casa che sua madre aveva ereditato al matrimonio. Un po’ stretti, con Nicola che stava nella mansarda per lasciare la sua stanza agli sposi.
Non ci sarebbero rimasti per sempre, soprattutto ora che era nato il primo figlio: stavano infatti sistemando il loro appartamento nuovo, regalo dei suoceri, e ci sarebbero andati a vivere alla fine dell’estate, quando Nora, la moglie, sarebbe tornata a casa dalla villeggiatura. Ora però erano ancora tutti là, per Giorgio, il nipotino.
Doveva dirlo ai suoi, pensò Nicola. Avrebbe mantenuto la versione che aveva fornito alla polizia, ma doveva dirglielo.
Era stata una giovane ispettrice a riaccompagnare a casa Alex.
«È qui che abiti?»
«Sì, al terzo piano. C’è l’ascensore».
«Alex, che succede?»
Un inquilino – Pasquale, del primo piano – era uscito sul pianerottolo: l’ispettrice era in divisa e la cosa sembrava strana.
«Niente, Pasquale, grazie».
«I tuoi non ci sono, se hai bisogno…»
«No, niente, niente.»
Quando giunsero in casa l’ispettrice si guardò attorno con l’aria di una che deve rispondere del proprio ruolo. In fondo alla stanza vide la scala. «E quella?» domandò.
«Io sto in mansarda, dormo e studio là di sopra».
L’ispettrice aveva già iniziato a salire. «Questa è la tua camera? Devi ancora farti il letto».
«Sì, mia madre di solito cambia le lenzuola, la domenica».
L’ispettrice avanzò nel corridoio e aprì la porta del bagno. «C’è accesa la lavatrice» disse, mostrandogli la lucetta dell’interruttore.
«Sì, devo spegnerla. Ho fatto io il bucato non essendoci mia madre a casa».
L’ispettrice si chinò, spense la lavatrice e aprì lo sportello. Frugando con le mani riconobbe le lenzuola, delle federe, qualche paio di calze, dei jeans e tre magliette. «C’è anche un paio di scarpe di gomma» disse. Stava ridendo.
«Sì, s’erano infangate con la pioggia».
«Ma non devi metterle in lavatrice con la biancheria, che cosa ti dice tua madre?» Sorrise, il bucato di un ragazzo senza testa, pensò.
«Infatti brontola».
«Bene… là c’è il tuo studio?» Mise dentro appena la testa, diede un’occhiata ai fogli e alla scrivania, e ritornò in corridoio. «Bene, vado. È tutto a posto».
Nel suo rapporto avrebbe elencato minuziosamente quello che aveva visto, e avrebbe aggiunto: niente di sospetto.
Sulle prime pagine dei giornali, il giorno dopo, apparvero le loro foto. Giulia. Viva e morta. Le forbici. Alex in lacrime che nasconde il viso con le mani. Nicola che guarda l’obiettivo indifferente e che, alle domande dei giornalisti e degli inviati della televisione, risponde sbuffando: ‘Lasciateci in pace’.
Il primo a entrare in casa Latorri fu Marco, il fratello maggiore.
«Ma come è successo?»
«L’hai letto, no? Piuttosto, mamma che cosa ha detto?»
«Eh… ‘Povera ragazza, accidenti’. E ora tu, tutta ’sta pubblicità… ma perché le hai tolto le forbici? Ma non li vedi i telefilm? Mai toccare le prove».
«Non sono stato io a ucciderla. E piantiamola».
Ma dovette ripetere la versione a sua madre e a suo padre. Tutto daccapo.
«Perché l’hai fatto?»
«Non ho fatto niente… era in terra, l’ho raccolta tra le braccia e le ho tolto quelle forbici dal petto. Lo so che è sbagliato, ma è stato istintivo, accidenti. Eravamo amici da quando andavamo a scuola. Che cosa dovevo fare?»
«Chiamare la polizia. L’ha detto anche mio suocero» intervenne Marco.
«Oh, allora…» e gli fece un gesto significativo con la mano tra le gambe.
«Che cosa possiamo fare?»
«Un avvocato… forse tuo suocero ne conosce».
«No, ne conosco uno io» disse Marco. «Ha fatto il liceo con me, si è laureato e ora lavora in uno degli studi più conosciuti di Napoli. Si chiama Aziz Bernardini, è uno di colore».
«Ma dài, il povero negro».
«Intanto è nato a Napoli e suo padre era napoletano, questo me lo ricordo. E so che è un fior d’avvocato, altro che balle. È nello studio, aspetta… Gilardi, sì. Massimo Gilardi».
«Accidenti. Coi contromaroni».
«Sì, sono andato alla sua festa di laurea, ha fatto il praticantato in quello studio e l’hanno preso. Gli telefono, a scuola lui era sempre il migliore».
«Doveva farsi perdonare il colore della pelle».
«Sarà, ma andiamo da lui e vediamo che cosa ci dice».
«Costerà…»
«No, siamo stati compagni di scuola, io in terza ero suo vicino di banco. Quindi non credo. E poi… se Nicola non ha fatto niente, che cosa deve difendere? Però ci dà un consiglio. Domani gli telefono».
«Magari lo diciamo anche ai genitori di Alex, possiamo fare una cosa sola e pagare in due».
«Sì, possiamo farlo… ma prima voglio parlargli io. Bocce ferme, allora, parto io. Domattina. Tu non dire niente a quell’altro».
«Okay» disse Nicola. «Ma qualcuno domani mi dovrà accompagnare all’università in macchina, con la moto non mi lasciano passare. Sono tutti lì fermi per fotografarmi, accidenti a loro».
«Domani. Domani facciamo tutto. Ora telefono a Nora, che era preoccupata».
«Perché?»
I due fratelli si guardarono. La stessa altezza, la stessa corporatura, gli stessi capelli neri. Ma Nicola era più forte.
«Vattene, va’… sempre nei guai».
«Tu, no? E con quello Spada, allora? Ti sei dimenticato che cosa ci hai fatto passare?»
«Che cosa vai a tirare in ballo, adesso? Sono passati più di dieci anni. Domani telefono ad Aziz Bernardini».