68
Reacher e Vaughan tornarono sul furgone. «Quella risposta era un sì o un no?» chiese lei.
«Entrambe le cose», disse lui. «No, non viene portato via, sì, è ancora lì.»
«E sono entrambe buone o entrambe cattive?»
Reacher chinò la testa e guardò dal parabrezza. Le quattro del pomeriggio. Il sole era una luce cupa dietro le nubi, ma era ancora alto all’orizzonte.
«Quattro ore perché faccia buio», disse. «Abbiamo tempo di prendere una decisione ponderata.»
«Pioverà.»
«Probabilmente.»
«Porterà altro TCE nella falda acquifera.»
«Probabilmente.»
«Non ce ne staremo seduti qui sotto la pioggia finché farà buio.»
«No. Torneremo all’Holiday Inn di Halfway.»
«Solo se prenderemo stanze separate.»
«Piantala, Vaughan. Prenderemo la stessa stanza dell’altra volta e faremo le stesse cose.»
La stessa stanza non era disponibile, ma ne presero una molto
simile. Stesse dimensioni, stesso arredo, stessi colori. Era
indistinguibile e vi fecero le stesse cose. Si fecero una doccia,
andarono a letto, fecero l’amore. All’inizio Vaughan era un po’
sulle sue, ma poi si sciolse. Dopo, disse che David era migliore a
letto. Reacher non si offese. Lei aveva bisogno di crederlo e
probabilmente era vero.
Rimasero stesi tra le lenzuola stropicciate e Vaughan esplorò le sue cicatrici. Aveva mani piccole. Il foro di proiettile nel petto era troppo grande per la punta del suo mignolo. L’anulare andava meglio. Tutte le donne che lo avevano visto nudo ne erano rimaste affascinate, tranne quella per cui se lo era preso. Lei aveva preferito dimenticare. La pioggia cominciò a cadere dopo un’ora. Era intensa. Batteva sul tetto dell’albergo e si riversava a ondate contro la finestra. A Reacher dava una sensazione di intimità. Gli piaceva stare a letto, al coperto, ad ascoltare la pioggia. Dopo un’ora Vaughan si alzò e si fece un’altra doccia. Lui rimase a letto e sfogliò la Bibbia che era nel comodino. Vaughan tornò e gli chiese: «Perché ha importanza?»
«Cosa?»
«Che Thurman accumuli l’uranio impoverito.»
«Non mi piace la combinazione. Ha venti tonnellate di scorie radioattive e venti tonnellate di TNT. È un fanatico della Fine dei tempi. Ieri notte ho parlato con un prete anglicano. Ha detto che i seguaci della Fine dei tempi non vedono l’ora che arrivi. Thurman stesso ha detto che gli eventi potrebbero precipitare. L’ha detto con un certo compiacimento, come se in cuor suo sapesse che è vero. E tutta la cittadina sembra attendere che accada qualcosa.»
«Thurman non può dare inizio alla Fine dei tempi. Accadrà quando accadrà.»
«Quelli sono fanatici. Sembrano convinti di poter forzare le cose. Cercano di far nascere mucche rosse in Israele.»
«A che servirebbe?»
«Non me lo chiedere.»
«Le mucche non sono pericolose.»
«Un altro fattore necessario sembra essere una grande guerra in Medio Oriente.»
«C’è già.»
«Non lo è abbastanza.»
«Come potrebbe peggiorare?»
«In diversi modi.»
«Personalmente non ne vedo altri.»
«Immagina che un altro Paese entri in guerra.»
«Sarebbero pazzi a farlo.»
«Immagina che qualcuno spari il primo colpo per loro.»
«Come potrebbe farlo?»
«Immagina che una bomba sporca scoppi a Manhattan, a Washington o a Chicago. Che cosa faremmo?» chiese Reacher.
«Secondo quello che dici evacueremmo la città.»
«E poi?»
«Indagheremmo.»
Reacher annuì. «Manderemmo persone con le tute protettive a frugare in mezzo alle macerie. Cosa troverebbero?»
«Prove.»
«Certo. Identificherebbero i materiali coinvolti. Immagina che trovino TNT e uranio impoverito.»
«Farebbero un elenco delle possibili fonti.»
«Sicuro. Chiunque al mondo può comprare TNT, ma l’uranio impoverito è più raro. È un sottoprodotto di un processo di arricchimento che avviene forse in una ventina di posti.»
«Centrali nucleari.»
«Esatto.»
«Un elenco di una ventina di sospetti non sarebbe d’aiuto.»
«Esatto», ripeté Reacher. «E la vittima designata non si farebbe avanti per assumersi la responsabilità perché in primo luogo non saprebbe niente di niente. Ma immaginiamo di essere spinti nella direzione voluta.»
«Come?»
«Ti ricordi di Oklahoma City? Del palazzo federale? È stata una grossa esplosione, ma dopo poche ore hanno capito che era un camion della Ryder. Sono incredibili nel mettere assieme minuscoli frammenti.»
«Ma un frammento di uranio è uguale all’altro.»
«Immagina però di essere un terrorista straniero, sponsorizzato da qualche Stato. Vorresti ottenere l’esplosione più forte possibile. Perciò, se non hai abbastanza uranio mentre costruisci l’autobomba, usi altro materiale per riempirla.»
«Quale altro materiale?»
«Magari parti di carcasse d’auto», osservò Reacher.
Vaughan non disse nulla.
«Immagina che gli uomini con le tute protettive trovino frammenti di Peugeot e Toyota vendute solo in certi mercati. Che trovino frammenti di targhe iraniane», proseguì lui.
Vaughan tacque per un istante, poi disse: «L’Iran sta lavorando con l’uranio. Se ne vanta».
«Ci stai arrivando», commentò Reacher. «Dopo, cosa succederebbe? »
«Faremmo determinate ipotesi.»
«E…?»
«Attaccheremmo l’Iran.»
«E dopo?»
«L’Iran attaccherebbe Israele, Israele reagirebbe e tutti quanti si ritroverebbero in guerra.»
«Gli eventi precipiterebbero», convenne Reacher.
«È una follia.»
«Quelle sono persone che credono che le mucche rosse siano il segno della fine del mondo.»
«Quelle sono persone che si preoccupano a tal punto da dare un’adeguata sepoltura alle ceneri umane.»
«Esatto, perché rispetto a qualsiasi standard è un gesto privo di significato. Forse è solo una facciata, per far sì che nessuno scavi più a fondo.»
«Non abbiamo prove.»
«Abbiamo un pazzo convinto della Fine dei tempi con le giuste competenze tecniche, venti tonnellate di TNT e venti di uranio impoverito, quattro auto iraniane e una fonte illimitata di container da spedizione, alcuni dei quali sono stati visti per l’ultima volta in Medio Oriente.»
«Credi sia possibile?» domandò Vaughan.
«Tutto è possibile.»
«Ma nessun giudice in America firmerebbe un mandato di perquisizione, non con quello che abbiamo. Non sono nemmeno prove indirette. È solo una folle ipotesi.»
«Io non cerco un mandato di perquisizione. Aspetto il buio», replicò Reacher.
Il buio arrivò due ore dopo e con esso i dubbi di Vaughan. «Se fai
sul serio, dovresti chiamare la Polizia statale o l’FBI.»
«Dovrei dare il mio nome. Non mi va.»
«Allora parla con il tenente della Polizia militare. Lui lo sa già e in fondo è il suo campo.»
«Il tenente rincorre medaglie e promozioni. Non vorrà agitare le acque.»
Stava ancora piovendo. Era un acquazzone intenso, continuo.
«Non sei il ministero della Giustizia fatto persona.»
«Cosa pensi veramente?»
«Al di là delle procedure legittime?»
«Sì, al di là di queste.»
«Non voglio che tu vada laggiù per via delle radiazioni.»
«Non mi faranno male.»
«D’accordo, non voglio andarci io. Hai detto che possono dare problemi di fertilità e difetti congeniti.»
«Non sei incinta.»
«Lo spero.»
«Anch’io.»
«Ma gli effetti possono permanere. Un giorno potrei volere dei bambini.»
È un progresso, pensò Reacher e disse: «La polvere è il problema. La pioggia la depositerà a terra. Inoltre non devi entrare. Accompagnami solo fin là».
Partirono trenta minuti dopo. Halfway era un posto piccolo, ma
impiegarono molto tempo a uscirne. Il traffico era lento. La gente
guidava cauta come sempre accadeva quando c’era un temporale in un
luogo normalmente secco. Le strade erano piene d’acqua, come fiumi.
Vaughan mise i tergicristalli al massimo. Si muovevano furiosi
avanti e indietro. Trovò la strada diretta a est e la imboccò. Nel
giro di un minuto il vecchio Chevy fu l’unica auto per strada.
L’unica per chilometri. La pioggia colpiva il parabrezza e
tamburellava sul tetto.
«Questo è un bene», commentò Reacher.
«Tu credi?»
«Saranno tutti a casa. Avremo l’impianto solo per noi.»
Mezz’ora dopo superarono la base della Polizia militare. Nella guardiola c’erano ancora quattro uomini. Indossavano mantelli da pioggia e la luce notturna arancione era accesa. Trasformava le gocce di pioggia sulle finestre in una costellazione di pietre preziose opache.
«Thurman volerà con questo tempo?» domandò Vaughan.
«Non ne ha necessità. Oggi non hanno lavorato», rispose lui.
Continuarono a guidare. Davanti a loro notarono una sottile chiazza orizzontale di luce azzurra. L’impianto illuminato, molto più piccolo rispetto a prima, come se si fosse spostato quindici chilometri più a sud. Mentre si avvicinavano, videro tuttavia che non si era mosso. La luce era minore solo perché era illuminata la parte più lontana, l’area segreta.
«Be’, adesso stanno lavorando», osservò Vaughan.
«Bene», disse Reacher. «Forse hanno lasciato aperto il cancello. »
Ma non era così. Il cancello del personale e quello principale degli automezzi erano chiusi. Gran parte dell’impianto era buio. A quasi un chilometro e mezzo di distanza l’area segreta appariva luminosa, lontana, allettante.
«Sei sicuro di volerlo fare?» chiese Vaughan.
«Assolutamente», rispose lui.
«Bene, dove?»
«Nello stesso posto di prima.»
La pista battuta dai Tahoe era molle, piena d’acqua. Il piccolo Chevy slittò, scodinzolò e riuscì infine ad avanzare. Vaughan trovò il luogo giusto. «Avvicinati in retromarcia», disse Reacher. Le ruote slittarono, il furgone uscì dai solchi e Vaughan si fermò con la ribalta ben sotto la curva del cilindro metallico. Il lunotto si trovava dunque all’incirca là dove prima c’era la base del parabrezza della Crown Vic.
«Buona fortuna», esclamò. «Sta’ attento.»
«Non ti preoccupare», replicò lui. «Il rischio maggiore che corro è la polmonite.»
Uscì sotto la pioggia e prima ancora di tirar fuori la roba dal vano di carico si ritrovò fradicio fino alle ossa. Si inginocchiò nel fango vicino al furgone, sistemò la scala nella posizione a L inclinata che si era rivelata utile in precedenza. Si mise la torcia in una tasca e appese all’altra il piede di porco per la parte ricurva. Sollevò quindi la scala in verticale appoggiandola sul retro del pick-up e ne ficcò i piedi nell’angolo destro, tra il pianale di carico e la parte posteriore della cabina. Lasciò che si inclinasse in avanti; il tratto corto della L si appoggiò alla sommità del cilindro, alluminio contro acciaio. Uno strano clonk armonico risuonò due volte, una subito, l’altra vari secondi dopo, come se l’impatto si fosse propagato lungo i chilometri di muro cavo e fosse tornato più forte.
Reacher salì sul pianale. La pioggia sferzava il metallo e gli rimbalzava sulle ginocchia. Tamburellava sul cilindro d’acciaio sopra la sua testa e ricadeva dal punto più sporgente a mo’ di sottile cascata. Reacher fece un passo di lato e all’insù e cominciò a salire. La pioggia gli batteva sulle spalle e la gravità manteneva il piede di porco in posizione verticale, tanto che sbatteva contro ogni piolo della scala. Acciaio contro alluminio contro acciaio. I suoni armonici tornarono, uno strano gemito metallico modulato dall’incalzare della pioggia. Superò l’angolo della L e si fermò. Il cilindro era ricoperto di vernice lucida e la vernice era viscida per l’acqua che vi scorreva. Se prima manovrare era stato difficile, ora lo sarebbe stato molto di più.
Armeggiò per estrarre la torcia dalla tasca e l’accese. La tenne tra i denti, guardò l’acqua e scelse il punto in cui metà ricadeva da una parte e metà dall’altra: l’esatto centro geometrico del cilindro. Lo spartiacque continentale. Si allineò con esso, abbandonò la scala e si sedette. Era una sensazione sgradevole. Cotone bagnato su vernice bagnata. Molto insicuro. Non c’era attrito. L’acqua si riversava giù dal suo corpo e minacciava di trascinarlo via per una sorta di effetto aquaplaning.
Rimase seduto a lungo. Avrebbe dovuto ruotare il busto all’altezza della vita, sollevare la scala e girarla dall’altra parte, ma non poteva muoversi. Al minimo movimento sarebbe scivolato. Era la legge del moto di Newton: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Se avesse girato la parte superiore del corpo a sinistra, la forza di torsione avrebbe spinto quella inferiore a destra e sarebbe caduto dal cilindro. Una struttura efficace, nata dalle ricerche effettuate sulle carceri.
Quattro metri fino a terra. Se non fosse piombato su un groviglio di rottami acuminati sarebbe sopravvissuto a una caduta controllata, ma senza la scala all’interno non avrebbe saputo come uscire.
Forse all’interno i cancelli erano dotati di semplici interruttori, non di combinazioni.
Forse avrebbe potuto mettere insieme una scala improvvisata con pezzi di metallo. Forse avrebbe potuto imparare a saldare, e costruirne una.
O forse no.
Ci penserò dopo, si disse.
Rimase seduto per un istante sotto la pioggia, quindi si protese lento in avanti e mentre scivolava si stese sul ventre. I palmi delle mani stridettero contro il metallo bagnato e il piede di porco cozzò e sbatté di qua e di là, poi novanta gradi oltre l’esatto centro della sommità Reacher prese a cadere nel vuoto per una frazione di secondo, due, tre.
Toccò terra molto più tardi di quanto non immaginasse, ma sotto di lui non c’erano frammenti metallici. Aveva le gambe flesse e cadde raggomitolato. Rotolò da una parte e il piede di porco fu scagliato dall’altra. La torcia saltò via e l’impatto gli tolse il fiato, però non successe altro. Si mise a sedere e da un rapido inventario mentale capì di non aver subito danni fisici al di là del fango, del grasso e dell’olio presenti sul terreno, che gli avevano imbrattato i vestiti.
Si alzò e si pulì le mani sui pantaloni. Trovò la torcia: era a un metro da lui e faceva ancora una bella luce. La prese con una mano e con l’altra recuperò il piede di porco, dopodiché rimase per un istante in piedi dietro la piramide di vecchi bidoni di petrolio. Infine uscì e puntò a sud-ovest. Sagome scure si stagliavano davanti a lui: gru, frantumatori, crogioli, mucchi di metallo. Al di là di essi l’area interna lontana era ancora illuminata.
Le luci formavano una T.
Una T molto corta. Il tratto trasversale era una linea di un azzurro accecante lunga quattrocento metri. Sopra di essa la luce formava un alone nell’aria umida. Il tratto verticale della T era invece molto breve, forse di quattro metri. Questo era tutto. Era larga approssimativamente nove metri. Una base molto tozza con una linea orizzontale tanto lunga.
Però c’era.
Il cancello interno era aperto.
Un invito, quasi sicuramente una trappola, una lampada per le falene. Reacher lo guardò a lungo e poi continuò ad avanzare a fatica. Il fascio della torcia mostrava pozzanghere dappertutto, con l’olio e il grasso che galleggiavano in superficie. La pioggia stava penetrando nella sabbia e le scorie stavano tornando in superficie per capillarità. Camminare era difficile. Dopo dieci passi le scarpe di Reacher avevano tirato su un chilo di fango appiccicoso. Diventava più alto a ogni passo. Ogniqualvolta la torcia illuminava un mucchio di vecchie travi a doppia T o un groviglio di vecchi tondini, si fermava e si puliva le suole. Era più fradicio che se fosse caduto in una piscina. Aveva i capelli appiccicati alla testa e l’acqua che gli colava negli occhi.
Davanti a sé vedeva i Tahoe bianchi della sorveglianza, indistinti e spettrali nel buio. Erano parcheggiati a sinistra del cancello principale per gli automezzi, a trecento metri di distanza. Andò dritto verso di essi. Per coprire il tragitto impiegò sette minuti: procedeva a velocità ridotta perché il terreno era molle. Quando vi arrivò, girò a destra e controllò il cancello degli automezzi. Non aveva avuto fortuna: all’interno aveva la stessa scatola grigia presente all’esterno, la stessa tastiera, gli stessi tre milioni e più di combinazioni. Si girò e seguì il muro superando l’ufficio della sorveglianza, quello di Thurman e quello della direzione operativa. Si fermò di fronte all’ufficio acquisti. Si pulì le scarpe, salì i gradini e con le unghie estrasse le viti del lucchetto. La porta cedette e si aprì. Reacher entrò.
Andò dritto alla fila di schedari, nell’angolo destro. Aprì il cassetto della T ed estrasse il dossier della Thomas, la compagnia telefonica, la fornitrice dei cellulari. Fissato al retro dell’ordine originale d’acquisto c’era uno spesso fascio di carte: contratti, dettagli, minuti pagati di conversazione, tasse, canoni, sconti, marche, modelli e numeri. Strappò il foglio con i numeri, lo piegò e lo mise nella tasca dei pantaloni, poi uscì di nuovo sotto la pioggia.
Quasi un chilometro e mezzo e quaranta minuti dopo si stava avvicinando al cancello interno.