30
I due lievi scatti prodotti dalle lame non erano rumori gradevoli. A Reacher si strinse lo stomaco. Detestava i coltelli. Avrebbe preferito se l’omone avesse estratto un paio di revolver a sei colpi. Le pistole possono sbagliare; anzi, di solito sbagliano, visti lo stress e la pressione, il tremore e la confusione. I verbali del dopo-azione lo dimostravano. Erano sempre pieni di soggetti arrivati morti in ospedale con sette proiettili in corpo, che parevano tanti finché non leggevi il terzo paragrafo e scoprivi che ne erano stati sparati ben centocinquanta.
I coltelli non sbagliavano. Se ti toccavano, ti tagliavano. Gli unici avversari che Reacher temeva davvero erano gli individui piccoli e agili, veloci di mano e dotati di coltelli affilati. L’ausiliario grosso non era né veloce né svelto ma, con i coltelli che impugnava, i colpi schivati non si sarebbero tradotti in sordi impatti sulle spalle: avrebbero significato ferite aperte, sangue che colava, legamenti e arterie tagliati.
Non andava bene.
Con un pugno Reacher fece volar via uno spettatore dal suo posto, afferrò la sedia vuota e la tenne davanti a sé come un domatore di leoni. La miglior difesa contro i coltelli era la distanza. La miglior contromossa era imbrigliarli. Una rete, un cappotto o una coperta lanciati contro di essi erano spesso efficaci: la lama si impigliava nel tessuto. Ma Reacher non aveva una rete, un cappotto o una coperta. Tutto ciò che aveva era una foresta orizzontale di quattro gambe di sedie. Attaccò come uno schermidore, dopodiché arretrò, fece volar via un altro tipo dal suo posto, raccolse la sedia vuota e alzando il braccio sopra la spalla la gettò contro la testa dell’omone. Questi si girò d’istinto, sollevò il capo per ripararsi la faccia e prese la sedia sull’avambraccio. Reacher indietreggiò e colpì con forza. Gli conficcò una gamba nel plesso solare e l’altra nel ventre. L’uomo cadde all’indietro, fece un respiro e caricò con forza agitando le braccia con i coltelli che sibilavano nell’aria e scintillavano sotto le luci.
Reacher arretrò agile e attaccò con la sedia colpendo in pieno il braccio dell’uomo. Questi si girò da una parte, poi dall’altra. Reacher si spostò a sinistra e attaccò ancora conficcandogli una gamba della sedia nella nuca. L’uomo fece un breve passo barcollando, poi caricò di nuovo con forza tenendo le mani basse divaricate mentre i coltelli tracciavano archi piccoli e pericolosi.
Reacher indietreggiò, fece volar via un terzo spettatore dal suo posto e lanciò la sedia vuota in alto con violenza. L’omone sollevò di scatto le braccia e la sedia gli rimbalzò sui gomiti. Reacher era pronto. Avanzò, colpì con violenza e lo prese in basso sul fianco, sotto le costole, sopra la vita, centodieci chili di peso che, attraverso l’estremità smussata della gamba di una sedia, affondavano solo in tessuti molli.
L’omone smise di combattere.
Si bloccò, si irrigidì e il suo viso si piegò in una smorfia. Buttò a terra i coltelli e si premette entrambe le mani sul ventre. Rimase a lungo in piedi come una statua, poi si chinò e vomitò sangue e muco sul pavimento. Arretrò barcollando, accovacciato, e cadde in ginocchio. Incurvò le spalle e divenne cereo. Vomitò ancora altro sangue e altro muco. Posò le mani divaricate ai lati della pozza che si ingrandiva e cercò di sollevarsi senza riuscirci. Arrivò a metà strada e crollò di lato. Alzò gli occhi al cielo, rotolò sul fianco e cominciò ad ansimare. Si portò una mano sullo stomaco e con l’altra batté per terra. Rigettò di nuovo a schizzo, una fontana di sangue verticale nell’aria. Dopodiché rotolò dall’altra parte e si appallottolò in posizione fetale.
Game over.
Nel bar calò il silenzio. Non c’era alcun rumore tranne quello dei respiri irregolari. L’aria era piena di polvere e del puzzo di sangue e di vomito. Reacher tremava per l’eccesso di adrenalina. Si costrinse a recuperare il controllo, posò la sedia senza far rumore, si chinò e raccolse i coltelli caduti. Premendole contro il legno del bancone, spinse le lame nei manici, poi se li infilò in tasca. Si aggirò nel silenzio generale e controllò il risultato. Il primo uomo che aveva colpito era steso di schiena, privo di sensi. Una gomitata sul naso era sempre efficace. Se data con troppa forza, poteva spingere qualche frammento osseo nei lobi frontali; se mirata male, poteva scagliare le schegge degli zigomi nelle orbite. Quella però era stata calibrata alla perfezione. L’uomo sarebbe stato male e rimasto stordito per una settimana, ma si sarebbe ripreso.
Quello che aveva iniziato la serata con la mascella fracassata aveva ora una nuova frattura al naso e un brutto mal di testa. Il neovenuto in fondo alla stanza aveva un braccio rotto a causa dello sgabello e forse una commozione cerebrale, dato che era finito di testa contro il muro. L’uomo accanto a lui era in stato di incoscienza per il calcio alla testa. L’ausiliario mancato dallo sgabello aveva costole rotte, un polso fratturato e la laringe spaccata.
Danni importanti tutt’intorno, ma l’intera impresa era stata fin dall’inizio volontaria.
Quindi, cinque su cinque, più una spiegazione medica di qualche tipo per il sesto. L’omone era rimasto in posizione fetale e aveva un’aria distrutta. Reacher si chinò, gli controllò il polso sul collo e lo trovò flebile. Gli perquisì le tasche e nella parte anteriore della camicia trovò una stella a cinque punte. Era un distintivo ufficiale di peltro con due righe incise nel centro: COMUNE DI DESPAIR, AUSILIARIO DI POLIZIA. Reacher se lo mise nella tasca della camicia. Trovò un mazzo di chiavi e un piccolo rotolo di banconote tenute da una clip d’ottone. Tenne le chiavi e lasciò i contanti. Si rialzò e si guardò attorno fino a individuare il barista. L’uomo era là dove si era messo all’inizio, appoggiato con il grasso culo al cassetto della cassa.
«Chiami l’impianto», disse Reacher. «Faccia venire l’ambulanza. Si occupi di quello grosso. Non ha un bell’aspetto.»
Dopodiché si avvicinò al banco e trovò la bottiglia. Era là dove l’aveva lasciata, sul tovagliolo. Si scolò l’ultimo sorso e scì nella notte dall’ingresso principale.