55

Il muro di metallo bianco splendeva tanto era caldo nella parte sud, mentre era più freddo a nord. Vaughan lo seguì e si fermò a un quarto del tratto settentrionale. Sterzò a sinistra, uscì sobbalzando dalla pista, si avvicinò lenta di muso al muro e si fermò con il paraurti anteriore quasi a contatto e il davanti del cofano esattamente sotto il cilindro orizzontale. La base del parabrezza si trovava un metro e mezzo più in basso del punto più sporgente del cilindro e sessanta centimetri più all’esterno.

Vaughan rimase seduta, Reacher uscì e tirò fuori la scala a pioli dal sedile posteriore. La dispose a L capovolta. Fece un calcolo a occhio, aumentò l’angolo fino a un po’ più di novanta gradi e fissò tutti i giunti. La sollevò in alto, ne ficcò i piedi nel solco alla base del parabrezza della Crown Vic, là dove il bordo del cofano si sovrapponeva ai tergicristalli, e lasciò che si inclinasse in avanti. La scala toccò il muro con un debole suono metallico, alluminio contro acciaio verniciato. Il segmento lungo della L risultò quasi verticale, quello corto appoggiava sopra il cilindro, quasi orizzontale.

«Va’ indietro di trenta centimetri», mormorò.

Vaughan arretrò con la macchina e la base della scala si spostò all’esterno formando un angolo più aperto. La sommità si inclinò in avanti in modo corrispondente e finì per essere perfettamente orizzontale.

«Adoro i ferramenta», commentò Reacher.

«Pensavo che questo tipo di muro fosse invalicabile.»

«Non siamo ancora dall’altra parte.»

«Ma quasi.»

«Di solito sono dotati di torrette di guardia e riflettori per evitare che la gente porti con sé auto e scale.»

Vaughan spense il motore e tirò bene il freno a mano. Lo schermo del computer si spense e furono costretti a tornare allo spettro visibile, che peraltro non conteneva niente di molto visibile, solo buio. Vaughan prese la torcia e Reacher il piede di porco dal bagagliaio. Salì sul cofano, si girò e si accovacciò sotto la pancia del cilindro. Avanzò verso la base del parabrezza, si girò di nuovo e iniziò a salire la scala. Teneva il piede di porco nella sinistra e si reggeva ai pioli con la destra. L’alluminio oscillava contro l’acciaio e produceva un suono armonico strano nella cavità del muro. Reacher rallentò per attutire il rumore, arrivò all’angolo, si protese e percorse carponi il tratto orizzontale della L. Strisciò di lato e rimase come una stella marina sulla superficie del cilindro. Quasi due metri di diametro, quasi sei di circonferenza, abbastanza piano da essere superabile e abbastanza curvo da essere pericoloso. Inoltre, la vernice bianca era scivolosa e lucida. Alzò cauto la testa e si guardò attorno.

Era a meno di due metri da dove voleva essere.

La piramide di vecchi bidoni di petrolio era a malapena visibile al buio, due metri più a ovest. La fila superiore era due metri e mezzo più a sud e a meno di mezzo metro dalla sommità del muro. Avanzò silenzioso strisciando e afferrò di nuovo la scala che scivolò di lato nella sua direzione senza fare alcuna resistenza. «Sali sul piolo in basso», gridò.

La scala si raddrizzò sotto il peso di Vaughan. Reacher si avvicinò, vi si mise sopra, si girò e si stese di nuovo dall’altra parte. Adesso era esattamente dove voleva essere. «Sali», gridò.

Vide la scala piegarsi, ondeggiare e rimbalzare un po’. Lo strano suono armonico ricominciò, poi comparve la testa di Vaughan. Si fermò per orientarsi, superò l’angolo, scese dalla scala e si stese nel luogo appena liberato da Reacher, a disagio, con le braccia e le gambe divaricate. Lui le porse il piede di porco, tirò la scala di lato in modo goffo, incrociando e disincrociando le mani fino a porla approssimativamente in equilibrio nel punto più alto della curva. Guardò a destra, verso l’arena, avvicinò la scala un po’ di più a sé, poi l’abbassò finché i piedi del tratto corto della L toccarono un bidone a due file dalla sommità. Il tratto lungo assunse una posizione lievemente inclinata tra il muro e la pila di bidoni, simile a un ponte.

«Adoro i ferramenta», ripeté.

«E io adoro stare a terra», replicò Vaughan.

Reacher prese il piede di porco, si allungò e mise entrambe le mani sui montanti della scala. Tirò con forza verso il basso per essere certo che fosse ben salda, poi si sostenne completamente con le braccia, come se facesse sollevamenti alla sbarra e lasciò che le gambe scivolassero giù dal cilindro. Scalciò e si dimenò finché si trovò in posizione longitudinale. A quel punto posò i piedi sui pioli e scese all’indietro con il sedere sporgente quando l’inclinazione era lieve, con una postura più normale dopo l’angolo. Arrivò al bidone di petrolio e si guardò attorno. Non c’era niente da vedere. Tenne ferma la scala e gridò a Vaughan: «Tocca a te».

Lei scese nello stesso modo, all’indietro, con il sedere in alto come una scimmia, poi dopo l’angolo più o meno verticalmente sino a trovarsi in piedi sul bidone, tra le braccia tese di Reacher che reggevano ancora la scala. Lui rimase lì per un istante, poi si mosse e le disse: «Adesso è facile come scendere le scale».

Scesero lungo la piramide. I bidoni vuoti rimbombarono. Misero piede sul terreno appiccicoso e avanzarono allo scoperto tra gli scricchiolii del suolo. Reacher attese un attimo, quindi si avviò verso sud-ovest. «Da questa parte», indicò.



Coprirono i quattrocento metri che li separavano dal cancello degli automezzi in meno di cinque minuti. I Tahoe bianchi erano parcheggiati vicini accanto a un battente, accanto all’altro c’era una fila di cinque semiarticolati con pianale. Non avevano motrici. C’erano solo i rimorchi, sostenuti davanti da sottili supporti telescopici. Quattro erano rivolti verso il cancello. Erano carichi di barre di acciaio. Merce pronta per la spedizione. Il quinto era rivolto verso l’impianto. Portava un container chiuso di colore scuro, forse blu, con su stampigliato CHINA LINES. Rottami in arrivo. Reacher lo guardò, lo superò e puntò verso la fila di uffici. Vaughan lo seguì. Ignorarono la sede della sorveglianza, l’ufficio personale di Thurman, la direzione operativa, gli acquisti e la fatturazione, nonché la prima infermeria dipinta di bianco. Si fermarono di fronte alla seconda. «Fai di nuovo visita al malato?» chiese Vaughan.

Reacher annuì. «Senza Thurman potrebbe parlare.»

«La porta potrebbe essere chiusa a chiave.»

Reacher sollevò il piede di porco.

«Ho una chiave», rispose.

La porta tuttavia non era chiusa a chiave e l’ausiliario malato non parlò.

Era morto.



Era ancora ben infilato sotto le coperte, ma aveva esalato l’ultimo respiro alcune ore prima, quello era chiaro. Forse era morto solo, senza assistenza. Aveva la pelle fredda, rigida, pallida, gli occhi aperti e appannati, i capelli radi, arruffati, come se si fosse mosso sul cuscino in cerca di compagnia o di conforto. Dall’ultima volta che l’aveva vista, la cartella clinica non era stata aggiornata. La lunga serie di sintomi e disturbi era ancora lì, non risolta.

«TCE?» domandò Vaughan.

«Possibile», rispose Reacher.

Stiamo facendo del nostro meglio, aveva detto Thurman. Speriamo migliori. Domani lo farò portare all’ospedale di Halfway.

Bastardi, pensò Reacher.

«Questo potrebbe succedere anche a Hope», affermò Vaughan. «Ci servono i dati per Colorado Springs. Per il laboratorio. »

«Per questo siamo qui», disse Reacher.

Rimasero accanto al letto ancora per un istante, poi chiusero con delicatezza la porta, come se per l’uomo cambiasse qualcosa, scesero i gradini e risalirono la fila sino all’ufficio contrassegnato dalla scritta ACQUISTI. La porta era chiusa da un lucchetto infilato in un gancio. Lucchetto e gancio erano robusti, ma le viti che assicuravano il gancio allo stipite no. Cedettero a un peso che superava di poco quello del solo piede di porco. Saltarono via dal telaio di legno e caddero per terra mentre la porta si schiudeva. Vaughan accese la torcia e la coprì con il palmo. Fece strada lei. Reacher la seguì, chiuse la porta e la bloccò con una sedia.

Dentro c’erano tre tavoli, tre telefoni e una parete di schedari a tre cassetti, alti circa un metro. Quattro metri cubi di ordini d’acquisto secondo il calcolo automatico di Reacher.

«Da dove iniziamo?» bisbigliò Vaughan.

«Prova dalla T, per TCE.»

I cassetti della T erano a circa quattro quinti della fila, come volevano logica e alfabeto. Erano zeppi di carte, ma nessuna faceva riferimento al tricloroetilene. Tutto era archiviato in base al nome del fornitore. I cassetti riguardavano tutti ditte chiamate Tri-State, Thomas, Tomkins e Tribune. La Tri-State aveva rinnovato un’assicurazione contro gli incendi otto mesi prima, la Thomas era una società di telecomunicazioni che aveva fornito quattro nuovi cellulari tre mesi prima, la Tomkins aveva montato le gomme a due escavatrici sei mesi prima e la Tribune consegnava fili per legare ogni due settimane. Tutte attività essenziali per l’impianto di riciclaggio, non c’erano dubbi, ma nessuna di natura chimica.

«Comincerò dalla A», annunciò Vaughan.

«E io dalla Z», disse Reacher. «Ci vediamo alla M o alla N, se non prima.»

Vaughan fu più rapida. Aveva la torcia. Lui doveva fare affidamento sui raggi occasionali che entravano nella stanza dall’altra estremità della fila. Alcune cose erano palesemente irrilevanti. Tutto quello che poteva essere dubbio, doveva estrarlo ed esaminarlo da vicino. Era un lavoro lento. L’orologio nella sua mente continuava a ticchettare, inesorabile. Cominciò a preoccuparsi per l’alba. Non era lontana. A un certo punto trovò un ordine per migliaia di litri, ma a una verifica più attenta risultarono essere solo benzina e gasolio. Il fornitore era la Western Energy del Wyoming e l’acquirente la Thurman Metals di Despair, in Colorado. Rimise il documento a posto e si spostò a sinistra verso i cassetti della V. La prima cartellina che estrasse riguardava forniture mediche: soluzione salina, sacche per infusioni endovenose, aste portaflebo, una varietà di strumenti necessari. Piccole quantità, sufficienti per una piccola struttura.

Il fornitore era la Vernon Medical di Houston, in Texas.

L’acquirente era la Olympic Medical di Despair, in Colorado.

Reacher porse il documento a Vaughan. Un ordine ufficiale d’acquisto su carta intestata ufficiale della ditta, con lo stesso logo aziendale che avevano visto due volte sui cartelloni a sud di Colorado Springs. L’indirizzo della sede principale era nell’impianto di riciclaggio, due prefabbricati più in giù.

«Thurman possiede la Olympic», disse Reacher. «Dove si trova tuo marito.»

Vaughan mormorò: «La cosa non mi piace».

«Neanche a me», convenne lui.

«Dovrei tirarlo fuori da lì.»

«Oppure tirare Thurman fuori da qui.»

«Come?»

«Continua a scavare.»

Reacher completò la V e la U, saltò la T perché l’avevano già verificata. Apprese che il fornitore di ossiacetilene di Thurman era la Utah Gases e che quello di cherosene era la Union City Fuels. Non trovò riferimenti al tricloroetilene. Stava aprendo l’ultimo cassetto della S quando Vaughan annunciò: «Trovato ». Aveva aperto il primo cassetto della K.

«Kearny Chemical del New Jersey», disse. «Gli acquisti di TCE iniziano sette anni fa.»

Estrasse la cartella dal cassetto, la illuminò con la torcia e sfogliò i documenti con il pollice. Reacher vide la parola tricloroetilene ripetuta all’infinito, compariva in ogni riga.

«Prendi tutto», le disse. «Faremo dopo la somma delle quantità.»

Vaughan si cacciò la cartellina sotto il braccio e chiuse il cassetto con un colpo d’anca. Reacher spostò la sedia, aprì la porta e uscirono insieme nel buio. Si fermò e usò la torcia per trovare le viti cadute per terra, quindi le rimise nei fori. Tenevano pur essendo allentate e davano l’impressione che la serratura non fosse stata toccata. Seguì quindi Vaughan che ripercorse i suoi passi, oltre la direzione operativa, la tana di Thurman e l’ufficio della sorveglianza. Li lo aspettò; insieme girarono attorno al container della China Lines e si diressero verso lo spazio aperto. Là Reacher si fermò di nuovo.

E si girò.

«Torcia», disse.

Vaughan gliela porse, lui l’accese e puntò il fascio sul lato del container. Si stagliava enorme e irreale nella luce improvvisa, alto sul rimorchio come se fosse sospeso a mezz’aria. Era lungo dodici metri, squadrato, metallico. Aveva la scritta CHINA LINES dipinta a grandi lettere di color bianco sporco e una fila verticale di caratteri cinesi, più una serie di codici identificativi stampigliati in basso, in un angolo.

Più una parola scritta a mano con il gesso in lettere maiuscole.

Il gesso era sbiadito, come se fosse stato applicato molto tempo prima, nella destinazione opposta, dopo una traversata di migliaia di miglia.

La parola sembrava essere AUTO.

Reacher si avvicinò di più. Dal lato dell’apertura il container aveva uno sportello a due ante, chiuso nel solito modo da quattro leve di una trentina di centimetri che azionavano quattro barre robuste. Disposte lungo l’intera altezza del container, queste si infilavano negli appositi alloggiamenti quadrati in alto e in basso. Le leve erano tutte in posizione di chiusura. Tre erano inserite nei rispettivi alloggiamenti. La quarta era chiusa da un lucchetto e protetta a mo’ di sigillo da un’etichetta di plastica.

«Questo è un carico in arrivo», osservò Reacher.

«Sembra proprio di sì», rispose Vaughan.

«Voglio vedere cosa c’è dentro.»

«Perché?»

«Sono curioso.»

«Dentro ci sono solo auto. In questa attività è normale.»

Lui annuì nel buio. «Le ho viste arrivare dagli Stati vicini, su pianali aperti, non protette in container chiusi.»

Vaughan tacque per un istante. «Credi sia roba dell’esercito dall’Iraq?»

«È possibile.»

«Non voglio vedere. Potrebbero essere Humvee. In fondo sono auto, lo hai detto tu stesso.»

«In fondo sono auto, ma nessuno li chiama così, di certo non le persone che hanno caricato questo coso.»

«Sempre che arrivi dall’Iraq.»

«Sì, sempre che sia così.»

«Non voglio vedere.»

«Io sì.»

«Dobbiamo andare. È tardi. O presto.»

«Farò in fretta», replicò. «Non guardare se non vuoi.»

Lei si allontanò nell’oscurità tanto che Reacher non la vide più. Tenendo la torcia tra i denti, si allungò e infilò la punta del piede di porco nel lucchetto. Contò uno, due e al tre strattonò in basso con tutte le forze.

Senza risultati.

Lavorare molto al di sopra della sua testa riduceva la capacità di far leva. Reacher salì allora sulla sporgenza in basso, là dove il container era rinforzato, afferrò la chiusura verticale e si tirò su fino al punto in cui poteva affrontare il problema faccia a faccia. Posizionò di nuovo il piede di porco e riprovò. Uno, due, strattone.

Nessun risultato.

Acciaio temperato, laminato a freddo, spesso e pesante. Un buon lucchetto. Reacher avrebbe voluto possedere un piede di porco da un metro. O una leva da due. Pensò di trovare una catena e di agganciarla a un Tahoe. Le chiavi erano probabilmente dentro, ma la catena si sarebbe rotta prima del lucchetto. Rifletté sulla questione sempre più scoraggiato. Poi cacciò il piede di porco nel lucchetto per un terzo tentativo. Uno, due. Al tre strattonò in basso con tutta la forza che aveva in corpo e saltò giù dalla sporgenza in modo da aumentare l’impatto grazie al suo peso. Un colpo sferrato da due mani, corroborato da centodieci chili di massa in movimento.

Il lucchetto si ruppe.

Reacher cadde a terra, investito da una pioggia di frammenti di metallo sulla testa e sulla spalla. Il piede di porco cadde con fragore dalla sporgenza e lo colpì sul piede, ma non ci fece caso. Salì di nuovo su, ruppe l’etichetta, spostò brusco le leve dagli alloggiamenti e aprì le ante. Il metallo stridette e si deformò. Sollevò la torcia e diede un’occhiata dentro.

Auto.

Gli scossoni di un lungo viaggio via mare le avevano spostate tutte sul lato destro del container. Ce n’erano quattro, impilate a due a due in senso longitudinale. Marche strane, modelli strani. Impolverate, coperte di sabbia, di colori pastello.

Erano spaventosamente danneggiate, aperte come scatolette, lacerate, strappate, schiacciate, contorte. Nella carrozzeria avevano buchi grandi quanto pali telefonici.

Avevano targhe chiare rettangolari con numeri arabi nitidi: sfondo bianco sporco, anse e riccioli fini, puntini neri a forma di diamante.

Reacher si girò e gridò nel buio: «Niente Humvee». Sentì dei leggeri passi e Vaughan apparve nell’oscurità. Reacher si chinò, la prese per mano e la tirò su. Lei rimase al suo fianco e seguì il fascio della torcia mentre lui illuminava l’interno.

«Dall’Iraq?» chiese.

Lui annuì.

«Veicoli civili.»

«Kamikaze?» domandò Vaughan.

«Sarebbero ridotte peggio. Non ne rimarrebbe niente.»

«Allora ribelli», disse. «Forse non si sono fermati ai posti di blocco.»

«Perché portarli qui?»

«Non lo so.»

«I posti di blocco sono difesi da mitragliatrici. Queste sono state colpite da qualcosa di molto diverso. Guarda i danni.»

«Cosa li avrà provocati?»

«Non lo so. Forse il fuoco dei cannoni, grossi proiettili di qualche tipo o missili filoguidati.»

«Da terra o via aria?»

«Da terra, credo. Le traiettorie sembrano piuttosto piatte.»

«Fuoco di artiglieria contro delle berline?» osservò Vaughan. «Mi sembra un po’ estremo.»

«Già», convenne Reacher. «Che diavolo sta succedendo?»



Chiusero il container, Reacher guardò in giro nella sabbia con la torcia finché trovò il lucchetto rotto. Ne gettò i pezzi molto lontano sperando che si perdessero nella confusione. Ripercorsero i quattrocento metri fino alla piramide dei bidoni di petrolio e scalarono il muro nella direzione opposta, per uscire, non per entrare. Fu altrettanto difficile. La struttura era perfettamente simmetrica, ma riuscirono a superarla. Scesero, misero piede sul cofano della Crown Vic e toccarono di nuovo il suolo. Reacher ripiegò la scala e la infilò sul sedile posteriore. Vaughan mise il dossier della Kearny Chemical che avevano sottratto nel bagagliaio, sotto il tappetino.

«Possiamo tornare a casa per la via più lunga? Non voglio passare di nuovo per Despair.»

«Non torniamo a casa», replicò Reacher.

Child Lee - 2008 - Niente da perdere: Un'avventura di Jack Reacher
titlepage.xhtml
part0000.html
part0001_split_000.html
part0001_split_001.html
part0001_split_002.html
part0001_split_003.html
part0001_split_004.html
part0001_split_005.html
part0001_split_006.html
part0001_split_007.html
part0001_split_008.html
part0001_split_009.html
part0001_split_010.html
part0001_split_011.html
part0001_split_012.html
part0002.html
part0003.html
part0004_split_000.html
part0004_split_001.html
part0005.html
part0006.html
part0007.html
part0008.html
part0009.html
part0010.html
part0011.html
part0012.html
part0013.html
part0014.html
part0015.html
part0016.html
part0017.html
part0018.html
part0019.html
part0020.html
part0021.html
part0022.html
part0023.html
part0024.html
part0025.html
part0026.html
part0027.html
part0028.html
part0029.html
part0030.html
part0031.html
part0032.html
part0033.html
part0034.html
part0035.html
part0036.html
part0037.html
part0038.html
part0039.html
part0040.html
part0041.html
part0042.html
part0043.html
part0044.html
part0045.html
part0046.html
part0047.html
part0048.html
part0049.html
part0050.html
part0051.html
part0052.html
part0053.html
part0054.html
part0055.html
part0056.html
part0057.html
part0058.html
part0059.html
part0060.html
part0061.html
part0062.html
part0063.html
part0064.html
part0065.html
part0066.html
part0067.html
part0068.html
part0069.html
part0070.html
part0071.html
part0072.html
part0073.html
part0074.html
part0075.html
part0076.html
part0077.html
part0078.html