61

Reacher lasciò la stazione di servizio prima del prete con il camion della U-Haul e si diresse a nord alla massima velocità consentita dal vecchio Suburban. L’uomo ubriaco continuò a dormirgli a fianco. Trasudava alcol. Reacher aprì un po’ un finestrino. L’aria notturna lo teneva sveglio e lucido, e il fischio copriva il russare. Tredici chilometri a nord di Lamar la copertura dei cellulari terminò. Reacher suppose che non sarebbe ricomparsa prima del corridoio della I-70, dopo due ore di viaggio. Erano le quattro del mattino. Orario previsto di arrivo a Hope: approssimativamente all’alba. Un ritardo di cinque ore, fastidioso ma forse non disastroso.

Poi il motore del Suburban scoppiò.

Reacher non era affatto un esperto di auto. Non lo aveva previsto. Aveva visto l’indicatore della temperatura spostarsi di un soffio verso l’alto e non vi aveva fatto caso. Erano lo sforzo e la sollecitazione di un lungo viaggio a una certa velocità, aveva pensato. Ma l’ago non aveva smesso di muoversi. Si era spostato fino al settore rosso e non si era fermato finché non aveva toccato il piolo in fondo. Il motore perse potenza e dalle bocchette della ventilazione arrivò un odore caldo, di bagnato. Poi si udì un tonfo sotto il cofano e dalle fessure della ventilazione, davanti al parabrezza, fuoriuscirono schizzi di un’emulsione marrone chiaro che imbrattarono tutto il vetro. Il motore morì e il Suburban rallentò. Reacher sterzò verso il bordo e si fermò.

Non va bene, pensò.

L’uomo ubriaco continuò a dormire.

Reacher scese al buio e si accostò al cofano. Con le mani cercò di riflettere parte della luce dei fari sull’auto. Vide vapore e una poltiglia appiccicosa marrone chiaro che fuoriusciva da ogni fessura, densa e schiumosa. Un misto di olio motore e acqua di raffreddamento. Le guarnizioni della testata erano andate. Un danno grave, riparabile ma non senza centinaia di dollari e una settimana di lavoro d’officina.

Non andava bene.

A meno di un chilometro in direzione sud scorse le luci del camion della U-Haul avanzare verso di lui. Si avvicinò alla portiera del passeggero, si chinò sopra l’uomo addormentato, trovò una penna e una vecchia fattura di una riparazione nel vano del cruscotto. La girò e scrisse: Si dovrà comprare un’auto nuova. Ho preso a prestito il suo cellulare. Glielo spedirò per posta. Firmò: il suo autostoppista. Prese il libretto del Suburban per avere l’indirizzo del proprietario, lo piegò e se lo mise in tasca. Fece una quindicina di metri verso sud, si piazzò in mezzo alla corsia, alzò le braccia bene in alto e attese, pronto a fermare il camion. Questo lo individuò con la luce dei fari a cinquanta metri di distanza. Reacher agitò le braccia sopra la testa, richiesta universale di aiuto. Il camion azionò gli abbaglianti e rallentò, come Reacher sapeva avrebbe fatto. Una strada solitaria, un veicolo in panne e un guidatore appiedato, tutti e due almeno vagamente familiari al buon samaritano al volante.

Il camion si fermò a un metro da lui, per metà sul ciglio. Il finestrino si abbassò e l’uomo con il colletto da prete si sporse.

«Le serve aiuto?» chiese, poi gli rivolse un sorriso. «Domanda stupida.»

«Mi serve un passaggio», rispose lui. «È scoppiato il motore. »

«Vuole che dia un’occhiata?»

«No», rispose Reacher. Non voleva che il ministro vedesse l’ubriaco. Da lontano risultava nascosto sul sedile reclinato, al di sotto della linea dei finestrini. Da vicino sarebbe stato grosso ed evidente. Abbandonare un mezzo rotto in mezzo al nulla era una cosa, abbandonare un passeggero comatoso un’altra. «Non ha senso, mi creda. Dovrò mandare un carro attrezzi, oppure dar fuoco a quel maledetto coso.»

«Io vado a nord, a Yuma. È il benvenuto se vuole unirsi a me per tutto o parte del viaggio.»

Reacher assentì e richiamò alla mente la cartina. La strada per Yuma incrociava quella per Hope a circa due ore di viaggio. Era la stessa da cui era arrivato la prima volta con l’anziano della Grand Marquis. Avrebbe dovuto trovare un terzo passaggio per l’ultima tappa verso ovest. Adesso l’orario previsto di arrivo era intorno alle dieci del mattino, se gli fosse andata bene. «Grazie, scenderò a circa metà strada per Yuma», disse.



Il camion della U-Haul aveva un telaio completo da pick-up, sovrastato da un cassone un po’ più lungo e largo e molto più alto del pianale di carico di un pick-up. Era infossato e dondolava; il peso in più e la resistenza aerodinamica lo rendevano lento. Raggiunse a fatica i novantacinque all’ora e a quella velocità rimase. Non sarebbe andato più veloce. Dentro puzzava di fumi di scarico caldi, di olio bollente e di plastica. Il sedile era di tessuto, come reclamizzato, abbastanza comodo. Reacher dovette sforzarsi di rimanere sveglio. Voleva essere di buona compagnia, non voleva comportarsi come l’ubriaco.

«Che cosa trasporta?» domandò.

«Mobili usati. Donazioni. Abbiamo una missione a Yuma», rispose l’uomo con il colletto.

«Avete?»

«La nostra Chiesa.»

«Che genere di missione?»

«Aiutiamo i senzatetto e i bisognosi.»

«Che genere di Chiesa?»

«Siamo anglicani, moderati.»

«Suona la chitarra?»

L’uomo sorrise di nuovo. «Siamo favorevoli al tutto compreso. »

«Là dove vado, c’è una Chiesa della Fine dei tempi.»

Il ministro scosse la testa. «Una congregazione della Fine dei tempi, forse. Non è una confessione riconosciuta.»

«Cosa sa di loro?»

«Ha letto l’Apocalisse?»

«Ne ho sentito parlare», disse Reacher.

«Il titolo esatto è Il libro dell’Apocalisse di San Giovanni apostolo. L’originale è andato in gran parte perduto. È stata scritta o in antico ebraico o aramaico, copiata a mano molte volte, tradotta nella lingua koinè greca, copiata a mano ancora molte volte, tradotta in latino, di nuovo copiata a mano molte volte, tradotta in inglese elisabettiano e stampata. Ogni fase ha comportato possibilità di errori e confusioni. Adesso dà l’impressione di un brutto trip con gli acidi. Immagino però l’abbia sempre data. Forse tutte le traduzioni e le copiature l’hanno in realtà migliorata.»

«Cosa dice?»

«La sua idea vale quanto la mia.»

«Parla sul serio?»

«Alcuni dei nostri senzatetto sono più logici.»

«La gente cosa ritiene che dica?»

«In linea di massima, i giusti andranno in cielo, gli empi verranno lasciati sulla terra e afflitti da varie piaghe e calamità. Cristo tornerà per lottare contro l’anticristo in uno scenario da Armageddon e nessuno alla fine sarà molto felice.»

«È la stessa cosa dell’Estasi?»

«L’Estasi riguarda la salita al cielo. Le calamità e la lotta sono una cosa distinta. Vengono dopo.»

«Quando dovrebbe accadere tutto ciò?»

«Secondo loro è sempre imminente.»

Reacher ripensò al discorsetto compiaciuto di Thurman nell’impianto di riciclaggio. Ci sono segni, aveva detto. E possibilità che gli eventi precipitino.

«Quale sarebbe il fattore scatenante?» domandò.

«Non so se esista un fattore scatenante. Presumibilmente una grossa componente sarà la volontà divina. Di certo lo si spera.»

«Ci saranno premonizioni? Qualche modo di sapere che sta per accadere?»

Il ministro scrollò le spalle guardando il volante. «Quelli della Fine dei tempi leggono la Bibbia come altri ascoltano i dischi dei Beatles al contrario. Si parla della nascita di un vitello rosso in Terra Santa. I fanatici della Fine dei tempi amano molto questo aspetto: passano in rassegna le fattorie in cerca di bovini un po’ più ramati del solito. Ne mandano coppie in Israele sperando che ne partoriscano uno rosso perfetto. Vogliono dare inizio alle cose. Questa è un’altra caratteristica fondamentale: non sanno aspettare perché sono tutti spaventosamente certi di essere tra i giusti, il che in realtà li rende ipocriti. Le persone accettano in genere che spetti a Dio decidere chi verrà salvato, non all’uomo. Perciò in verità è una forma di snobismo. Si credono migliori del resto di noi.»

«Tutto qui? Si tratta solo di vitelli rossi?»

«I più fanatici credono sia assolutamente necessaria una grande guerra in Medio Oriente, per questo sono così scontenti dell’Iraq. Evidentemente, quello che succede laggiù per loro non è abbastanza brutto.»

«Mi sembra scettico.»

L’uomo sorrise di nuovo.

«È ovvio che lo sia», rispose. «Sono anglicano.»



Non seguirono altri discorsi, né teologici né laici. Reacher era troppo stanco e l’uomo al volante si era più che calato nella modalità di sopravvivenza «guida notturna», in cui esisteva solo il tratto di strada illuminato dai fari davanti a lui. Aveva gli occhi spalancati e sedeva proteso in avanti, quasi sapesse che rilassarsi sarebbe stato fatale. Anche Reacher cercò di restare sveglio per individuare la strada per Hope. Sapeva che non era segnalata e non era certo una via di grande comunicazione. L’uomo al volante non sarebbe riuscito a identificarla.

Questa apparve esattamente dopo due ore di viaggio, una strada a due corsie tutta a gobbe che incrociava la loro ad angolo retto. Aveva un cartello di stop, mentre quella principale nord-sud no. Ora che Reacher gliela indicò, il ministro reagì e i freni mal bilanciati del camion della U-Haul fecero il loro lavoro, l’avevano superata di duecento metri. Reacher scese, salutò il conducente e aspettò finché le luci e il rumore furono scomparsi. Poi si incamminò in quel vasto spazio, scuro e vuoto. Molto a oriente, nel Kansas o nel Missouri, si preannunciava l’arrivo dell’alba. In Colorado era ancora buio pesto. Non c’era copertura per il cellulare.

E nemmeno traffico.

Reacher si piazzò a ovest dell’incrocio, tenendosi sul bordo vicino alla corsia. I guidatori diretti da est a ovest si sarebbero dovuti fermare al segnale di stop di fronte e lo avrebbero visto bene da una ventina di metri. Ma non ci furono guidatori diretti da est a ovest, non nei primi dieci minuti, come del resto nei primi quindici e nei primi venti. Arrivò una macchina solitaria diretta a nord: seguiva il camion della U-Haul a una trentina di chilometri di distanza, ma non svoltò, passò sfrecciando. Arrivò un SUV diretto a sud e rallentò per girare, ma girò verso est, allontanandosi da Hope. Le sue luci si fecero più piccole e deboli, dopodiché svanirono.

Faceva freddo. Da est soffiava un vento che portava nuvole di pioggia in cielo. Reacher si alzò il colletto e incrociò le braccia al petto, infilando le mani sotto le ascelle per tenerle calde. Il mondo girava e strisce diffuse di rosa e porpora solcate da nubi illuminarono l’orizzonte lontano. Un nuovo giorno, vuoto, innocente, ancora incontaminato. Forse sarebbe stato un bel giorno, o uno brutto. Forse l’ultimo. La fine è vicina, assicurava la Chiesa di Thurman. Forse un meteorite grande quanto la luna si stava avvicinando rapido alla terra. Forse i governi avevano tenuto nascosta la notizia. Forse i ribelli stavano già forzando le serrature di una vecchia postazione sotterranea ucraina di missili balistici. Forse in un laboratorio di ricerca da qualche parte una beuta si era incrinata, un guanto si era strappato o una maschera rotta.

O forse no. Reacher batté i piedi e si nascose il volto nella spalla. Aveva il naso freddo. Poi alzò di nuovo lo sguardo e vide due fari: luminosi, ben distanziati, abbastanza lontani da sembrare fermi. Un veicolo grosso, un camion. Forse un semiarticolato che puntava dritto verso di lui con la nuova alba alle spalle.

Quattro possibilità. Uno, sarebbe arrivato all’incrocio e avrebbe svoltato a destra per dirigersi a nord. Due, sarebbe arrivato all’incrocio e avrebbe svoltato a sinistra per dirigersi a sud. Tre, si sarebbe fermato al cartello di stop e avrebbe continuato verso ovest senza dargli un passaggio. Quarto, si sarebbe fermato, avrebbe attraversato la strada principale e si sarebbe fermato di nuovo per farlo salire a bordo.

Le possibilità di un lieto fine erano del venticinque per cento o anche meno, se era il mezzo di una società che seguiva la politica di non prendere passeggeri a bordo per evitare storie con le assicurazioni.

Reacher attese.

Quando il camion fu a quattrocento metri, vide che era un mezzo grosso cassonato, dipinto di bianco. Quando fu a trecento, vide che aveva un’unità refrigerante montata in alto. Trasporto di cibi freschi, il che, se non fosse stato per i cartelli di stop, avrebbe ridotto le probabilità di un esito felice: di solito gli autisti che consegnavano cibo non amavano fermarsi. Avevano orari da rispettare; fermare un grosso camion e riprendere velocità poteva penalizzarli di parecchi minuti. I cartelli di stop implicavano tuttavia che si doveva fermare comunque.

Reacher attese.

Vide l’uomo rallentare duecento metri prima dell’incrocio. Sentì il sibilo dei freni. Alzò la mano con il pollice teso. Ho bisogno di un passaggio. Poi alzò entrambe le braccia e le agitò. La segnalazione di aiuto. Ho proprio bisogno di un passaggio.

Il camion si fermò sulla striscia a est dell’incrocio. Non aveva messo alcuna freccia. Buon segno. Non c’era traffico da nord né da sud, perciò proseguì subito con il motore diesel che rombava e le marce che stridevano, puntando a ovest oltre la strada principale, dritto verso Reacher. Accelerò. L’autista abbassò lo sguardo e l’autocarro continuò ad avanzare.

Poi rallentò di nuovo.

I freni ad aria sibilarono, le balestre cigolarono e il camion si fermò con la cabina a dodici metri dall’incrocio e il parafango posteriore a un metro dalla corsia nord-sud. Reacher si girò, raggiunse l’automezzo e salì sul predellino. Il finestrino si aprì e l’autista lo guardò dall’alto.

Era un uomo basso, magro, incongruamente piccolo in quella cabina enorme. «Sta per piovere», disse.

«È l’ultimo dei miei problemi. Mi si è rotta la macchina», rispose Reacher.

«La mia prima fermata è Hope», replicò l’uomo al volante.

«Lei è quello del supermercato. Arriva da Topeka», osservò Reacher.

«Sono partito da lì alle quattro di stamattina. Vuole un passaggio? »

«Vado proprio a Hope.»

«Allora non perda tempo e salga.»



L’alba inseguì il camion per tutto il tragitto verso ovest e lo raggiunse nel giro di trenta minuti. Il mondo si illuminò di un color oro chiaro torbido, l’uomo del supermercato spense i fari, si appoggiò allo schienale e si rilassò. Guidava nello stesso modo in cui Thurman pilotava l’aereo, con piccoli movimenti precisi e le mani in basso. Reacher gli chiese se portasse spesso passeggeri e lui rispose che circa un mattino su cinque trovava qualcuno che chiedeva un passaggio. Reacher disse di aver conosciuto un paio di donne che avevano viaggiato con lui.

«Turiste», disse l’uomo.

«Qualcosa di più», replicò Reacher.

«Lei crede?»

«Lo so.»

«Quanto sa?»

«Tutto.»

«Come?»

«Uso il ragionamento.»

L’uomo annuì guardando il volante.

«Mogli e fidanzate», spiegò, «che cercano di restare vicino mentre i mariti e i fidanzati attraversano lo Stato.»

«È comprensibile», dichiarò Reacher. «Per loro sono momenti di tensione.»

«Allora sa chi sono i mariti e i fidanzati?»

«Sì», rispose Reacher. «Lo so.»

«E…?»

«E niente. Non sono affari miei.»

«Non lo dirà a nessuno?»

«C’è una poliziotta di nome Vaughan», rispose lui. «A lei dovrò dirlo. Ha diritto di sapere. È coinvolta in due modi.»

«La conosco. Non ne sarà felice.»

«Forse sì, forse no», commentò Reacher.

«Io non sono coinvolto», dichiarò l’uomo. «Sono solo un altro viaggiatore.»

«Sì che lo è», obiettò lui. «Lo siamo tutti.»

Poi controllò di nuovo il cellulare preso a prestito. Nessun segnale.



Niente nemmeno alla radio. L’uomo del supermercato premette un tasto che passò in rassegna l’intero spettro AM, dall’inizio alla fine, e non trovò niente. Solo scariche statiche. Un continente gigantesco perlopiù vuoto. Il camion continuò a macinare strada sobbalzando e dondolando sulla superficie irregolare. «Dove si procurano il cibo quelli di Despair?» chiese Reacher.

«Non lo so», rispose l’uomo. «E non mi interessa.»

«Ci è mai stato?»

«Una volta solo per dare un’occhiata, e mi è bastata.»

«Perché la gente ci resta?»

«Non lo so. Per inerzia, forse.»

«C’è lavoro da altre parti?»

«Molto. Potrebbero andare a ovest a Halfway: là c’è molto lavoro. O a Denver: quel posto è in espansione. Accidenti, potrebbero venire a est, a Topeka. Stiamo crescendo come matti: belle case, ottime scuole, buone paghe, tutto lì pronto per chi se lo prende. Questa è la terra delle opportunità.»

Reacher assentì e controllò di nuovo il cellulare. Nessun segnale.



Arrivarono a Hope poco prima delle dieci del mattino. La cittadina sembrava calma, tranquilla, immutata. In alto le nubi si stavano ammassando e faceva freddo. Reacher scese sulla First Street e rimase immobile per un istante. Il cellulare prendeva bene, ma non compose il numero. Andò a piedi verso la Fifth e svoltò a est. A cinquanta metri di distanza vide che sul marciapiede, davanti alla casa di Vaughan, non c’era nessuna macchina parcheggiata. Nessuna auto di servizio, nessuna Crown Vic nera. Niente di niente. Proseguì per guardare di lato e controllare il vialetto d’accesso.

Su quest’ultimo c’era il vecchio pick-up Chevy blu. Era parcheggiato di muso, molto vicino alla porta del garage. Aveva di nuovo i vetri ai finestrini, ancora etichettati con i codici a barre. Era tutto lucido e pulito, tranne nei punti in cui era unto di cera e di impronte digitali. Aveva un’aria molto nuova rispetto alla vernice vecchia, sbiadita. Sul cassone c’erano la scala a pioli, il piede di porco e la torcia. Reacher risalì il sentierino di pietre fino alla porta e suonò il campanello. Lo udì trillare in casa. Il quartiere era tranquillo e silenzioso. Rimase sul gradino per trenta lunghi secondi, poi la porta si aprì.

Vaughan lo guardò e disse: «Ciao».

Child Lee - 2008 - Niente da perdere: Un'avventura di Jack Reacher
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