28
Il bar era una fetta del pianterreno di un altro cubo di mattoni bigi, un locale lungo e stretto. Si estendeva per tutta la profondità del palazzo e aveva un breve corridoio con i bagni e le uscite antincendio in fondo. Il bar era a sinistra, a destra c’erano tavoli e sedie. Luci basse, niente musica, niente televisione, niente biliardo, niente videogame. Forse un terzo degli sgabelli e un quarto delle sedie erano occupati. Il dopolavoro, ma non esattamente un happy hour. Tutti i clienti erano uomini. Tutti erano stanchi, cupi, indossavano camicie da lavoro, sorseggiavano birra da bicchieri alti o bottiglie a collo lungo. Reacher non li aveva mai visti prima.
Entrò nel buio, in silenzio. Tutte le teste si girarono e tutti gli occhi si posarono su di lui obbedendo al radar universale da bar. È entrato uno sconosciuto. Reacher rimase immobile e lasciò che lo guardassero bene. Uno sconosciuto sicuramente, ma non uno con cui vorresti avere da ridire. Poi proseguì, si sedette su uno sgabello e posò i gomiti sul banco. Era a due posti di distanza dall’uomo più vicino a sinistra, e a uno da quello più vicino a destra. Gli sgabelli avevano una base di ferro, gambe di ferro e sedili sagomati di mogano che ruotavano su rozzi cuscinetti. Il banco stesso era di mogano graffiato e non si intonava con le pareti pannellate di pino. Sui muri c’erano specchi di semplice vetro riflettente, con sopra serigrafate le pubblicità di varie marche di birra. Avevano una cornice di legno rustico ed erano appannati da anni di fumi d’alcol e di sigaretta.
Il barista era un uomo pallido e pesante sulla quarantina. Non pareva intelligente né gradevole. Si trovava a tre metri di distanza, appoggiato con il grasso culo al cassetto della cassa. Non si mosse e non aveva intenzione di farlo, quello era chiaro. Reacher alzò le sopracciglia, lo chiamò con lo sguardo e non ebbe risposta.
Una città in mano a un’unica azienda.
Girò lo sgabello e si voltò verso la sala.
«Sentite, ragazzi», esordì. «Non sono un metalmeccanico e non sto cercando lavoro.»
Nessuna risposta.
«Non riuscireste a pagarmi abbastanza per convincermi a lavorare qui. Non m’interessa. Sono solo uno di passaggio in cerca di una birra.»
Nessuna risposta, solo sguardi torvi e ostili, con bicchieri e bottiglie immobili a metà tra i tavoli e le bocche.
«Al primo che mi parlerà pago il conto.»
Nessuna risposta.
«Per una settimana.»
Nessuna risposta.
Reacher si girò e si mise di nuovo di fronte al bar. Il barista non si era mosso. Lui lo guardò negli occhi e disse: «Mi venda una birra altrimenti comincerò a fare a pezzi questo posto».
Il barista si mosse, ma non verso il frigorifero o le spine, verso il telefono. Era un apparecchio antiquato vicino alla cassa. L’uomo lo prese e compose un numero lungo. Reacher attese. L’uomo ascoltò la serie di squilli, fece per dire qualcosa, ma si bloccò e riagganciò.
«Segreteria telefonica», disse.
«Non c’è nessuno», commentò Reacher. «Perciò siamo solo io e lei. Prendo una Budweiser in bottiglia.»
L’uomo lanciò un’occhiata alle spalle di Reacher, alla sala, per vedere se si stesse formando qualche coalizione per aiutarlo, ma non era così. Reacher stava già monitorando la situazione in uno specchio opaco di fronte a lui. Il barista aveva deciso di non fare l’eroe. Scrollò le spalle, cambiò atteggiamento e la sua espressione si addolcì un po’. Si chinò e prese una bottiglia fredda da sotto il banco. L’aprì e la posò su un tovagliolo. Dal collo uscì la schiuma che inzuppò la carta. Reacher estrasse un pezzo da dieci dalla tasca, lo piegò in modo che non si arricciasse e lo posò dritto davanti a lui.
«Sto cercando un uomo», disse.
«Che uomo?» chiese il barista.
«Un giovane, sulla ventina. Abbronzato, capelli corti, grosso quanto me.»
Qui non c’è nessuno del genere.»
«L’ho visto questo pomeriggio in città. Usciva dall’affittacamere. »
«Allora chieda lì.»
«Già fatto.»
«Io non posso aiutarla.»
«Probabilmente sì. Quell’uomo aveva l’aria di un atleta del college. Di tanto in tanto gli atleti di college bevono birra. Probabilmente è stato qui un paio di volte.»
«No.»
«Che mi dice di un altro uomo? Stessa età, molto più piccolo. Asciutto, forse un metro e settantatré, sessantatré chili di peso.»
«Non l’ho visto.»
«Ne è certo?»
«Sì.»
«Ha mai lavorato all’impianto?»
«Per un paio d’anni, molto tempo fa.»
«E poi?»
«Mi ha trasferito qui.»
«Chi?»
«Il signor Thurman. Possiede l’impianto.»
«E anche questo bar?»
«Possiede tutto.»
«L’ha trasferita? Dev’essere un manager pratico.»
«Ha pensato che avrei lavorato meglio qui che là.»
«Ed è così?»
«Non sta a me dirlo.»
Reacher bevve una lunga sorsata dalla bottiglia e chiese: «Il signor Thurman la paga bene?»
«Non mi lamento.»
«È l’aereo del signor Thurman che si alza in volo ogni sera?»
«Nessun altro qui possiede un aereo.»
«Dove va?»
«Io non chiedo.»
«Qualche voce?»
«No.»
«È certo di non aver mai visto nessun giovane in giro?»
«Ne sono certo.»
«Se le dessi un centone?»
L’uomo esitò per un istante e assunse un’aria bramosa, come se un centone rappresentasse una gradita novità nella sua vita, ma alla fine si limitò ad alzare di nuovo le spalle e a rispondere: «Ne sarei sempre certo».
Reacher bevve un altro po’ di birra. Si stava scaldando e aveva un sapore metallico, saponoso. Il barista rimase lì vicino. Reacher guardò gli specchi, controllò i riflessi dei riflessi. Nella sala nessuno si muoveva. «Che succede ai morti qui?» domandò.
«Che intende?»
«Avete pompe funebri in città?»
Il barista scosse la testa. «Sessantacinque chilometri a ovest. Lì ci sono un obitorio, un’impresa di pompe funebri e un cimitero. A Despair non c’è terra consacrata.»
«L’uomo più piccolo è morto», disse Reacher.
«Quale uomo più piccolo?»
«Quello di cui le chiedevo.»
«Non ho visto uomini piccoli, né vivi né morti.»
Reacher tacque di nuovo e il barista osservò: «Quindi è soltanto di passaggio?» Un pretesto inutile, fine a se stesso, giusto per far conversazione, che per Reacher fu la conferma di quanto già sapeva. Continua pure, pensò. Lanciò un’occhiata all’uscita antincendio sul retro e controllò la porta d’ingresso negli specchi. «Sì, sono soltanto di passaggio», rispose.
«Qui non c’è molto da vedere.»
«In realtà penso sia un posto piuttosto interessante.»
«Davvero?»
«Chi recluta i poliziotti qui?»
«Il sindaco.»
«Chi è il sindaco?»
«Il signor Thurman.»
«Ma guarda.»
«È la sua città.»
«Mi piacerebbe incontrarlo», osservò Reacher.
«È un uomo molto riservato», replicò il barista.
«Facevo solo un’affermazione, non chiedevo un appuntamento. »
Sei minuti, pensò Reacher. Me lo sto lavorando grazie alla birra da sei minuti. Forse me ne restano dieci. «Conosce il giudice? » chiese.
«Lui non viene qui.»
«Non ho chiesto dove vada.»
«È l’avvocato del signor Thurman, su all’impianto.»
«Credevo fosse eletto.»
«Lo è. Abbiamo votato tutti per lui.»
«Quanti candidati c’erano in lista?»
«Non aveva avversari.»
«Questo giudice ha un nome?» disse Reacher.
«Si chiama giudice Gardner.»
«Il giudice Gardner vive in città?»
«Sì. Se lavori per il signor Thurman, devi vivere in città.»
«Conosce l’indirizzo del giudice Gardner?»
«La grande casa sulla Nickel.»
«Sulla Nickel?»
«Tutte le strade residenziali hanno il nome di un metallo.»
Reacher assentì. Non era molto diverso dal principio secondo cui le strade delle basi dell’esercito recavano il nome di un generale o di un vincitore di una medaglia al merito. Tacque e attese che il barista riempisse il silenzio come doveva fare, come gli era stato ordinato di fare. «Circa un centinaio d’anni fa negli Stati Uniti c’erano solo otto chilometri di strade lastricate», aggiunse l’uomo.
Reacher non disse nulla.
«Al di là dei centri cittadini, è ovvio, che a ogni modo erano acciottolati, non propriamente lastricati. Non avevano l’asfalto come ora. Poi hanno costruito le strade di contea, poi ancora quelle statali e le interstatali. Le cittadine sono state tagliate via. Una volta eravamo sulla strada principale per Denver, adesso non è più così. Adesso la gente usa la I-70.»
«Perciò la chiusura del motel.»
«Esatto.»
«E la sensazione generale di isolamento.»
«Suppongo di sì.»
«So che quei due giovani sono stati qui. È solo questione di tempo prima che scopra chi fossero e perché siano venuti», disse Reacher.
«A questo proposito non posso aiutarla.»
Uno di loro è morto.»
«Me l’ha già detto ma io, le ripeto, non ne so niente.»
Undici minuti, pensò Reacher. Ne restano cinque. «Questo è l’unico bar in città?»
«Uno ci basta», rispose l’uomo.
«Cinema?»
«No.»
«Allora cosa fa la gente per svagarsi?»
«Guarda la televisione satellitare.»
«Ho sentito che c’è un pronto soccorso all’impianto.»
«Esatto.»
«Con un mezzo.»
«Una vecchia ambulanza. È un grosso impianto. Copre un’area enorme.»
«Ci sono molti incidenti?»
«È un’attività industriale. È inevitabile che capiti qualcosa.»
«L’azienda paga l’invalidità?»
«Il signor Thurman si prende cura delle persone che si fanno male sul lavoro.»
Reacher tacque sorseggiando la birra. Guardò gli altri clienti che bevevano le loro, direttamente e negli specchi. Tre minuti, pensò.
A meno che non arrivino prima.
Cosa che accadde.
Reacher guardò a destra e vide due ausiliari entrare dalla porta antincendio. Lanciò un’occhiata a uno specchio e vide gli altri due entrare dall’ingresso.