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Il Tahoe bianco passò nel collo di bottiglia a trenta chilometri all’ora. Reacher ne udì le gomme sulla vegetazione. Erano larghe e morbide, si torcevano sulla superficie sconnessa, schiacciavano i sassolini, li scagliavano a destra e a sinistra. Mentre curvava, udì il sibilo della pompa del servosterzo e il vibrare fluido del grosso V-8. A una curva stretta, gli passò abbastanza vicino da sentire l’odore del fumo di scarico.
Restò immobile.
Il fuoristrada proseguì. Non si fermò e non rallentò nemmeno. Il guidatore era ritto sul sedile di sinistra. Reacher suppose che, come gran parte dei guidatori, seguisse con lo sguardo la curva che intendeva fare, la stava calcolando in anticipo. Guardava davanti a sé e a sinistra, non di lato a destra.
Cattiva tecnica per un addetto alla sorveglianza.
Reacher rimase immobile finché il Tahoe non fu scomparso, quindi si alzò, si scosse la terra di dosso, si avviò verso ovest e, giunto alla roccia bassa, vi si sedette dietro.
Il secondo comprensorio era cintato da un muro di sassi, non di
metallo. Era residenziale. C’erano piante ornamentali, tra cui
alcune file di alberi disposte per nascondere totalmente l’attività
industriale. In lontananza si vedeva una casa enorme di legno, tipo
chalet, più adatta a Vail che a Despair. C’erano vari edifici
annessi, compreso un gigantesco capannone che serviva probabilmente
da hangar per aerei perché il terreno dietro il lato più lontano
del muro era un’ampia striscia livellata di terra che poteva essere
soltanto una pista. C’erano tre maniche a vento fissate su pali,
due alle estremità e una al centro.
Reacher proseguì. Si tenne bene alla larga dal collo di bottiglia di cinquanta metri. Era troppo facile essere visti. Troppo facile essere investiti. Girò invece di nuovo a ovest, intenzionato ad aggirare anche il comprensorio residenziale, come se entrambi i complessi recintati fossero un unico grosso ostacolo.
A mezzogiorno aveva trovato un nascondiglio molto a sud, stava
osservando l’impianto di riciclaggio da dietro. Il comprensorio
residenziale era più vicino, alla sua sinistra. Ben più in là, a
nord-ovest, c’era una piccola macchia grigia. Un edificio basso o
un gruppo di edifici, forse a otto, nove chilometri di distanza.
Era indistinto, vicino alla strada. Forse una stazione di servizio,
un’area di sosta per camion o un motel, probabilmente oltre il
confine di Despair. Reacher socchiuse gli occhi e lo scrutò, ma non
riuscì a distinguere alcun particolare. Tornò alla scena più
vicina. Il lavoro continuava all’interno dell’impianto. Nella casa
non accadeva granché. Vide i Tahoe che giravano in cerchio e
osservò i camion sulla strada lontana. Era un flusso continuo:
perlopiù pianali ma c’erano alcuni portacontainer e cassonati.
Andavano e venivano e il cielo era tinto di scuro dal gasolio, che
formava una lunga scia fino all’orizzonte. L’impianto vomitava
fumo, fiamme e scintille. Il rumore era attutito dalla lontananza,
ma da vicino doveva essere terribile. Il sole era alto e la
giornata si era fatta calda.
Reacher si abbassò e continuò a guardare e ad ascoltare finché si annoiò. Allora si incamminò verso est per dare un’occhiata alla parte più distante della cittadina.
Era giorno pieno, pertanto si mosse cauto e lento. Tra l’impianto e
la cittadina c’era un lungo tratto aperto di circa cinque
chilometri. Reacher lo coprì in linea retta, tenendosi sempre in
mezzo alla vegetazione. A metà pomeriggio era alla stessa altezza a
cui si era trovato alle sei del mattino, ma esattamente a sud del
centro, non a nord, e stava osservando il retro delle case, non la
facciata degli edifici commerciali.
Le case erano ben fatte, tutte uguali, costruite in economia ma con criterio. Erano abitazioni tipo ranch a un piano con il rivestimento di assicelle e il tetto di cemento. Alcune erano dipinte, altre di legno trattato, alcune avevano il garage, altre no. Alcune avevano uno steccato attorno al giardino, altre un giardino aperto. In genere erano dotate di antenne satellitari, tutte rivolte in alto e a sud-ovest come un reggimento di volti in attesa. C’era qualcuno qua e là: perlopiù donne, qualche bambino, qualche uomo. Salivano o scendevano dalle macchine, lavoravano in giardino, si muovevano lenti. Il personale avventizio, suppose Reacher, a cui quel giorno era andata male. Si spostò lungo un arco di cento metri, a sinistra e a destra, a est e a ovest cambiando prospettiva, ma quello che vide non cambiò molto: case di un piccolo, strano sobborgo di una cittadina ma a chilometri da qualsiasi altra cosa, con il vuoto tutt’intorno. Il cielo era alto, immenso. Giù a ovest le Rockies sembravano lontanissime. All’improvviso Reacher capì che Despair era stata costruita da persone che avevano rinunciato. Avevano superato il rilievo, visto l’orizzonte distante e mollato tutto, già all’epoca. Avevano montato il campo ed erano rimaste dov’erano. I loro discendenti vivevano ancora nella cittadina e lavoravano no, a seconda dei capricci del titolare dell’impianto.
Reacher mangiò l’ultima barretta energetica e finì l’ultima acqua.
Con il tallone schiacciò un po’ le piante e vi nascose gli
involucri, le bottiglie vuote e il sacco dei rifiuti, poi,
spostandosi rapido da un masso all’altro si avvicinò di più alle
case. Il rumore basso proveniente dall’impianto stava diventando
sempre più flebile, tanto che pensò fosse quasi l’ora di chiusura.
Il sole era basso alla sua sinistra. Gli ultimi raggi lambivano le
cime delle montagne distanti. La temperatura stava calando.
Quasi dodici ore dopo, le prime auto e i primi pick-up iniziavano a rientrare alla spicciolata. Una lunga giornata. Si stavano dirigendo a est, verso il buio, perciò avevano i fari accesi. I loro fasci illuminavano le strade laterali in direzione sud alzandosi e abbassandosi tra i sobbalzi, puntando verso Reacher, quindi giravano di nuovo, vuoi a destra vuoi a sinistra, si sparpagliavano nei vialetti, nei garage, nelle piazzole e in qualche tratto di terreno macchiato d’olio. Uno dopo l’altro si fermarono e i fari si spensero. I motori si arrestarono. Le portiere si aprirono cigolando e si richiusero sbattendo. Nelle case le luci erano accese. Al di là delle finestre si scorgeva il bagliore azzurro dei televisori. Il cielo si stava scurendo.
Reacher si avvicinò ancora. Vide gli uomini portare i cestini vuoti del pranzo in cucina o restare accanto alle macchine a stirarsi, a sfregarsi gli occhi con il dorso della mano. Vide ragazzini speranzosi muniti di guantoni e palle, desiderosi di fare un’ultima serie di prese. Vide alcuni padri acconsentire, altri rifiutare. Vide ragazzine correre fuori con tesori che richiedevano urgente attenzione.
Vide l’omone che gli aveva sbarrato la strada davanti al tavolo del ristorante, quello che gli aveva tenuto la portiera dell’auto della polizia come un portiere quella di un taxi. L’ausiliario anziano. Uscì dal vecchio pick-up che Reacher aveva notato davanti al ristorante e si tenne lo stomaco con entrambe le mani. Passò accanto alla porta della cucina ed entrò incespicando in giardino. Non c’era steccato. L’uomo continuò a camminare, superò un’area coltivata e si spinse nella vegetazione bassa.
Reacher si avvicinò di più.
L’uomo si fermò con i piedi ben piantati, quindi si piegò e vomitò per terra. Rimase piegato per una ventina di secondi, dopodiché si raddrizzò, scosse la testa e sputò.
Reacher si avvicinò ancora. Arrivò a una ventina di metri; a quel punto l’uomo si chinò di nuovo e rigettò per la seconda volta. Reacher lo sentì ansimare non di dolore né di sorpresa, ma infastidito e rassegnato.
«Stai bene?» gridò Reacher dal buio.
L’uomo si raddrizzò.
«Chi è là?» urlò.
«Io», rispose lui.
«Io chi?»
Reacher si avvicinò ulteriormente ed entrò in una striscia di luce che proveniva dalla finestra della cucina di un vicino.
«Tu», esclamò l’uomo.
«Io», concordò Reacher.
«Ti avevamo buttato fuori.»
«Vi è andata male.»
«Non dovresti essere qui.»
«Potremmo approfondire il discorso, se vuoi. Qui, ora.»
L’uomo scosse la testa. «Sto male. Non è giusto.»
«Non sarebbe giusto se non stessi male.»
L’uomo scrollò le spalle.
«Come vuoi tu», disse. «Adesso vado dentro.»
«Come sta il tuo amico? La mascella?
«Lo hai conciato per bene.»
«I denti sono a posto?»
«Perché t’interessa?»
«Calibrare è un’arte», rispose Reacher. «Fai quello che serve, niente di più, niente di meno.»
«Tanto per cominciare aveva dei denti schifosi, come tutti noi.»
«Che brutta cosa», commentò lui.
«Sto male», ripeté l’uomo. «Vado dentro. Io non ti ho visto, d’accordo?»
«Cattiva alimentazione?»
L’uomo tacque, poi annuì.
«Dev’essere così», concluse. «Cattiva alimentazione.»
Si voltò e si diresse lentamente verso la casa incespicando, tenendosi la cintura con una mano come se i pantaloni gli fossero troppo larghi. Reacher lo guardò allontanarsi, quindi si girò e arretrò nell’ombra.
Si spostò di cinquanta metri a sud e di cinquanta a est fino al
punto in cui si trovava prima, nel caso l’uomo malato avesse
cambiato idea e deciso in fondo di aver visto qualcosa. Voleva un
certo spazio qualora la polizia avesse iniziato a ispezionare il
giardino posteriore. Voleva iniziare la caccia al di fuori della
portata massima del fascio di una torcia.
La polizia tuttavia non si fece vedere. L’uomo evidentemente non l’aveva chiamata. Reacher attese quasi mezz’ora. Lontano, a ovest, udì di nuovo il motore di un aereo sottoposto a una forte sollecitazione, in fase di salita. Il piccolo velivolo, che decollava per l’ennesima volta. Erano le sette di sera. Poi il rumore svanì, il cielo divenne buio e le case vennero chiuse. Arrivarono le nubi che coprirono la luna e le stelle. Al di là del bagliore delle finestre con le tendine tirate, il mondo divenne nero come la pece. La temperatura scese a precipizio. Era notte in un luogo aperto.
Una lunga giornata.
Reacher si alzò, si allentò il colletto della camicia e partì verso est, di nuovo verso Hope. Tenne le case illuminate dietro la spalla sinistra e quando queste svanirono girò a sinistra nel buio, costeggiando l’area in cui sapeva si trovavano l’emporio di tessuti, la stazione di servizio, il motel abbandonato e il terreno libero. Poi girò di nuovo a sinistra e cercò di distinguere la linea della strada. Sapeva che doveva essere lì, ma non riusciva a vederla. Si mosse nella direzione in cui pensava fosse, avvicinandosi il più possibile. Alla fine scorse una striscia nera nel buio: indistinta, ma diversa dalla distesa nera della vegetazione. Ne memorizzò la direzione, si allontanò di una decina di metri di lato per sicurezza e infine avanzò. Era difficile camminare nell’oscurità. Si intoppava nei cespugli e teneva le mani tese davanti a sé per evitare le rocce piatte. Due volte inciampò in sassi grandi quanto un pallone da football e cadde. Due volte si alzò, si scrollò la terra di dosso e procedette con passo incerto.
Ostinato, aveva detto Vaughan.
Stupido, pensò Reacher.
La terza volta che incespicò non fu in un sasso. Fu in qualcosa di ben più morbido e cedevole.