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Reacher puntò esattamente a nord, dritto verso il centro della città. Si infilò tra le abitazioni e laddove possibile si tenne lontano dalle strade. Non vide nessuno a piedi. Una volta scorse un veicolo in movimento due strade più in là, una vecchia berlina con gli abbaglianti. Forse un sorvegliante impegnato in un giro di ispezione. Si riparò dietro uno steccato di legno e attese finché la macchina si allontanò, quindi attraversò un tratto di vegetazione allo scoperto e si premette contro il primo degli isolati di mattoni del centro. Restò con la schiena contro il muro e pianificò le mosse successive. La geografia di Despair gli era abbastanza familiare. Decise di restare lontano dalla strada con il ristorante, molto probabilmente ancora aperto. Erano quasi le nove di sera, forse era tardi rispetto al consueto orario di cena, ma con un’azione di massa in corso per tutta la notte, sarebbe con molta probabilità rimasto aperto per dare ristoro alle truppe. Forse l’auto in movimento era di un volontario che portava il caffè.
Reacher si tenne nell’ombra, sfruttò una traversa stretta e passò davanti alla chiesa-negozio. Era vuota. Forse Thurman ci era venuto prima a pregare per avere successo, nel qual caso sarebbe rimasto tristemente deluso. Reacher proseguì in silenzio, girò di nuovo e andò verso la stazione di polizia. Le strade erano buie e deserte. Tutta la popolazione attiva si trovava lungo il perimetro, occupata a guardare il buio, ignara di quanto stesse accadendo alle sue spalle.
La strada con la stazione di polizia aveva un lampione acceso che creava una debole chiazza di luce gialla. La stazione era buia e silenziosa. La porta esterna era chiusa a chiave. Legno vecchio, una serratura di sicurezza nuova a cinque leve montata da mani inesperte. Reacher estrasse le chiavi prese all’ausiliario al bar. Guardò la serratura, guardò le chiavi, ne scelse una lunga di ottone e la provò. Funzionò. La serratura scattò ma con molta fatica. La chiave era mal duplicata o la linguetta della serratura batteva contro la lamina o entrambe le cose, tuttavia la porta si aprì. Si spalancò verso l’interno da cui uscì un odore di detersivo per pavimenti. Reacher entrò, chiuse la porta alle sue spalle e si incamminò nel buio come aveva fatto prima, fino al banco d’ingresso. Come l’hotel della cittadina, il Dipartimento di polizia di Despair era ancora all’età della carta e della penna. I verbali degli arresti erano conservati in un grosso registro nero dai bordi dipinti d’oro. Reacher lo portò accanto a una finestra e lo inclinò in modo da usufruire della poca luce che vi entrava. Lo aprì, lo sfogliò fino a trovare l’annotazione che lo riguardava, datata tre giorni prima e registrata a metà pomeriggio: Reacher, J., vagabondo di sesso maschile. L’annotazione era stata fatta molto prima dell’udienza in tribunale. Reacher sorrise. Alla faccia della presunzione d’innocenza, pensò.
L’annotazione immediatamente precedente risaliva a tre giorni prima: Anderson, L., vagabondo di sesso femminile.
Sfogliò il registro all’indietro in cerca del marito di Lucy Anderson. Non si aspettava di trovarlo e non lo trovò. Il marito di Lucy Anderson era stato aiutato, non ostacolato. Poi cercò Ramirez. Nessuna traccia. Non compariva da nessuna parte nel libro. Mai arrestato. Perciò quel ragazzo non era sfuggito alla custodia, non era mai stato preso. Sempre che fosse stato lì. Sempre che l’uomo morto non fosse qualcun altro.
Continuò a sfogliare il registro all’indietro, procedendo a caso, di tre mesi in tre mesi. Vide sei nomi: Bridge, Churchill, White, King, Whitehouse, Andrews, cinque uomini, una donna, tutti vagabondi, circa uno ogni due settimane.
Lo sfogliò in avanti, oltre il suo nome, in cerca di Maria. Non c’era. Dopo il suo c’era soltanto un altro nome, scritto da una grafia diversa perché il poliziotto addetto al banco era quello che guidava la seconda Crown Vic di Despair e al momento era in convalescenza. La nuova annotazione era stata fatta solo sette ore prima e diceva: Rogers, G., vagabondo di sesso maschile.
Reacher chiuse il registro, lo rimise sul banco e andò alla scala che conduceva nel seminterrato. Scese tastoni e aprì la porta del blocco delle celle. Dentro c’era molta luce. Tutte le plafoniere erano accese, ma le celle erano vuote.

Un cerchio con un diametro di un chilometro e mezzo avrebbe a stento racchiuso la cittadina. La tappa successiva di Reacher sarebbe stata fuori città, il che significava passare di nuovo attraverso il perimetro, stavolta nell’altra direzione. Facile all’inizio, più difficile dopo. Facile avvicinarsi furtivo alla linea, relativamente facile penetrarla, difficile allontanarsi con un migliaio di occhi puntati sulla schiena. Non voleva essere l’unica cosa in movimento davanti a un pubblico statico. Meglio che la linea si muovesse e che si frangesse attorno a lui come un’ombra su uno scoglio.
Cercò nel mazzo di chiavi.
Trovò quella che voleva.
Le rimise in tasca, tornò al banco dell’ingresso e prese ad aprire cassetti. Trovò quello che voleva nel terzo. Era pieno di un’accozzaglia di roba: elastici, graffette, penne a sfera secche, pezzetti di carta con appunti scarabocchiati, un righello di plastica.
Un posacenere di latta, un pacchetto pieno per un quarto di sigarette Camel e tre confezioni di fiammiferi.
Sgombrò uno spazio sul pavimento sotto il banco d’ingresso, piazzò il registro degli arresti nel centro, in piedi sui bordi, aperto a novanta gradi con le pagine a ventaglio. Sopra e attorno vi ammucchiò ogni pezzo di carta che trovò. Appallottolò memo, manifesti, vecchi giornali e costruì una piramide. Vi mise dentro due confezioni di fiammiferi con il cartoncino piegato all’indietro e i fiammiferi in avanti, ad angolazioni diverse.
Poi si accese una sigaretta con un fiammifero della terza. Inalò, grato. In un lontano passato le Camel erano state le sue preferite. Gli piaceva il tabacco turco. Fece un paio di tiri, piegò la sigaretta a T all’interno della confezione di fiammiferi e la fissò con una graffetta. Infine nascose il tutto nella piramide di carta e si allontanò.
Lasciò la porta d’ingresso semiaperta per creare corrente.
Andò a sud, verso la casa dell’ausiliario più grosso. Sapeva dove
fosse. L’aveva vista da dietro la prima notte, quando l’uomo era
tornato dal lavoro e aveva vomitato in cortile. Era una camminata
di cinque minuti che gliene richiese dieci, perché doveva essere
cauto. La casa era un’altra vecchia abitazione cadente stile ranch:
intonaco scrostato, tegole del tetto incurvate, piante secche
attorno al perimetro. Niente giardino, solo terra battuta con un
sentiero largo una trentina di centimetri che conduceva alla porta
e due solchi identici che conducevano a uno spiazzo di posteggio
accanto alla cucina.
Il vecchio pick-up era proprio lì.
La portiera del guidatore non era chiusa a chiave. Reacher si sedette al volante. Il sedile era logoro e sfondato. I finestrini sporchi e la tappezzeria puzzava di sudore, di grasso e di olio. Reacher prese il mazzo di chiavi e trovò quella dell’auto: impugnatura di plastica, forma caratteristica. La inserì e la girò di due tacche. Il volante si sbloccò e le luci nel cruscotto si accesero. La girò nell’altro senso, scavalcò i sedili e si stese sul retro del furgone.
I cittadini impiegarono più di mezz’ora a rendersi conto che la
stazione di polizia era in fiamme e a quel punto bruciava già bene.
Dalla sua posizione bassa, nel furgone, Reacher vide fumo,
scintille, una luce arancione e un primo tentativo di propagazione
delle fiamme, ma nessuno che avesse una minima reazione. Alla fine
però qualcuno lungo il perimetro doveva aver sentito qualcosa,
oppure si era annoiato, aveva camminato in cerchio nella sabbia e
si era fermato abbastanza da studiare l’orizzonte alle sue
spalle.
Per un minuto ci furono incertezza e grida confuse.
Poi si scatenò il pandemonio.
Ogni disciplina svanì all’istante. Il perimetro collassò verso l’interno come un pallone forato. Reacher rimase immobile e la gente gli si riversò tutt’intorno, all’inizio erano pochi ed esitanti, poi diventarono molti e veloci. Correvano isolati o in gruppo, urlavano, gridavano affascinati e dubbiosi, non guardando che il bagliore intenso davanti a loro. Reacher allungò il collo e li vide sopraggiungere da tutte le direzioni. Le strade si riempirono d’un tratto di decine di persone, poi di centinaia. Il flusso andava solo in un senso. Il labirinto del centro le inghiottì tutte. Reacher si mise a sedere, si voltò e guardò le ultime schiene scomparire dietro gli angoli e tra gli edifici.
Neonominati, neoschierati, insicuri di sé, inesperti.
Sorrise.
Come falene davanti a una fiamma, pensò. Letteralmente.
Scavalcò gli schienali dei sedili e accese il motore. Si allontanò lentamente a fari spenti, andando un po’ a sud-ovest, attraverso la vegetazione deserta. Vide alcuni fari sulla strada, molto a destra. Quattro veicoli in movimento, quasi sicuramente i Tahoe della sorveglianza che stavano arrivando dall’impianto, più l’ambulanza, più forse qualche mezzo antincendio che non aveva visto. Proseguì tracciando un’ampia curva a ovest nella terra desolata, sobbalzando sul terreno accidentato e stridendo quando incontrava qualche sasso. Il volante gli dava strattoni. Sbirciò davanti a sé dal parabrezza sporco, sterzando a sinistra e a destra per evitare i grossi ostacoli. In media faceva meno di trenta all’ora. Era più veloce che correre, ma anche così impiegò una decina di minuti prima di vedere il bagliore bianco del muro dell’impianto nel buio.