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Vaughan era una poliziotta di una cittadina tranquilla, ma sapeva effettuare perfettamente il fermo di un’auto. Avviò la macchina quando il camion era a quattrocento metri di distanza e inserì la marcia. Aspettò che passasse, dalla strada vecchia si immise su quella nuova e si accodò a esso tenendosi a un centinaio di metri perché la vedesse chiaramente negli specchietti. Reacher aprì il finestrino e attaccò il lampeggiante sul tetto. Vaughan girò un interruttore e la luce cominciò a lampeggiare. Girò un altro interruttore e la sirena emise due suoni.
Per dieci lunghi secondi non accadde nulla.
Vaughan sorrise.
«Ecco che ci siamo», esclamò. «Alla fase: ’Chi, io?’»
Il camion iniziò a rallentare. L’autista alzò il piede dal pedale e la cabina si abbassò di qualche grado quando peso e velocità si spostarono sull’asse anteriore. Vaughan si avvicinò a cinquanta metri e si portò a sinistra. Il camion mise la freccia. Proseguì, poi frenò violentemente e si diresse verso un punto in cui il bordo era largo. Vaughan lo superò, rientrò e i due veicoli si fermarono l’uno dietro l’altro in mezzo al nulla, con sessantacinque chilometri di strada deserta dietro e più ancora davanti.
«Perquisirlo sarebbe illegale», disse.
«Lo so. Di’ solo a quel tipo di restare fermo per cinque minuti. Gli faremo un cenno quando avremo finito.»
«Finito cosa?»
«Scatteremo una fotografia.»
Vaughan scese e si avvicinò al finestrino del conducente con andatura da poliziotto. Parlò per un istante e tornò indietro.
«Mettiti sul bordo opposto, perpendicolarmente», le disse Reacher. «Per la foto dobbiamo inquadrare l’intero camion di fianco.»
Vaughan guardò davanti e dietro e invertì il senso di marcia sull’asfalto tracciando un’ampia curva per fermarsi sul bordo, con il muso dell’auto puntato dritto contro la fiancata del camion. Era un mezzo semplice, essenziale: cofano tozzo, cabina da cui partivano due rotaie gemelle che reggevano il cassone fissato con bulloni. Questo aveva un rivestimento in alluminio per garantire robustezza e rigidità. Vernice marrone chiaro senza scritte.
«La macchina fotografica», disse Reacher.
Vaughan premette alcuni tasti del portatile e lo schermo si illuminò mostrando un’immagine dell’autocarro.
«Ci serve l’immagine termica.»
«Non so se funziona di giorno», rispose lei. Premette altri tasti e lo schermo divenne di un bianco accecante. Niente particolari né definizione. Tutto era caldo.
«Riduci la sensibilità», suggerì Reacher.
Lei maneggiò alcuni tasti e lo schermo divenne più scuro. Davanti a loro, oltre il parabrezza, la scena reale restò invariata, ma l’immagine sul portatile sbiadì fino a svanire per ricomparire di un verde spettrale. Vaughan armeggiò finché la superficie stradale e la vegetazione bassa di sfondo non apparvero come elementi grigi di base, scarsamente visibili. Il camion brillava di una miriade di tonalità di verde. Il cofano era piuttosto caldo con un centro luminoso là dove si trovava il motore. Il tubo di scappamento era una linea nitida con i gas verdi che uscivano luccicando a sbuffi. Il differenziale posteriore era bollente, le gomme calde come la cabina, un vago blocco verde con una piccola zona molto luminosa là dove l’autista sedeva in attesa.
Il cassone era freddo in fondo e rimaneva tale fino a tre quarti, quando diventava più caldo. Una sezione lunga un metro e mezzo esattamente dietro la cabina riluceva in modo intenso. «Riducila ancora un po’», disse Reacher.
Vaughan premette un tasto finché le gomme divennero grigie e si confusero con la strada. Continuò finché i grigi si tramutarono in nero e l’immagine si semplificò mostrando soltanto cinque elementi separati di due tonalità di verde. Il motore, bollente. I tubi di scarico, bollenti. Il differenziale, caldo. La cabina, calda.
Il primo metro e mezzo del cassone, caldo.
«Mi ricorda il muro attorno all’impianto di riciclaggio. Più caldo a un’estremità che all’altra», osservò lei.
Reacher sporse il braccio dal finestrino, fece cenno all’autista di proseguire e tolse il lampeggiante dal tetto. Il camion sobbalzò quando innestò la marcia, attraversò la banchina corrugata, si immise nella corsia e si allontanò lento e pesante in prima, in seconda, in terza. Lo schermo del computer mostrò un pennacchio vivido di fumo di scarico caldo, che si gonfiò e turbinò formando una nube verde lime prima di raffreddarsi, dissolversi e svanire nell’oscurità.
«Che cosa abbiamo appena visto?» domandò Vaughan.
«Un camion diretto in Canada.»
«E basta?»
«Quello che hai visto tu, l’ho visto anch’io.»
«Fa parte della tua ipotesi?»
«È più o meno la mia ipotesi.»
«Me ne vuoi parlare?»
«Dopo.»
«Dopo cosa?»
«Quando sarà al sicuro, al di là del confine.»
«Perché allora?»
«Perché non voglio metterti in una posizione difficile.»
«Per quale motivo?»
«Perché sei una poliziotta.»
«Ora sei tu che vuoi tenere me lontano dai guai?»
«Cerco sempre di tenere tutti lontano dai guai.»
Girarono e tornarono indietro fino alla biforcazione della vecchia
strada. Lasciarono con un sobbalzo l’asfalto nuovo e stavolta
continuarono passando tra le due fattorie in rovina, fino al comune
di Halfway. Vi arrivarono alle dieci del mattino. La prima sosta fu
in un caffè per una colazione tardiva. La seconda a un Holiday Inn,
dove presero una stanza beige chiaro, si fecero una doccia, fecero
l’amore e andarono a dormire. Si svegliarono alle quattro e fecero
le stesse cose alla rovescia, come un film proiettato al contrario:
fecero l’amore, la doccia, lasciarono l’albergo e tornarono al
caffè per una cena anticipata. Alle cinque e trenta erano di nuovo
in marcia diretti a est, a Despair.
Guidò Vaughan. Il sole al tramonto era alle sue spalle, brillava
nello specchietto e le disegnava un rettangolo luminoso sul volto.
La strada dei camion era abbastanza trafficata in entrambe le
direzioni. Davanti a loro l’impianto di riciclaggio stava ancora
ingurgitando e sputando fuori metallo. Reacher studiò le targhe:
vide rappresentanze di tutti gli Stati vicini del Colorado, più un
portacontainer del New Jersey in uscita, presumibilmente vuoto, e
un semiarticolato con pianale dell’Idaho in entrata, cigolante per
il carico di lamiere d’acciaio arrugginite.
Le targhe, pensò.
«Sono stato nel Golfo la prima volta. Te l’ho detto, vero?»
Lei assentì. «Hai portato la stessa mimetica per otto mesi, tutti i giorni, nel caldo. Un quadretto delizioso. Io mi sento già abbastanza male all’idea di indossare i vestiti del giorno prima.»
«Abbiamo passato la maggior parte del tempo in Arabia Saudita e Kuwait, ovviamente, ma abbiamo fatto alcune missioni segrete in Iraq.»
«E…?»
«Ricordo che le loro targhe sono color argento. Quelle che abbiamo visto ieri notte nel container erano bianco sporco.»
«Forse da allora le hanno cambiate.»
«Forse. Ma forse no. Forse avevano altre cose di cui preoccuparsi. »
«Secondo te non erano auto irachene?»
«L’Iran ha targhe color bianco sporco.»
«Che vuoi dire allora? Stiamo combattendo in Iran e nessuno lo sa? Non è possibile.»
«Abbiamo combattuto in Cambogia e nessuno lo sapeva. Credo però sia più probabile che ogni giorno gruppi di iraniani vadano a ovest, in Iraq, per unirsi alla festa. Un po’ come i pendolari che vanno al lavoro. Forse li blocchiamo alle frontiere con l’artiglieria.»
«Sarebbe molto pericoloso.»
«Per i passeggeri di certo.»
«Per il mondo», osservò Vaughan. «Non abbiamo bisogno di altri guai.»
Superarono la base della Polizia militare poco prima delle sei e
quindici. Sei Humvee parcheggiati, puliti, silenziosi, tranquilli,
quattro uomini nella guardiola. Tutti in ordine e riforniti di
recente.
A che scopo?
Rallentarono per gli ultimi otto chilometri e cercarono di calcolare il momento giusto. Il traffico si era ridotto al nulla. L’impianto era chiuso. Le luci erano spente. Presumibilmente gli ultimi ritardatari si stavano dirigendo verso casa, a est. Presumibilmente i Tahoe erano fermi, posteggiati per la notte. Vaughan svoltò a sinistra sulla vecchia strada di Despair, trovò la pista nell’oscurità crescente e la seguì come aveva fatto la notte prima, superando la strozzatura dell’otto e proseguendo fino al comprensorio residenziale, fino alla zona dietro l’hangar. Parcheggiò lì, fece per estrarre la chiave, ma Reacher le posò una mano sul polso e disse: «Questo devo farlo da solo».
«Perché?» chiese lei.
«Perché dev’essere un faccia a faccia. Potremmo arrivare allo scontro. Tu vivi qui, io no. Sei una poliziotta della cittadina vicina e hai molti anni davanti a te. Non puoi violare proprietà, fare irruzione, infiltrarti dappertutto.»
«L’ho già fatto.»
«Ma nessuno lo sa, il che non crea problemi. Stavolta invece ne creerebbe.»
«Mi stai tagliando fuori?»
«Aspetta sulla strada. In caso di fastidi, torna a casa. Io mi arrangerò per conto mio.»
Lasciò la scala a pioli, il piede di porco e la torcia dov’erano, in macchina, ma prese con sé i coltelli a serramanico di cui si era impossessato. Se ne mise uno in ogni tasca, per sicurezza.
Percorse a piedi la cinquantina di metri in mezzo alla vegetazione e risalì il muro di sassi.