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Reacher si girò lentamente e vide due uomini. Uno era grosso, l’altro un gigante. Quello grosso aveva una ricetrasmittente e il gigante una chiave inglese lunga quanto una mazza da baseball e probabilmente più pesante di dieci messe assieme. Arrivava senza problemi al metro e novantotto e ai centosessanta chili. Aveva l’aria di non aver bisogno di una chiave inglese per demolire una carcassa d’auto.
«Chi diavolo è lei?» chiese di nuovo l’uomo con la radio.
«Un ispettore dell’EPA», rispose Reacher.
Nessuna risposta.
«Scherzavo», aggiunse.
«Sarà meglio.»
«Glielo assicuro.»
«Allora chi è?»
«Prima lei. Chi è?» replicò Reacher.
«Sono il direttore dell’impianto. Lei chi è?»
Reacher estrasse la stella di peltro dalla tasca e disse: «Sono del Dipartimento di polizia, il nuovo ausiliario. Sto familiarizzando con la comunità».
«Non ho sentito di nuovi ausiliari.»
«È stata una cosa improvvisa.»
L’uomo prese la radio e parlò rapido. Nomi, codici, ordini. Reacher non li capì, né si aspettava di capirli. Ogni struttura aveva un proprio gergo. Riconobbe però il tono. Si voltò, guardò a ovest e vide i Tahoe che facevano retromarcia e si avvicinavano. Guardò a sud e vide gruppi di uomini smettere di lavorare e prepararsi a muoversi.
«Andiamo a far visita all’ufficio della sorveglianza», disse il direttore.
Reacher restò immobile.
«Un nuovo ausiliario dovrebbe voler visitare l’ufficio della sorveglianza, conoscere le persone utili, stabilire contatti», osservò il direttore.
Reacher non si mosse. Guardò di nuovo a ovest e vide i Tahoe a metà degli ottocento metri che dovevano percorrere. A sud vide gli uomini incamminarsi a gruppetti nella sua direzione. Tra loro c’erano quelli con i grembiuli e le maschere da saldatore. Dieci uomini che avanzavano goffi con i loro pesanti stivali a prova di scintille. Molti altri stavano arrivando. Nel complesso forse duecento persone stavano convergendo in quel punto. Entro cinque minuti ci sarebbe stata parecchia gente attorno ai bidoni di petrolio. Il gigante con la chiave inglese fece un passo in avanti. Reacher mantenne la posizione e lo guardò dritto in faccia, dopodiché controllò di nuovo a ovest e a sud. I Tahoe erano già vicini e stavano rallentando. Gli operai continuavano ad avanzare, disponendosi in gruppi, spalla a spalla. Erano abbastanza vicini perché Reacher potesse vedere gli arnesi che stringevano in mano: martelli, piedi di porco, fiamme ossidriche, scalpelli di acciaio da trenta centimetri.
«Non può combattere contro tutti», disse il direttore.
Reacher assentì. Il gigante sarebbe stato un avversario abbastanza duro ma forse affrontabile, se avesse sbagliato la prima mossa con la chiave inglese. Con quattro contro uno o persino sei contro uno sarebbe potuto sopravvivere, non con duecento contro uno. Non era assolutamente possibile, non con venti tonnellate di muscoli contro centodieci. In tasca aveva i due coltelli a serramanico di cui si era impossessato, ma sarebbero stati di utilità limitata contro un paio di tonnellate di armi improvvisate.
Non andava bene.
«Allora andiamo. Vi posso concedere cinque minuti», disse Reacher.
«Ci concederà qualsiasi cosa vogliamo», replicò il direttore. Fece un cenno al Tahoe più vicino che si accostò. Reacher udì un rumore di sassi unti e di frammenti arricciati di metallo schiacciati dalle gomme. Il gigante aprì la portiera posteriore e con la chiave inglese gli fece un gesto come per dirgli: sali. Reacher salì sul sedile posteriore. Il fuoristrada aveva interni semplici, funzionali. Plastica e tessuto, niente legno né pelle, niente fronzoli né orpelli. Il gigante salì dopo di lui e lo schiacciò contro la portiera. Il direttore si sistemò davanti accanto al guidatore, sbatté la portiera, al che il Tahoe ripartì, girò e si diresse verso la fila di uffici a sud del cancello per gli automezzi. Passò lento in mezzo alla folla in avvicinamento. Reacher vide i volti che lo fissavano dai finestrini: pelle grigia sporca di grasso, denti marci, occhi bianchi sgranati.
L’ufficio della sorveglianza era all’estremità nord della fila, il
più vicino al cancello degli automezzi. Il Tahoe si fermò proprio
davanti, accanto a un mucchio aggrovigliato di cinghie,
presumibilmente utilizzate un tempo per legare i rottami sui
pianali. Reacher scese rapido prima del gigante e si ritrovò ai
piedi di alcuni gradini di legno che conducevano alla porta
dell’ufficio. Li salì, spinse la porta ed entrò in un prefabbricato
di metallo, forse concepito per essere impiegato nei cantieri. Era
lungo circa sei metri, largo tre e mezzo, alto due e mezzo. Aveva
cinque piccole finestre munite di spesse lastre di plastica
trasparenti e protette all’esterno da una pesante rete d’acciaio. A
parte ciò, ricordava molto il locale plurifunzionale che aveva
visto nell’obitorio della contea di Halfway: tavolo, carte,
bacheche, poltroncine, il tutto contraddistinto dai segni
dell’incuria e dell’indifferenza tipici dei posti usati da chi non
ne è il proprietario.
Il direttore gli indicò una poltroncina, dopodiché se ne andò. Il gigante ne avvicinò un’altra, la girò, e vi si buttò sopra in modo da bloccare la porta. Posò la chiave inglese per terra. Reacher si sedette in una poltroncina d’angolo. Braccioli di legno, sedile e schienale di stoffa: abbastanza comoda.
«C’è del caffè?» domandò.
Il gigante tacque per un istante, poi disse: «No». Un monosillabo e una risposta negativa, ma almeno era una risposta. Per esperienza di Reacher, la parte più difficile di qualsiasi conversazione con un avversario era l’inizio. Una risposta tempestiva era un buon segno. Rispondere sarebbe diventato un’abitudine.
«Qual è il suo compito?» chiese.
«Do una mano dove serve», rispose il gigante. Aveva la voce di un uomo normale, ma attutita proprio perché doveva uscire da una cavità toracica tanto grossa.
«Cosa succede qui?» domandò Reacher.
«Ricicliamo il metallo.»
«Cosa succede nella parte segreta?»
«Quale parte segreta?»
«A sud, dietro il divisorio.»
«È solo un deposito per i rottami. Non c’è niente di segreto.»
«Allora perché è chiuso a chiave e sorvegliato?»
«Per evitare che la gente si impigrisca. Qualcuno si stanca di lavorare, ci getta qualcosa di buono e noi perdiamo soldi.»
«Lei fa parte della direzione?»
«Sono sorvegliante.»
«Vuol sorvegliare la mia uscita da questo posto?»
«Lei non se ne può andare.»
Reacher lanciò un’occhiata alla finestra. Il sole era oltre l’orizzonte. In cinque minuti sarebbe stato oltre il muro orientale. Potrei andarmene, pensò. Il cancello degli automezzi era aperto e i camion stavano uscendo. Calcola bene i tempi, supera l’omone, corri al cancello, salta a bordo di un pianale, game over. Con la chiave inglese per terra il gigante era un problema minore rispetto a prima. Era disarmato e seduto in una poltroncina bassa. Era pesante e la gravità era la gravità. Inoltre, gli omoni erano lenti e Reacher aveva i coltelli.
«Ero un giocatore professionista di football», disse il gigante.
«Ma non molto bravo», osservò Reacher.
Lui non rispose.
«Altrimenti sarebbe commentatore tecnico per la Fox o vivrebbe in una villa a Miami, non farebbe lo schiavo qui.»
Lui non rispose.
«Scommetto che non è nemmeno molto bravo in questo lavoro.»
Lomone non rispose.
Potrei andarmene, pensò di nuovo Reacher.
Ma non lo farò.
Aspetto di vedere che succede.
Attese altri venti minuti prima che succedesse qualcosa. Il gigante
rimase seduto muto e immobile accanto alla porta. Reacher ingannò
il tempo nell’angolo. Non era preoccupato. Sapeva ammazzare il
tempo meglio di chiunque altro. Il sole si levò più in alto in
cielo e si riversò nella stanza dalla finestra di plastica. I raggi
crearono un fascio polveroso sopra la scrivania, comprendente tutti
i colori dell’arcobaleno.
Poi la porta si aprì, il gigante si raddrizzò, scostò rapido la sedia in modo che non fosse di intralcio e il direttore tornò nella stanza. Aveva sempre la ricetrasmittente in mano. Alle sue spalle, nel rettangolo di luce, Reacher vide l’impianto al lavoro. I camion si muovevano, le gru si muovevano, sciami di uomini si davano da fare, cadevano piogge di scintille e si levavano forti rumori. Il direttore si fermò a metà tra la porta e la poltroncina di Reacher e disse: «Il signor Thurman vuole vederla».
Le sette, pensò Reacher. Vaughan stava terminando il turno. Si stava dirigendo al ristorante di Hope per far colazione, in cerca del suo furgone, forse in cerca di lui. O forse no.
«Posso concedere cinque minuti al signor Thurman», rispose.
«Gli concederà tutto il tempo che lui vorrà.»
«Lei sarà una sua proprietà, io no.»
«Si alzi», disse il direttore. Mi segua.»