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Mentre ci preparavamo per andare a letto, quella prima sera a Bauchi, Iya Bolu mi tenne una lezioncina sul fatto che dovevo darmi una mossa e prendermi cura di Rotimi. Si stava spalmando la crema sul collo e controllava un brufoletto sulla punta del naso davanti allo specchio.

“Ti dirò la verità, Iya Rotimi. Questa cosa che stai facendo non è giusta. Che cosa ti ha fatto quella bambina? Non ti ho mai visto giocare con lei, neanche una volta. Pensa al suo Creatore, prima di trattarla come fai. Basta vedere come te la sei tenuta sulle ginocchia, scostata dal corpo. Non va bee-ene. È per via di quella cosa falciforme? Ah, ma non sempre possiamo sapere come sarà il domani, guardando l’oggi. Il tuo compito di madre è di prenderti cura di lei. Lascia che sia Dio a decidere se deve vivere o morire. Non ucciderla prima del tempo nella tua mente. Non lo fare.”

“Prima di chiamare debole la lumaca, prova a legarti la casa sulle spalle e portartela in giro per una settimana” dissi io. Mi sembrava strano che Iya Bolu, che non aveva mai visto una delle sue figlie smettere di respirare, pensasse di potermi insegnare a vivere la mia vita. “E poi, quando le tue figlie avevano la sua età, non le lasciavi forse da sole a gattonare nel vialetto?”

Lei aggrottò la fronte, e si passò la crema da notte sul viso. “Pensi di chiudermi la bocca insultandomi. Io so solo che devi smetterla di punire Rotimi per a morte di... degli altri.”

“Si chiamano Olamide e Sesan. E non ti sto insultando. Abi, non le lasciavi nel vialetto?”

Iya Bolu si alzò e andò a sedersi sul letto. “Se non altro le nutrivo quando avevano fame e le cullavo quando piangevano. Iya Rotimi, non voglio rigirare il coltello nella piaga. Dico solo che lei non può trovarsi un’altra madre, e per adesso è l’unica figlia che hai.”

Io non intendevo punire Rotimi per alcunché. Semplicemente, non credevo che sarebbe vissuta abbastanza da ricordare quello che facevo o non facevo. Ritenevo fosse questione di tempo, prima che prendesse la direzione degli altri, e mi stavo preparando, mi abituavo a essere senza figli. Ogni volta che ci pensavo, speravo solo che non soffrisse troppo. Non la stringevo troppo forte perché mi proteggevo da lei. Avevo perso dei pezzi di me stessa con Sesan e Olamide, e mi tenevo a distanza da Rotimi perché volevo, quando se ne fosse andata, che mi restasse ancora qualcosa.

“Questa poi, che hai chiesto alla cameriera di dire a tuo marito che dormivamo già: siete in lite?”

“Persino lingua e denti non riescono a convivere senza litigare.”

“Iya Rotimi, che palle questi proverbi. Buonanotte, o jare.” Mi diede la schiena e si tirò le coperte sulla testa.

* * *

Il giovedì ero sola in casa con la cameriera. Il fratello di Iya Bolu e sua moglie erano andati a lavorare, e Iya Bolu era al mercato a fare spese per le figlie. La futura sposa, assistente all’università di Jos, doveva arrivare quella sera. Stavo leggendo un giornale vecchio quando la cameriera entrò in stanza per dirmi che mi telefonavano da Lagos.

“Ti ho detto di dirgli che sono occupata.”

“Ha detto che deve parlare con lei, signora. Ha detto che la bambina sta male.”

Misi via il giornale e andai in salotto.

“Yejide” disse Akin quando risposi al telefono. “Rotimi ha perso conoscenza.”

Crollai sulla sedia. Prima di quel giorno avevo creduto di essere pronta, di essere abbastanza lontana, emotivamente e fisicamente, da poter assorbire la notizia che Rotimi era morta o stava per morire. Ma che ne sappiamo, di noi stessi? Sappiamo mai davvero come reagiremo in una data situazione, finché quella situazione non si presenta? Fin dal giorno in cui era nata, mi ero preparata al peggio. Ma non bastava una vita per prepararmi al senso di vertigine che mi colpì.

“Devi portarla all’ospedale” dissi.

“Sparano in strada, Yejide. Ci sono i soldati. Sparano, sparano sulla gente. Ha smesso di piangere all’improvviso. Allora io... allora ho cercato di svegliarla, ma non mi ha risposto. Però respira ancora, respira ancora.”

“Devi portarla all’ospedale.”

“C’è qualcosa che posso fare, che tu sappia? Qualcosa che posso fare adesso? Yejide? Yejide? Ci sei? Cosa dovrei fare, adesso?”

“Devi portarla all’ospedale.”

“Di’ qualcosa di diverso. Sono sicuro che hanno già ammazzato qualcuno; potrebbero spararci addosso. C’è qualcosa che posso fare? Yejide? Sai niente? Non ti hanno insegnato qualche procedura d’emergenza per Sesan? Yejide?”

Vedevo quello che restava della vita di Rotimi dispiegarsi davanti a me.

“Da te non ci torno.”

“Ma cosa dici?”

“Non torno a Ilesa. Non torno da te.”

“Che dici? Senti, devo andare. Ti chiamo stasera per farti sapere se... se... per farti sapere.”

Rimasi seduta in quel salotto estraneo, con il ricevitore all’orecchio anche dopo che era caduta la linea. Una buona madre avrebbe atteso l’inevitabile telefonata, sarebbe tornata a Ilesa a ricevere le visite e accettare i messaggi di condoglianze, come prima tra i dolenti, avrebbe svolto il suo ruolo di madre di Rotimi anche se lei non c’era più. Una volta fatto tutto questo, solo allora avrei potuto lasciare mio marito. Ma io ero stanca e non c’era più niente a Ilesa per me. C’era il negozio da parrucchiera, ma non era sufficiente a riportarmi nella stessa città in cui abitava Akin. Non sopportavo l’idea di passare un’altra volta davanti al Wesley Guild Hospital o di vedere i bambini con la stessa divisa che aveva portato Sesan a scuola, quand’era vivo. Perciò feci quello che volevo fare davvero.

Bevvi due bicchieri d’acqua e andai nella camera che dividevo con Iya Bolu. Presi solo la borsetta. Dentro c’era tutto quello che mi serviva: il libretto degli assegni, la penna, un taccuino, tutti i contanti che mi ero portata per venire a Bauchi, l’unica foto di mia madre. Lasciai un biglietto sul letto di Iya Bolu. Di sicuro sua cognata gliel’avrebbe letto, le avrebbe spiegato che non sarei tornata.

Scesi in strada e feci segno a un taxi che andava in direzione della stazione dei pullman. Le lacrime mi offuscavano gli occhi quando salii in macchina e mancò poco che inciampassi. Ammisi con me stessa che avevo fallito: anche Rotimi si era presa un pezzetto di me. Mentre scendevo dal taxi e mi asciugavo le lacrime per poter leggere le indicazioni e capire dove andava ciascuno dei pullman, sapevo che non avrei mai dimenticato Rotimi, non sarei mai riuscita a cancellarla come avrei voluto.

Salii su un pullman diretto a Jos. Jos, perché avevo sentito dire che era la città più bella della Nigeria, e avevo sempre desiderato andarci. Ci avrei messo un po’ a rendermi conto che ciascuno dei miei figli mi aveva dato tanto quanto aveva tolto. I miei ricordi di loro, dolce-amari e continui, erano potenti come una presenza fisica. E per questo, mentre un pullman mi portava nel cuore di una città che non conoscevo, mentre la mia ultima figlia moriva a Lagos e il paese era nel caos, non avevo paura perché non ero sola.