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Stringo le mani di mia figlia, faccio scorrere i pollici sui suoi palmi, le sfioro l’interno dei polsi e ascolto il battito. Non è un sogno. Mia figlia è qui, in piedi davanti a me con le spalle alla scuola. Ai piedi porta sandali dorati, le unghie dipinte di verde. L’orlo a smerlo del vestito giallo le sfiora le ginocchia, un crocifisso pende dalla catenina d’oro, ha messo il gloss rosa sulle labbra e gli occhi sono contornati dal kajal. Lei è davvero qui. Faccio un passo avanti, appoggio la mia fronte alla sua e sento sul viso il suo alito. Il fruscio della sua acconciatura contro la mia sciarpa.

“Rotimi... Timi, Timi.” È l’unica cosa che riesco a dire.

Le conto le dita facendo scorrere pollice e indice della mano destra per tutta la loro lunghezza e reprimo l’impulso di mettermi in ginocchio per contare quelle dei piedi. Sono Tommaso, cerco la prova tattile di quello che hanno visto gli occhi prima di abbandonarmi alla gioia. Mia figlia ricaccia indietro le lacrime e sorride.

Tocco il crocifisso. “Questo è quello...”

“Papà mi ha detto che me lo hai dato tu.” Si schiarisce la voce. “Lo porto quasi sempre.”

Non trattengo più le lacrime pensando a tutti gli anni che mia figlia ha trascorso da orfana di madre. Vorrei stringerle il volto fino a farle scorrere le lacrime. Vorrei abbracciarla forte e dirle che si sentirà meglio se piange, ma capisco che non so se sia vero. Non so neanche se si è legata da sola il bellissimo gele che porta o se ha avuto bisogno che qualcuno l’aiutasse a spiegarne i lati. La bambina che ho abbandonato adesso è una giovane donna che riconosco ma non conosco. Un nuovo fiotto di lacrime mi sale agli occhi, stavolta per me e per tutti gli anni che ho vissuto da madre senza figli, mentre qualcun altro teneva per mano mia figlia il primo giorno di scuola, qualcun altro le insegnava a farsi una riga perfetta attorno agli occhi con il kajal.

“Mi dispiace così tanto. Se avessi saputo che eri viva... se l’avessi saputo, giuro che sarei tornata. Sarei tornata. Sarei tornata per te.”

“Sei qui.” Mi asciuga le lacrime con le mani. “Sei qui adesso.”

Le sue parole sono come un lavacro, l’assoluzione per gli anni perduti.

“Moomi” mormora.

Mi guardo alle spalle, convinta di vedere mia suocera. “Tua nonna? Dov’è?”

Mia figlia ride – e quel suono meraviglioso mi porta a sorridere a mia volta. Vorrei che la sua risata risuonasse fino alla fine dei tempi.

“Mamma, ho aspettato così tanto di dirlo, da sempre direi. Sei tu la mia Moomi. La nonna non la chiamo così.” Si tocca il crocifisso e si stringe nelle spalle. “Nessuno lo capisce, è solo una mia stranezza.”

“Io lo capisco.” Io capisco come una parola che gli altri usano tutti i giorni può diventare una parola da pronunciare sottovoce al buio per lenire una ferita che si rifiuta di guarire. Mi ricordo di aver pensato che mai avrei potuto sentirla pronunciare senza andare in pezzi, chiedendomi se sarei mai riuscita a dirla alla luce. Perciò riconosco il dono di questa semplice dichiarazione, la promessa di un inizio contenuta in quest’unica parola.

“Ti dispiacerebbe dirlo un’altra volta, chiamarmi così un’altra volta?” chiedo, riconoscente per il fatto che mia figlia non dovrà accontentarsi di un surrogato.

Mia figlia mi attira tra le sue braccia. “Moomi.” La sua voce è tenera e tremula.

Chiudo gli occhi come chi riceve una benedizione. Dentro di me un nodo si scioglie, la gioia si diffonde in tutto il mio essere, così poco familiare eppure indiscutibile, e io so che anche questo è un inizio, la promessa di miracoli futuri.