19

Quando arrivai, Yejide era seduta in corridoio. Non su una delle panche, ma proprio per terra, sul pavimento di cemento. La vidi appena uscii dal parcheggio dell’ospedale. All’inizio non ero certo che fosse lei perché era senza scarpe. Avrei dovuto capirlo subito, vedendo i piedi scalzi, che era successo qualcosa di molto grave.

Mi accovacciai accanto a lei, le circondai la spalla con il braccio, salutai persino un’infermiera che conoscevo.

“Alzati” le dissi. “Sono sicuro che starà bene. Cosa ha detto il dottore?”

Avevo dato per scontato che avessero ricoverato Olamide, pensavo che forse avevano individuato la causa del suo malore, e che ne avessero informato Yejide prima del mio arrivo.

“C’è da pagare qualcosa? Yejide alzati, per favore. Non è il caso di sedersi per terra. Rilassati, andrà tutto bene. Lo sai che capacità di recupero hanno i bambini. Oya, alzati.”

Lei mi fissò, gli occhi sbarrati, la bocca aperta.

“Yejide?”

Sbatté le palpebre e deglutì.

La scossi un po’ perché capivo che non era del tutto presente. Era tutta scarmigliata, e io le misi una mano sulla testa per ravviarle le trecce all’indietro.

“Che cosa è successo, te l’hanno detto? Hai parlato con qualche dottore?”

“Hanno portato Olamide all’obitorio.”

La mia mano scivolò dalla sua spalla e io caddi in ginocchio accanto a lei. “Che significa ‘obitorio’?” le dissi.

“Mi dispiace” disse Yejide, portandosi le mani alla testa come se fosse diventata a un tratto troppo pesante per il suo esile collo. “Akin, mi dispiace così tanto. È stato un attimo. Avevo fame. Volevo solo preparare qualcosa da mangiare. Non lo sapevo. Mi dispiace tanto.”

“No” dissi, nella certezza che non stavo elaborando nel modo giusto quello che aveva detto. Non aveva senso che nominasse Olamide e l’obitorio nella stessa frase. “Aspetta, aspetta. Calmati, per favore. Olamide, dov’è Olamide?”

Si mise le mani nei capelli, si schiaffeggiò la testa, poi allargò le braccia. “L’hanno portata all’obitorio, Akin. Dicono che è morta. Dicono che mia figlia è morta, dicono che Olamide è morta. Dicono...”

Mi alzai, mi strofinai gli occhi con il dorso della mano perché mi sembrava di vedere tutto sghembo. Mi avviai lungo il corridoio per allontanarmi da lei, fermandomi solo quando non riuscii più a sentire la sua voce, poi mi voltai a guardarla. Lei continuava a darsi schiaffi in testa, ma senza lacrime. Non gridava, continuava solo a colpirsi dappertutto, sul seno, sulle cosce, in faccia.

Non so per quanto rimasi in fondo al corridoio a guardarla, a cercare in qualche modo di assorbire il colpo: dopo tutto quello che io e Yejide avevamo fatto per avere un figlio, così, all’improvviso, l’avevamo perso. Mi sembrava impossibile che il mondo potesse cambiare in modo tanto repentino. Ero consapevole delle persone che facevano avanti e indietro per il corridoio: sentivo il rumore dei tacchi, la gente che parlava, anche qualche corpo che sbatteva contro il mio. Ma mi sentivo completamente solo, come se nell’attimo che ci aveva messo Yejide a dire: hanno portato Olamide all’obitorio, fossi stato trasportato su un pianeta senza vita umana.

Alla fine tornai da Yejide, le presi le mani per farla alzare, l’accompagnai alla macchina e l’aiutai a sedersi accanto al posto di guida.

Ancora oggi non so dove trovai la forza di entrare al pronto soccorso. So solo che mi ritrovai davanti alla caposala di turno.

“Mi chiamo Ajayi” le dissi. “Mia figlia è stata portata qui qualche ora fa. Olamide.”

Dal reparto, mi fece entrare in un piccolo ufficio, facendomi segno di sedere mentre lei apriva alcuni cassetti. Poi mi mise davanti delle carte, chiedendomi se prima di firmare volevo vedere il corpo. Mi ci volle un po’ per capire che con “il corpo” intendeva Olamide. Siccome non riuscivo a parlare, scossi la testa e cominciai a firmare i moduli. Non lessi una parola, mi limitai a cercare i riquadri per le firme su ogni pagina, e a scrivere il mio nome.

Quando mi alzai per andarmene, la caposala mi fece le condoglianze, assicurandomi che i medici avevano fatto del loro meglio ma la bambina era arrivata già morta. Le strinsi la mano, la ringraziai, espressi la mia gratitudine per i loro sforzi.

Tornato alla macchina trovai Yejide immobile come un masso; fui certo che fosse viva solo quando le vidi battere le palpebre. Avrei dovuto porgerle parole di conforto, dirle qualcosa per lenire il dolore. Lo avevo già fatto, durante qualche visita di condoglianze, con i colleghi che avevano perso il coniuge o un parente, e avevo trovato le parole per dir loro che tutto, in qualche modo, sarebbe comunque andato per il meglio.

Infilai la chiavetta d’accensione, strinsi forte il volante e fissai oltre il parabrezza la gente che camminava nel parcheggio assolato, proprio come se fosse un giorno qualsiasi. Mi sforzai di trovare qualcosa da dire a mia moglie, trovai persino parole sufficienti a cucire insieme un paio di frasi. E siccome desideravo che le mie parole producessero il massimo effetto, per dare conforto a ciò che ancora non riuscivo del tutto a capire, mi voltai a guardarla negli occhi.

Fu allora che vidi la macchia di latte sul davanti della camicetta verde. Era senza reggiseno, notai, e la macchia era proprio in corrispondenza del capezzolo destro. Era fresca, e grande all’incirca come la mano di un bambino, come la mano di Olamide. Dimenticai del tutto quello che avevo voluto dire. Mentre guardavo la macchia che si allargava verso il basso, mi resi conto che ci era stata tolta la terra da sotto i piedi e noi galleggiavamo in aria, e le mie parole non potevano impedirci di cadere nell’abisso che si era aperto sotto di noi.