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Il terrore mi stringeva alle caviglie, mentre mi inerpicavo su per la Montagna degli Stupefacenti Miracoli. L’uomo barbuto che mi faceva da guida non alleviava le mie ansie. Era la mia scorta, inviato dalla cima del monte dove gli altri fedeli intonavano parole che il vento portava fino a noi per riportarsele subito via. Riuscivo a vederne un centinaio, in tunica verde e cappelli tradizionali in tinta.
“Niente soste” disse la guida.
Doveva essersi accorto che i miei passi rallentavano. Il fianco della montagna era irto e brullo, senza alberi che offrissero un temporaneo riparo dal sole. Ero assetata, avevo la gola arida e la bocca era praticamente senza saliva. Per me non ci sarebbe stata tregua. Mi avevano chiesto di arrivare digiuna. Niente cibo né acqua e, come mi aveva spiegato la guida che mi era venuta a prendere ai piedi del monte, se mi fossi fermata a riposare mentre salivamo, mi avrebbero rimandato a casa senza preghiera e senza farmi incontrare il Sommo Sacerdote.
La signora Adeolu mi aveva assicurato che il Profeta Josiah, il capo del gruppo, era un autentico operatore di miracoli. La sua pancia prominente ne era la prova. A me serviva un miracolo, subito. L’unica maniera di salvarmi dalla poligamia era restare incinta prima di Funmi; allora Akin avrebbe potuto mandarla via. Ma mentre spingevo una capretta su per la montagna, l’unico miracolo che volevo davvero era che l’acqua sgorgasse da una roccia per placare la mia sete. Mi preoccupava il modo in cui la guida mi fissava il seno. Non tremavo solo per la stanchezza ma anche per un brutto presentimento. Ogni volta che i miei occhi incontravano i suoi, sfacciatamente lubrichi, mi veniva voglia di ridiscendere di corsa fino alla macchina; invece continuavo ad avanzare verso la cima. Funmi abitava ancora nel suo appartamento in città, ma non mi serviva un profeta per sapere che, appena rimasta incinta, si sarebbe trasferita in casa mia.
“Mi dai una mano con la capra?” chiesi alla guida, desiderando che il profeta mi avesse mandato a prendere da una donna.
“No” rispose lui agitandomi una mano davanti alla faccia. Stavo per cedere all’impulso di allontanargliela con uno schiaffo, quando lui incavò il palmo, spalmandomi rivoli di sudore su tutta la guancia.
Mi tenne per la vita, probabilmente per aiutarmi a mantenere l’equilibrio. Io cercai di accelerare il passo tremolante, ma la capra si era fermata. Tirai e tirai finché la corda non mi scorticò le mani. L’avrei trascinata anche a zampe all’aria, ma le istruzioni erano di portare una capra bianca senza ferite, difetti o macchie di altro colore.
“È la capra; non mi sto fermando per riposare.” Avevo paura che mi rimandasse indietro.
“Lo vedo.”
Dopo un po’, la capra si mosse. Ben presto arrivammo in cima al monte. I fedeli, seduti in un ampio cerchio, erano a occhi chiusi.
“Entra nel circolo” disse la guida, che andò a sedersi con gli altri e chiuse gli occhi.
Al centro c’era un uomo. Aveva la barba ancora più lunga di quella della guida, gli copriva quasi tutta la faccia. Il suo cappello era più grande di quelli degli altri, ed era imbottito da qualcosa cosicché, invece di afflosciarsi all’indietro, stava dritto e rigido.
“Fate posto alla nostra sorella” disse.
I due fedeli davanti a me si alzarono, entrando nel circolo senza aprire gli occhi. Trascinai la capra all’interno del cerchio insieme a me e andai a mettermi accanto all’uomo con il cappellone. Guardai le facce che mi attorniavano e mi resi conto che avevano tutti la barba, erano tutti uomini. Ripensando agli sguardi lascivi della scorta, mi sentii svenire. Come se avessero capito, gli uomini cominciarono a mugolare e a tremare come per qualche stimolo invisibile. Pensai ad Akin e a come sarebbero stati belli i nostri figli.
“Tu avrai un figlio” gridò l’uomo accanto a me, e i mugolii tacquero. L’altro aprì gli occhi. “Ecco, guarda tuo figlio” disse indicando la capra. Il mio sguardo passò dalla capra agli occhi spiritati dell’uomo. Pensai di scappare da quel pazzo, ma subito immaginai tutti gli altri che mi rincorrevano, folli e bavosi come cani idrofobi, con le tuniche verdi svolazzanti nel vento. Mi vidi precipitare rotolando giù per la scarpata, verso la morte.
“Credi che sia pazzo? Il Profeta Josiah è un pazzo?” Mi afferrò la nuca ed emise una risata rotta e sguaiata. “Non puoi scappare da noi finché non abbiamo finito. E allora sarai gravida.”
Continuai ad annuire fino a quando lui mi lasciò la testa.
I gemiti ricominciarono. L’uomo si chinò sulla capra e le sfilò la corda dal collo. Poi l’avvolse in un telo verde, in modo che si vedesse solo il muso. Allora la spinse verso di me. “Il tuo bambino.”
Io presi il fagotto.
“Tienilo stretto, e balla” mi ordinò.
I gemiti cessarono e gli uomini cominciarono a cantare. Io strusciavo i piedi stringendomi il fagotto al petto, affaticata dal peso. Il canto, da solenne, si fece rapido e il mio ritmo accelerò. Mi misi a cantare con loro.
Ballammo finché ebbi la gola talmente riarsa che non riuscivo quasi più a inghiottire. E ogni volta che sbattevo le palpebre vedevo lampi di luce e colore, come schegge di un arcobaleno in frantumi. Continuammo a danzare finché non mi sentii sull’orlo di una qualche esperienza mistica. Infine, sotto il sole sfolgorante, la capra assunse le sembianze di un neonato e io credetti. Cantammo e ballammo e alla fine le caviglie mi facevano male e desiderai di cadere in ginocchio. Dovevano essere passate ore, prima che il Profeta Josiah parlasse di nuovo.
“Nutri il bambino” disse. La sua voce era come un comando a distanza, che regolava l’attività degli uomini lì attorno. Stavolta, al suono della sua voce il canto si interruppe. Guardai la sua mano, pensando che mi avrebbe consegnato dell’erba.
Invece mi strattonò la camicia. “Allatta il bambino.”
Dopo che ebbe sussurrato queste parole, trovai naturale portarmi una mano alla schiena per sganciare il reggiseno di pizzo color avorio. Sollevare la camicetta e spingere verso l’alto le coppe del reggiseno. Sedermi per terra con le gambe tese davanti a me. Strizzarmi il seno e spingere il capezzolo verso la bocca aperta tra le mie braccia.
Non pensai ad Akin e a cosa avrebbe detto, avrebbe detto che ero pazza. Non pensai a Moomi, che mi avrebbe ricordato quant’era malfermo il terreno sotto i miei piedi, senza figli in casa di suo figlio. Non pensai neanche a Funmi, che forse era già incinta. Abbassai gli occhi sul fagotto che stringevo tra le braccia e vidi il faccino di mio figlio, sentii il fresco profumo di talco e credetti.
Quando il Profeta Josiah mi tolse il fagotto dalle braccia, me le sentii vuote.
“Vai” mi disse. “Anche se nessun uomo ti si accostasse questo mese, tu sarai gravida.”
Abbracciai forte le sue parole, che mi riempirono le braccia e mi diedero conforto. Mentre ridiscendevo da sola giù dal monte sorridevo. Sentivo ancora il seno bagnato e il cuore mi batteva di fede disperata.