13
Il fratello di mio marito era uno di quei tipi che vincono nelle discussioni perché strillano più forte e più a lungo di tutti anche se il loro ragionamento è stupido. Quando si accalorava poi riusciva anche a girare la testa sul collo quasi completamente e dava l’impressione che si sarebbe strangolato da solo se non gli davi ragione. Cosa che alla fine quasi tutti facevano. Ho sempre pensato che lo lasciassero parlare e gliela dessero vinta per non essere responsabili della sua morte.
Mio cognato non mi piaceva, ma avevo sposato Akin e Dotun faceva parte del pacchetto. Ogni volta che ci veniva a trovare mi rallegravo che vivesse a Lagos e che le sue visite fossero abbastanza distanziate da farmi riprendere fiato. Raccontava in continuazione barzellette assurde che non facevano ridere nessuno mentre lui rideva così forte, troppo forte, delle sue battute insulse. Averlo intorno mi stancava: dovevo sempre ridere di cose tutt’altro che divertenti e oltretutto mi toccava indovinare il momento giusto, visto che non si capiva in cosa consistesse la battuta. Insomma, non era un tipo da prendere sul serio: tra tutte quelle risate, faceva un mucchio di promesse che non manteneva.
Dotun una volta ci aveva promesso un bambino; aveva detto che avrebbe mandato un figlio suo a vivere con noi fino a che io non fossi rimasta incinta. Quando lo disse lo ringraziai in ginocchio. Da mesi Moomi mi suggeriva di cercarmi un bambino, un piccolino che vivesse con noi fino a che non avessi concepito il mio. Diceva che i bambini sanno come chiamare altri bambini su questa terra. Avere intorno la voce di un piccino in affidamento avrebbe richiamato i miei; avrebbe accelerato la loro venuta nel mondo. L’unico problema era che io non avevo fratelli o sorelle ma solo fratellastri e sorellastre con cui non parlavo da anni. Non avevo parenti cui chiedere un figlio in affidamento e dunque non ci avevo più pensato fino a quando Dotun non sentì accennare alla cosa e non promise di mandarmi il suo ultimo nato.
Si chiamava Layi e all’epoca aveva due anni. Gli preparai una stanzetta al piano di sopra. Comprai giocattoli, libri illustrati, album da disegnare e pastelli colorati. Lo attesi. Tutti gli oggetti della stanza si coprirono di polvere. Io aspettavo e spolveravo con un panno morbido giocattoli e libri, uno per uno. Chiesi ad Akin di chiamare suo fratello e indagare. Ogni cosa tornò a ricoprirsi di polvere, poi Akin mi disse che Dotun aveva cambiato idea. Incartai tutti i giocattoli e li diedi via.
Eppure mi fece piacere quando Dotun si presentò alla nostra porta un sabato mattina, proprio quando rispuntava il sole dopo un temporale. Funmi era andata via, a trovare dei parenti, e Akin continuava a inseguirmi per casa chiedendomi i particolari della terapia in ospedale. Era come se in qualche modo sapesse che io in fondo continuavo a credere che i medici si fossero sbagliati. Quella mattina era riuscito a farmi un interrogatorio così assillante che alla fine gli avevo urlato che forse si sbagliavano tutti, e avevo ragione io.
“Devi dire al medico quello che pensi davvero” mi disse. “Smetti di dirgli quello che credi voglia sentire.”
Fui felice di vedere Dotun, perché pensai che avrebbe distratto Akin. A loro piaceva stare insieme e passavano ore a chiacchierare di sport, politica e del più e del meno. A volte, quando Akin pensava che non li sentissi, li coglievo a discutere se fosse meglio una donna tettona o una con un bel culo tondo. Immaginai che, con Dotun in giro, Akin avrebbe smesso di concentrarsi tanto su di me.
“Eccomi quaaa” gridò Dotun quando aprii la porta. E mi scansò per correre ad abbracciare il fratello e poi fece un passo indietro e s’inchinò: “Fratello mi.”
Akin era così alto che doveva sempre chinarsi per passare dalle porte. La sua pelle era di un bronzo brunito che al sole prendeva una patina lucente. Dotun era alto come lui ma aveva la pelle più chiara ed era magro, aveva le guance vuote. Mi inginocchiai per salutarlo. Avevamo la stessa età ma poiché era un parente di mio marito dovevo comportarmi come se fosse più vecchio di me. Lo ritenevo un tipico oniranu, un uomo assolutamente irresponsabile, ma lo salutavo con rispetto ogni volta che veniva a trovarci.
“Benvenuto, signore. Spero che abbia fatto buon viaggio” dissi.
Dotun si sistemò su una poltrona e allungò le gambe sul tavolino di mogano. “Saluti da mia moglie – questo weekend ha il turno di notte e io non sono in grado di occuparmi dei figli da solo; durante il viaggio avrebbero litigato al punto da farmi venir voglia di schiantarmi contro un albero, perciò li ho lasciati a Lagos. Come avrà fatto nostra madre a sopravvivere a noi figli? Adesso mi tocca espiare. I bambini sono rimasti con la zia, la sorella di mia moglie. Yejide, mi dicono che sei diventata due in una; hai ingoiato un essere umano! Fatti un po’ vedere bene.”
Davanti a mio cognato feci una piroetta per l’ispezione. Il sorriso stampato sul volto di mio marito da quando era arrivato Dotun scomparve all’improvviso.
“Non è incinta” disse Akin. “È malata, la stanno curando.”
“Ma Moomi ha detto...” cominciò Dotun.
“Sono incinta” dissi, abbracciandomi la pancia e sperando che la creatura si mettesse a scalciare in quel momento, sperando che dimostrasse a me e a tutti i presenti che c’era, mettendo fine una volta per tutte all’incredulità di Akin.
“Fratello, è la donna che deve dire se è incinta” disse Dotun.
“Chiedile da quanto” rispose Akin.
Dotun mi fissò la pancia, socchiudendo gli occhi come se io mi fossi chissà come ridotta e lui dovesse faticare per vedermi.
“Akin, non sei tu che devi dire a me cosa sento nel mio corpo.”
Akin si alzò e mi prese per le spalle. “Ti hanno cacciata via dai corsi di preparazione al parto, Yejide. Hai fatto cinque ecografie, sei stata da cinque medici diversi a Ilesa, Ife e Ibadan. Non sei incinta, hai le allucinazioni!” Aveva la schiuma alla bocca. “Yejide, questa storia deve finire. Ti prego, ti prego. Dotun, per favore, parlale. Io non ho fatto altro, mi si spella la bocca a forza di parlare.” Le sue mani stringevano da farmi male.
Dotun era lì, a bocca aperta; la chiudeva e la riapriva. Non lo avevo mai visto senza parole.
“Che ne sanno i dottori, comunque?” disse Dotun quando la voce gli ritornò da dove se n’era andata. “È la donna che sa se è incinta oppure no.”
Lui mi credeva, non mi stava prendendo in giro. Non c’erano ironia né dubbio nel suo sguardo, che incontrò il mio con franchezza. Nei suoi occhi c’era qualcosa che in quelli di Akin non vedevo da tanto, troppo, tempo. Fiducia in me, nelle mie parole, nella mia sanità mentale. Avrei voluto abbracciarlo stretto fino a che la sua fiducia in me non mi avesse restituito la speranza che vacillava, e cacciato la disperazione che ormai mi consumava.
“Ti va in pappa il cervello, Yejide. In pappa” disse Akin. “Dotun, sono stanco di ragionare con questa pazza. Vado al club, tu vieni?”
Non mi aveva mai parlato a quel modo prima. Le sue parole mi avrebbero ossessionata per settimane, facendomi trasalire ogni volta. Ti va in pappa il cervello, Yejide. In pappa, in pappa. Dotun cominciò a dire qualcosa in mia difesa, ma io non rimasi a sentirlo. Mi misi le mani sulla pancia, salii le scale incespicando, accecata dalle lacrime. Appena entrai in camera sentii che la macchina di Akin stava uscendo dal giardino.
A volte penso di essermi lasciata consolare da Dotun anche per quelle parole di mio marito, penso che mi abbiano indebolita, mi abbiano spinta ad appoggiarmi a lui, che mi abbracciava mentre piangevo, mi baciava i lobi delle orecchie mentre mi spogliava. In un batter d’occhio fu tutto finito, e lui si staccò da me lasciandomi il suo seme e un dolore secco tra le cosce. Provai molta pena per la mia povera cognata. Dunque era tutto qui? Tutto qui quello che le dava Dotun, una settimana dopo l’altra? Mi aspettavo di sentire, se non altro, qualcosa di più. Almeno un fremito mio malgrado, anche se quella cosa andava contro tutto quello in cui pensavo di credere – fino a quel weekend.
“Andrà meglio la prossima volta. Sarò più bravo. Sei troppo bella... tu... Ho sempre pensato...” disse Dotun mentre si tirava su i calzoni in tutta fretta. E anche se cercavo di negarlo, sapevo dentro di me che una prossima volta ci sarebbe stata. C’era qualcosa di diverso, di più completo, nello stare con lui. Volevo provarlo di nuovo. Il mio primo impulso fu di dirlo ad Akin, ma come si fa a dire a tuo marito: Voglio che mi scopi come ha fatto tuo fratello?
Il resto del weekend lo passai nascosta in camera mia. Lasciai la porta aperta per sentire Akin e Dotun ridere oppure alzare la voce per una discussione. Ma non sentii niente, al piano di sotto tutto taceva. Il silenzio mi colpì come un pugno allo stomaco tanto che persi il mio bambino miracoloso in un fiume di lacrime colpevoli. Quando Akin venne in camera, la domenica sera, mi trovò rannicchiata che gemevo Il mio piccolo, il mio piccolo.
Si fermò sulla porta. Ero certa che non mi si sarebbe avvicinato, che sarebbe uscito. Ero certa che le dita di suo fratello mi avessero lasciato i segni addosso. Segni che sarebbero risaltati agli occhi di mio marito sotto la lampada al neon che illuminava la nostra stanza, segni che tutte le mie docce bollenti non avrebbero cancellato.
Akin chiuse la porta, si levò la camicia e la canottiera, le ripiegò con cura in fondo al letto e si sdraiò accanto a me. Mi distese le membra, passandoci sopra la punta delle dita.
“Mi dispiace” disse. “Mi dispiace tanto.”
Sussurrò il mio nome: Yejide, Yejide. Era così dolce tra le sue labbra, un suono esotico che era già da solo una carezza. Volevo che lui capisse quello che non riuscivo a dire, che la mia creatura, la gravidanza che avevo cullato, era finita. Finita. Ero di nuovo vuota.
Mi baciò il viso fino a che invece cominciai a mormorare il suo nome.
Volevo correre giù da Dotun, e dirglielo: Ecco! Ecco quello che Akin riesce a farmi sentire anche solo sul viso. GUARDA!
Lui sussurrò il mio nome, il suo alito mi bruciava la pelle. Fui scossa da un brivido e coprii le sue labbra con le mie. Poi passò a baciarmi il collo e io chiusi gli occhi. Questa volta non potevo annegare nel fremito che mi davano la sua lingua e le sue dita. Il piacere era tenuto a freno dalla violenta speranza che tutto fosse perfetto, nella condizione giusta perché potessi concepire.
Dotun partì lunedì mattina. Nel salutarmi mi tenne troppo a lungo la mano sulla spalla ed ebbi l’impressione che Akin avesse stretto i denti quando insieme salutammo con la mano l’auto che si allontanava.