10 Ilesa, dicembre 2008

Sto scavando la fossa per mio padre. Faccio più del mio dovere, perché il marito di mia sorella si era sopravvalutato, quando aveva promesso di pensarci lui. In quanto primogenito maschio, sarei tenuto a dare solo il primo e l’ultimo colpo di vanga nella sabbia, per sicurezza. Il genero di mio padre dovrebbe fare il resto, o pagare qualcun altro che lo faccia. Pensavo che Henry avrebbe assoldato degli operai, come ormai fanno quasi tutti.

Ti ricorderai sicuramente, Yejide, di quello che ti dissi anni fa, che questa tradizione si sarebbe estinta presto. Tuo padre era morto da poco. Mentre la famiglia organizzava il funerale, tu avevi detto loro che anch’io avrei dovuto partecipare allo scavo, anche se non eravamo ancora sposati. Naturalmente le tue matrigne si erano opposte, e tu avevi pianto fino a farti venire gli occhi rossi. Avevo cercato di consolarti, dicendoti che non era importante, che in ogni caso di lì a pochi anni tutti avrebbero pagato degli operai per scavare le fosse. Non so se mi avevi sentito, né se te n’era importato qualcosa. Quella notte ti eri addormentata tra le lacrime.

Allora non potevo dirtelo, ma in realtà ero sollevato di non dover scavare la tomba di tuo padre. All’epoca credevo ai fantasmi, i cimiteri mi terrorizzavano. Ma se le tue matrigne avessero accettato di lasciarmi scavare, l’avrei fatto solo per farti contenta. Qualsiasi cosa tu pensi di me adesso, devi sapere che sono molto poche le cose che non farei pur di farti contenta. Adesso so per certo che i fantasmi non esistono, perché se esistessero mi starebbero già perseguitando. E quindi eccomi qui, in una fossa profonda poco più di mezzo metro, che aiuto Henry in modo che tutto sia pronto prima di andare alle esequie.

Henry lo fa per dimostrare qualcosa ai miei genitori. Per tre anni si sono rifiutati di concedergli in moglie la loro unica figlia, perché lui non era uno yoruba. Erano stati irremovibili finché mia sorella ha messo fine alle discussioni facendosi mettere incinta. A quel punto gli stessi che avevano giurato che sarebbero morti prima di fargli sposare la loro figlia lo avevano sollecitato a decidere la data delle nozze, prima che la gravidanza diventasse evidente. Adesso Henry parla correntemente lo yoruba e sulle nostre tradizioni ne sa più di me. E siamo qui a faticare in silenzio come schiavi, sotto il sole cocente, perché sta ancora cercando di dimostrare ai miei di essere all’altezza della loro figlia. A giudicare dal fiatone, è ormai palese che stava esagerando, quando ha dichiarato di poter fare tutto “come si deve.”

Il sole è così caldo, mi sembra di avere una fornace sulla schiena. Mi fanno male le braccia ogni volta che sollevo la vanga, ma continuo lo stesso. Mentre scavo penso a Dotun, per la prima volta in tanti anni sento la sua mancanza. Se fosse qui, avrebbe rotto questo silenzio, avrebbe trovato la maniera di farci ridere, me e Henry. Mi ha chiamato questa mattina, verso le sette. Non si è presentato, non ce n’era bisogno. Appena ha detto: “Buongiorno, fratello Akin,” ho riconosciuto la sua voce. Telefonava dall’hotel dell’aeroporto, aveva ricevuto la mia lettera con le indicazioni per il funerale e sarebbe partito da Lagos entro mezzogiorno per arrivare a Ilesa in tempo per la cerimonia. La nostra prima conversazione dopo più di dieci anni è durata meno di un minuto. Quando ho riattaccato, non ho provato neanche una briciola della collera che mi aspettavo; mi ha fatto venire improvvisamente voglia di restare a letto e dormire tutto il giorno. La telefonata di Dotun mi ha indotto a chiedermi se anche tu risponderai al mio invito. Mi chiedo se interverrai alla veglia, se accetterai di sederti vicino a me e di cantare gli inni.

Più scendiamo in profondità, più la terra diventa dura. Non sembra una tomba, solo una lunga buca nel terreno. Mi schiarisco la gola. “Penso che dovremmo chiamare qualcuno per finire.”

Henry sorride e crolla addosso alla parete della fossa, come se avesse aspettato tutto il giorno che lo dicessi. Aggrotta le sopracciglia. “Arinola...”

Aspetto che concluda la frase, ma non aggiunge altro. Guardo la sua fronte corrugata; cerco di capire che cosa significa il suo silenzio. “Non vuoi che le dica che abbiamo rinunciato?”

“Era molto commossa all’idea che avrei scavato la tomba.”

“Ok, le diremo che l’hai scavata tu.” È la verità – un po’ stiracchiata, ma vera. E comunque, cosa resterebbe dell’amore senza le verità stiracchiate oltre ogni limite, senza quelle versioni migliori di noi stessi che presentiamo come fossero le uniche?

* * *

Timi mi ha detto che Moomi non è voluta scendere per la cerimonia. Mentre mi chiedo perché, mi viene in mente che mia madre potrebbe essere sconvolta dal dolore per la morte di mio padre. Mi scappa quasi da ridere. So già, mentre salgo i gradini due alla volta, che il motivo dev’essere un altro. Non credo siano mai stati innamorati. Ma si sono tollerati, finché io e i miei fratelli non ce ne siamo andati di casa. A quel punto Moomi se n’è fregata di sopportare e ha dato la stura alla rabbia e al rancore di anni. Mio padre non ha reagito: gli erano rimaste ben poche energie, poveraccio, dopo aver avuto a che fare con altre quattro mogli più giovani. Ora che è morto, immagino che Moomi proverà un po’ di tristezza, ma mista a un certo senso di trionfo: gli è sopravvissuta. Sul pianerottolo imbocco a sinistra, nel suo salottino. La porta della camera è spalancata. È seduta sul letto, vestita di bianco come le altre vedove, a braccia conserte.

“Moomi, dice Timi che non vuoi scendere. Perché?”

Sospira. “Akinyele.”

Non è mai un buon segno, quando usa il mio nome per intero. Entro in camera e vado a sedermi in una poltroncina, in attesa che continui.

“Una bugia può viaggiare per vent’anni, o anche cento, ma basta un giorno...” Alza la mano destra, l’indice puntato al soffitto. “Basta un giorno alla verità per raggiungerla. La verità oggi ti ha raggiunto, Akin. Oggi è il giorno in cui so che mi hai mentito su Dotun. Non mi avevi detto che ti ha chiamato stamattina? Avevi detto che a quest’ora sarebbe stato qui. Dov’è? Akinyele, dov’è mio figlio?”

Metto la mano in tasca dei pantaloni, tiro fuori il telefonino, faccio il numero da cui stamattina mi ha chiamato Dotun, mi porto il telefono all’orecchio.

Il numero da lei chiamato non è al momento raggiungibile. La preghiamo di richiamare più tardi.

“Ecco, ho appena cercato di chiamarlo, Ma. Il numero non è raggiungibile.”

“Non riesci più a ingannarmi. Credi che crollerò, se mi dici la verità? E se anche la verità mi uccidesse, sono forse troppo giovane per morire?”

“Mi devi credere.” Sono stanco di cercare di convincerla che non le ho mentito, vorrei solo che Dotun si presentasse oggi e mettesse fine alle sue ansie.

“Ma quello che potrebbe uccidermi sarebbe sapere che tu e tuo fratello non avete mai fatto pace e che Dotun è sceso nella tomba senza averti perdonato.” Moomi sospira. “E io avrei potuto mettere un po’ di buon senso nelle vostre zucche, ma voi no, non mi avete detto per quale motivo avete litigato.”

“Te lo ripeto, abbiamo risolto tutto molto prima che partisse.”

È Dotun che ha bisogno che io lo perdoni, non il contrario. Ma lui ancora ritiene che io gli debba delle scuse, ne sono certo. E io mi sono reso conto, Yejide, di aver bisogno del tuo perdono. Stabilire se io debba perdonare Dotun o farmi perdonare da lui diventa secondario quando Moomi sparge le prime lacrime che vedo da quando è morto suo marito. Sono lacrime che non hanno niente a che vedere con mio padre – sono tutte per Dotun, il figlio prediletto.

“Come puoi dirmi che mio figlio è vivo, quando non è tornato a casa neanche per vedere seppellire suo padre, il suo stesso padre? Akin, tu mi stai ingannando, adesso sono sicura che mi hai ingannata per tutto questo tempo.” Le trema la voce ma non singhiozza, le lacrime scendono e basta.

“Moomi, smetti di piangere, per favore. Senti, scendiamo, così la veglia può iniziare. Sono già tutti seduti, sono quasi le quattro. Sono sicuro che arriverà durante la cerimonia.”

“Se non porti Dotun in questa stanza, io alla veglia non ci vengo.” Si toglie la sciarpa, la ripiega a formare un quadrato e la posa sul comodino.

“Moomi, ti stai agitando senza motivo. Sarà qui tra poco.”

Si stende sul letto, voltata verso il muro.

Questo ritardo mi fa pensare che Dotun è sempre lo stesso, quello che ha lasciato il paese senza informare nessuno della famiglia; quello che arriverà a funerale finito, senza scusarsi, poi farà una battuta aspettandosi che tutti ridano.

“Moomi, basta lacrime per favore, Dotun non è morto.” Guardo l’orologio, le quattro meno cinque. “Moomi, spero che tu mi stia ascoltando. Alle cinque, se Dotun non sarà ancora arrivato, iniziamo la veglia.”

“Senza di me?”

“Dirò al sacerdote di rimandare di un’ora. Di più non posso chiedere, Ma.”

“Il prete non comincerà senza di me.”

“Chiederò a Timi di venirti a chiamare poco prima delle cinque.” Mi alzo. “Ti prego, Moomi, stai serena.”

Scendo e torno in giardino dove hanno allestito i tendoni. Passando tra la folla chiassosa per raggiungere la prima fila, mi chino a salutare un po’ di gente; sempre guardandomi attorno in cerca del tuo viso.

Arrivato davanti, parlo con il sacerdote, poi comunico sottovoce alle mie matrigne che la cerimonia inizierà alle cinque. Mi avvio dietro al baldacchino senza rispondere alle loro domande su Moomi, sul perché non è scesa. Devo allontanarmi da questo chiasso, chiamare il becchino, farmi confermare che il luogo dove riposerà mio padre è pronto.

Proprio mentre esco da sotto il baldacchino un taxi di Lagos, giallo e nero, si ferma lì dietro. Sul sedile posteriore c’è Dotun, da solo. Scende dalla macchina, alza gli occhi e i nostri sguardi si incontrano. Anche lui sta perdendo i capelli, e la sua faccia è la versione inflaccidita di quella che ricordavo.

Resto fermo a guardarlo, le mani in tasca. Lui sosta un attimo accanto al taxi, poi viene verso di me. E per la prima volta in più di dieci anni, io e mio fratello ci troviamo faccia a faccia.

Cerco di pensare a qualcosa da fare, a qualcosa da dire. Lui mi batte sul tempo, si prostra sulla sabbia rossa. Rialzandosi dice due parole: “Fratello mi.”

Non so chi sia il primo a tendere le braccia, ma non è importante; ci abbracciamo, ridendo. Penso che uno di noi abbia le lacrime agli occhi.

Yejide, spero che sarà così anche per noi, quando arriverai. Se arriverai.