17
Quand’ero piccola, per mettere a letto i figli le mie matrigne raccontavano loro delle favole. Ma sempre dietro porte ben chiuse col catenaccio. Siccome non mi invitavano mai a entrare per ascoltarle, mi appostavo nel corridoio a spiare, da porte e finestre, nel tentativo di capire sera per sera quale fosse la voce che si sentiva meglio.
Mi consolavo dicendomi che, essendo orfana, potevo scegliere le storie che volevo. Se non mi piaceva il racconto che una delle mogli narrava ai suoi figli, mi bastava passare alla stanza accanto. Non ero intrappolata dietro le porte chiuse come i miei fratellastri. Ero libera, mi ripetevo. A volte non controllavo bene il pavimento, prima di sedermi, e finivo su qualche cacca di gallina o di capra. Alcune di quelle donne erano semplicemente molto sporche, e non si curavano di pulire la loro porzione di corridoio prima di chiudere per la notte.
I miei preferiti erano gli indovinelli, perché li sapevo tutti. La bacchetta che tocca insieme cielo e terra? La pioggia. Chi mangia con il re, senza toccare il piatto? La mosca. Mormoravo la risposta dal mio angolo in corridoio, di solito prima che qualcuno dei fratellastri la gridasse dall’interno. E quando chiedevano agli altri di applaudire quello che aveva risposto giusto, io sorridevo e arrossivo, come se davvero applaudissero me.
Mi univo ai cori che esplodevano nel bel mezzo di una storia, ma sempre sottovoce. Se mi avessero sentito, dall’altra parte, se una delle madri fosse uscita a controllare, mi sarei trovata in un bel guaio. Mi avrebbero strizzato le orecchie tirandole fino a farle scottare tanto da poterci bollire l’acqua. Nella nostra casa poligama, origliare non era solo maleducazione, era un crimine. Tutti avevano dei segreti, segreti che erano pronti a difendere con la vita. Imparai a camminare a passi felpati, a sentire se qualcuno si avvicinava alla porta durante la narrazione. Imparai ad ascoltare e a correre in camera senza far rumore.
La mia storia preferita era quella di Oluronbi e dell’albero di iroko. All’inizio mi riusciva difficile credere alla versione raccontata dalle matrigne. La loro Oluronbi era una venditrice del mercato, che aveva promesso la figlia all’albero di iroko in cambio dell’aiuto per vendere più di tutte le altre donne. Alla fine del racconto l’iroko si prendeva la bambina. Odiavo questa versione, perché non credevo che nessuno avrebbe mai scambiato un figlio per qualsiasi altra cosa. Per come la raccontavano le matrigne, quella storia mi sembrava insensata, perciò decisi di creare la mia versione. Ogni volta che una di loro la ripeteva, io aggiungevo qualche nuovo particolare. Dopo un po’, quando raccontavano la storia di Oluronbi io mi estraniavo per concentrami su quella che stavo costruendo io.
Questa fu la versione che raccontai alla mia Olamide. Incominciai a raccontarle storie appena se ne andò Moomi. A lei sarebbe sembrato strano che raccontassi favole a una neonata che non poteva capire quello che dicevo. Ma era tutta la vita che aspettavo di avere un bambino, un bambino mio, un bambino a cui poter raccontare le favole. Non ero disposta a rimandare un minuto di più. Gliele raccontavo di pomeriggio, quando eravamo sole in casa. Oltre a quelle che ricordavo dalla mia infanzia, ne inventai di nuove. Ma quella che le ripetevo più spesso era la mia versione di Oluronbi. E credo che a Olamide piacesse quanto a me.
Nella mia versione, Oluronbi era nata tanto tempo fa, quando gli uomini ancora capivano il linguaggio di alberi e animali. In famiglia, Oluronbi era molto amata, era la preferita di tutti. Era come l’acqua: nella sua famiglia non aveva nemici. Sua madre le voleva tanto bene che ogni giorno la portava con sé al mercato. Fu così che imparò il mestiere alla perfezione, e fin da bambina era capace di mandare avanti il banco. Oluronbi era una ragazza obbediente e bellissima. Non diceva mai bugie, non rubava mai niente; non sgattaiolava fuori la notte per andare a chiacchierare con i ragazzi dietro a qualche muretto.
Oluronbi viveva felice fino a quel giorno fatale. Suo padre doveva raccogliere una grande quantità di yam nella sua fattoria, ai margini di una foresta. Chiese perciò alla madre di Oluronbi e a tutti i figli di aiutarlo. Solo Oluronbi rimase a gestire il banco. Alla sera, tornata dal mercato, preparò una grande cena per tutti gli altri che erano andati alla fattoria. Poi si mise ad aspettare e aspettare che tornassero. Il sole scomparve nel cielo, ma gli altri ancora non tornavano. Il mattino dopo, allo spuntare del sole, Oluronbi andò al mercato. Pensava che la sua famiglia avesse deciso di passare la notte alla fattoria. Ma quando tornò, di nuovo non c’era nessuno in casa. Poiché c’era ancora un po’ di luce in cielo, corse verso la foresta fino alla fattoria del padre. Nessuno. Cercò dappertutto, in lungo e in largo, chiamando uno per uno i componenti della famiglia. Non ebbe risposta.
Quando tornò al villaggio era ormai buio. Rientrò in casa, e visto che anche lì non c’era nessuno, cominciò a bussare a tutte le porte chiedendo se qualcuno avesse visto la sua famiglia. Quella notte, mentre il sole dormiva, Oluronbi andò di casa in casa nel villaggio per chiedere se qualcuno avesse visto i suoi parenti. Nessuno sapeva dove fossero.
Non appena il sole spuntò per iniziare il suo lavoro nel cielo, Oluronbi andò al palazzo del re, a riferire quello strano avvenimento. Il re inviò nella foresta una squadra di ricerca. Oluronbi non lasciò la reggia fino al ritorno degli uomini, due giorni dopo. La ricerca era stata infruttuosa.
“Forse la tua famiglia ha deciso di lasciare il villaggio” disse il re a Oluronbi.
Oluronbi lo supplicò di mandare i cacciatori più coraggiosi del villaggio, perché si inoltrassero nel folto del bosco. Il re acconsentì, ma dopo cinque giorni i cacciatori ritornarono a mani vuote. Nemmeno loro erano riusciti a trovare la famiglia di Oluronbi. Il re consigliò alla ragazza di darsi pace, perché non c’era altro che si potesse fare. “Forse la tua famiglia ha deciso di lasciare il villaggio” ripeté.
Oluronbi non gli credette; sapeva che i suoi non l’avrebbero mai abbandonata. Decise allora di riprendere a cercarli nella foresta. Ogni giorno si inoltrava sempre di più, chiedendo a tutti gli alberi se avessero visto la sua famiglia. Ma gli alberi si rifiutavano di risponderle.
Poi un giorno chiese a Iroko, il re degli alberi.
“Io lo so dov’è la tua famiglia” disse Iroko.
“Sono vivi? Dimmi: sono ancora vivi?” chiese Oluronbi.
“Sì, sono ancora vivi” disse Iroko. “Ma non so quanto potranno resistere ancora.”
Oluronbi si mise a urlare. “Iroko, dimmi dove sono, che io possa subito andare a salvarli!”
“No” disse Iroko.
“Ti prego, Iroko, dimmi dove sono. Farò qualsiasi cosa. Tutto quello che mi chiederai, lo farò.”
“Non se ne parla” disse Iroko.
“Ti supplico, Iroko. Ti darò tutto quello che vuoi, qualsiasi cosa mi chiedi, dimmi solo dove sono.”
“Tutto quello che voglio?” chiese Iroko.
“Qualunque cosa.” Oluronbi era in ginocchio davanti all’albero.
“Voglio il tuo primo figlio” disse Iroko.
“Ma, Iroko, io non ho figli” disse Oluronbi. “Chiedimi qualsiasi altra cosa, e te la darò. Vuoi una mucca?”
“No” disse Iroko. “Voglio il tuo primo figlio.”
“Vuoi una capra? Posso procurarmi una capra molto grossa.”
“No” disse Iroko. “Voglio il tuo primo figlio.”
“Ma io non ho un figlio da darti” disse Oluronbi. “Non sono neanche sposata.”
“Adempirai il tuo voto quando avrai un figlio” disse Iroko.
Oluronbi rimase a lungo in silenzio. Era in ginocchio davanti all’albero, e pensava alla sua famiglia, a suo padre, sua madre, i suoi fratelli, le sue sorelle... tutti scomparsi.
“D’accordo” disse Oluronbi. “Ti darò il mio primo figlio.”
“Giuralo” disse Iroko.
“Giuro che ti darò il mio primo figlio.”
“Devi andare a giurarlo davanti al re del tuo villaggio” disse Iroko. “Quando tornerai, ti dirò dove sono.”
Oluronbi corse al villaggio e giurò davanti al re che avrebbe dato il suo primo figlio a Iroko, se l’albero le avesse rivelato dov’era la sua famiglia perduta.
Quando ritornò nella foresta, tutta la sua famiglia era accanto a Iroko.
Era così felice, li abbracciò tutti. “Dove siete stati?” chiese Oluronbi. “Che cosa è successo?”
“Non ce lo ricordiamo” risposero gli altri.
“Come hai fatto a trovarli?” chiese Oluronbi a Iroko.
“Questo è un segreto della foresta” rispose l’albero. “Non potrò mai rivelartelo.”
“Grazie” disse Oluronbi.
“Non dimenticare il tuo voto” disse Iroko.
“Non lo dimenticherò mai” promise Oluronbi.
Oluronbi tornò al villaggio con tutta la famiglia. Ogni volta che ripensava alla promessa fatta a Iroko, aveva una gran paura. Smise di andare nel bosco a raccogliere la legna per cucinare; smise di andare nel bosco a raccogliere le erbe da vendere.
Passarono molti anni, e Oluronbi non rivide più Iroko.
Ma ogni volta che qualcuno del suo villaggio andava nella foresta, Iroko chiedeva notizie di Oluronbi.
“Cosa fa Oluronbi?” chiedeva l’albero.
“Domani entrerà nella casa di suo marito. Anzi, questi rametti che sto raccogliendo serviranno per cucinare il pranzo di nozze.”
“Come sta Oluronbi?” chiedeva Iroko. “Le piace la casa di suo marito?”
“Oluronbi è troppo fortunata, ha sposato l’uomo migliore del mondo. Pensa, è già incinta. È molto felice. Magari io fossi fortunata come lei. Perché a me è toccato di sposare quello stupido di mio marito?”
“Come sta Oluronbi?” chiedeva Iroko.
“Non l’hai saputo? Ha appena avuto una bambina. L’hanno chiamata Aponbiepo.”
“Come sta Aponbiepo?” chiedeva Iroko.
“È la più bella bambina del villaggio. Ha la pelle così chiara, così immacolata. Mai visto niente di simile. Non c’è bisogno di chiedere se è la figlia di Oluronbi, è identica alla madre, da capo a piedi. Magari mia figlia fosse così bella! Come sono disgraziata!”
Quando Aponbiepo si fece più grande, le insegnarono a non andare mai nella foresta. Tutte le mattine Oluronbi avvertiva sua figlia che non le si doveva neanche avvicinare.
Ma un giorno che Aponbiepo stava giocando con i suoi amichetti, quelli decisero di andare nel bosco.
“Vieni con noi” le dissero.
“Mia madre dice che non devo mai entrare nella foresta” disse Aponbiepo.
“Ma ci sono degli alberi bellissimi, dai dolci frutti.”
“Mia madre dice che non ci devo andare.”
“Perché?” le chiesero.
“Non lo so.”
Gli altri bambini si misero a ridere. “Vuoi dire che non sei mai stata nella foresta?”
“No.”
“Mai in tutta la vita?”
“No” rispose Aponbiepo.
Gli altri bambini non la smettevano più di ridere. “E quindi non l’hai mai vista, la foresta?”
“No.”
“Non hai mai visto il cervo?”
“No.”
“Non hai mai visto l’altissimo Iroko che è il re di tutti gli alberi?”
“No.”
“Allora non hai visto niente; non sai niente. Non hai visto niente, in tutta la tua vita” dissero quelli.
“Ciao ciao” dissero gli altri bambini. “Noi andiamo, andiamo nella foresta. Prenderemo dei ramoscelli e mangeremo frutti dolci. Andremo a salutare Iroko, il re degli alberi.”
“Vengo anch’io, vengo anch’io” disse Aponbiepo. “Portatemi con voi. Voglio vedere il re degli alberi.
I bambini andarono nella foresta e quella fu l’ultima volta che chiunque vide Aponbiepo. Gli altri bambini tornarono al villaggio con i ramoscelli. Non si accorsero che Aponbiepo non era con loro fino a quando non arrivò Oluronbi a chiedere: “Dov’è mia figlia?” Cercarono Aponbiepo in ogni angolo del villaggio, ma nessuno riuscì a trovarla. L’unico posto rimasto per cercarla era la foresta.
Quando Oluronbi entrò nella foresta, Iroko si rifiutò di rivolgerle la parola. Oluronbi pregò e supplicò, ma Iroko non volle parlare. Oluronbi non vide mai più la sua bambina e da allora gli alberi smisero di parlare con gli uomini.
Il motivo per cui facciamo certe cose non sempre è quello che poi ricordiamo. Io penso che facciamo dei figli perché vogliamo lasciare dietro di noi qualcuno che possa spiegare al mondo chi eravamo, quando non ci saremo più. Se davvero un tempo è esistita una Oluronbi, credo che dopo aver perso Aponbiepo non abbia più avuto figli. Sono convinta che la versione della storia che le è sopravvissuta sarebbe stata più buona con lei, se avesse lasciato dietro di sé qualcuno che modificasse il modo in cui tutti la ricordavano. Raccontai molte storie a Olamide, pensando che un giorno anche lei, a sua volta, avrebbe raccontato al mondo la mia storia.