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Due settimane prima che i rapinatori ci scrivessero una lettera, un nuovo salone aprì proprio di fianco al mio. La proprietaria era Iya Bolu, una cicciona analfabeta che infilava rutti tra una parola e l’altra. Quando ti diceva buongiorno, ti facevi un’idea precisa di quello che aveva mangiato a colazione, e rimediavi anche lo spruzzo di saliva che seguiva ogni sua parola. Le bambine schizzavano fuori dal suo salone come acqua da una fontana, sporcando tutto il vialetto che avevamo in comune. Erano dappertutto – gattonavano, o stavano sedute o gironzolavano lì attorno. Erano tutte femmine, e avevano i capelli sporchi. La più grande era sui dieci anni, la più piccola ne avrà avuti quattro: sei figlie in sei anni. Nella prima settimana dal suo arrivo detestai quella donna al punto che, in un attimo di follia, pensai seriamente di trasferire il negozio da qualche altra parte.

Iya Bolu strillava continuamente alle figlie. E le sue poche clienti, quando tornavano a casa, avevano sui capelli più saliva che fissatore. Aveva un paio di clienti al giorno, e a volte neanche quelle. Per quanto tentasse di attirare le mie signore salutandole con troppe parole e larghissimi sorrisi, evidentemente quella fontanella di saliva che era la sua bocca le teneva alla larga. Ben presto cominciò a passare un sacco di tempo nel mio negozio. Arrivava poco prima di pranzo per poter sentire il notiziario di mezzogiorno alla radio. La radio non solo era vecchia, si era fatta anche capricciosa. A volte, per ottenere una ricezione più limpida, Iya Bolu doveva mettersi in piedi a reggere l’antenna. Finito il notiziario si accomodava su una sedia che cigolava sotto il suo peso e dispensava consigli non richiesti sulle acconciature.

Fu lei a portarmi le lettere che la sua famiglia aveva ricevuto dai rapinatori. I suoi parenti abitavano nel nostro stesso complesso, e tutti quanti lì da noi avevano ricevuto una lettera dai ladri. Mi chiese se potevo leggergliela, dopo che clienti e lavoranti fossero andate via.

Era dello stesso stile di quella indirizzata a noi; la sola differenza era nell’indirizzo e nell’intestazione.

Cari signori Adio,

Vi salutiamo nel nome del Revolver.

Vi scriviamo per informarvi che prima della fine dell’anno faremo visita alla vostra famiglia.

Preparateci un pacchetto. Accetteremo un importo minimo di mille naira. Vi daremo il tempo per mettere insieme il denaro. Vi scriveremo di nuovo per comunicarvi la data esatta della nostra visita.

“Non c’è altro?”

“No.”

Aggrottò la fronte. “Devo pensarci sopra. Dove vogliono che troviamo tutti quei soldi? Basterebbero per comprare una macchina.”

“Sono sicura che è uno scherzo. È una stupida buffonata, jare” le dissi io.

Era molto prima che questo genere di cose diventasse ordinaria amministrazione. Allora non potevo immaginare che un giorno in Nigeria i rapinatori sarebbero stati così sfacciati da scrivere alle vittime perché potessero prepararsi alle loro aggressioni, che un giorno si sarebbero seduti nei salotti, dopo aver stuprato donne e bambini, e avrebbero chiesto alle vittime di pestare lo yam e preparare una zuppa di egusi mentre loro guardavano i film con il videoregistratore che poi avrebbero scollegato e portato via.

Solo pochissime persone come Iya Bolu pensavano che le lettere fossero vere. Io lo attribuivo al fatto che non fosse istruita. Alla prima lettera non diedi nessun peso. Non la feci nemmeno vedere ad Akin. Avevo altro per la testa. Dopo che Funmi si era trasferita da noi avevo incominciato ad andare da uno psichiatra, tutti i mercoledì. Non avevo mai sentito parlare di pseudociesi prima di allora e anche se a me sembrava una parola inventata, tutte le settimane andavo all’appuntamento e gradualmente il mio corpo cominciò a tornare alle sue dimensioni normali.

Presi l’abitudine di andare e tornare a piedi dal lavoro perché lo psichiatra raccomandava di fare esercizio fisico. In realtà trovavo rilassante camminare per quel breve tratto che mi allontanava da Funmi e mi riportava da lei. Cercavo di concentrarmi sul negozio, ma era difficile non notare i cambiamenti che stava apportando al salotto. Aveva spostato le poltrone e piazzato a centrotavola un vaso di fiori di plastica. Io facevo del mio meglio per evitare di incontrarla e passavo quasi tutto il tempo al piano di sopra. Akin era molto occupato in ufficio e di solito rientrava quando io già dormivo della grossa, ma nei fine settimana voleva parlare di come andava la terapia. Per farlo contento gli assicuravo che non c’erano più giorni e neanche momenti in cui ero convinta di essere incinta.

Iya Bolu divenne una presenza fissa nel mio salone. Nelle ore di lavoro dormiva, russava a bocca aperta mentre le figlie gironzolavano lì attorno, e si alzava solo per andarsi a mettere vicino alla radio quando iniziava il notiziario.

Poi ricevemmo altre lettere dai rapinatori, e le giornate cominciarono ad accelerare come una videocassetta in fast-forward. Questi messaggi erano molto diversi dai primi. Non contenevano quel testo uguale per tutti che avrebbe potuto buttar giù un adolescente annoiato. Erano personalizzati, rivolti a ciascuna famiglia da persone che dovevano averci osservati e studiati, che forse vivevano tra noi.

I rapinatori facevano gli auguri agli Agunbiade per la nascita delle due gemelle. Si complimentavano con gli Ojo per la nuovissima station wagon Peugeot 504 che si erano appena comprati, consolavano i Fatola per la perdita del titolo di capoclan e consigliavano gli Adio (la famiglia di Iya Bolu) di pensare alla pianificazione familiare. Promettevano di farsi vedere nel giro di tre settimane, consigliavano a tutti di non allontanarsi dal complesso e giuravano di darci la caccia se avessimo osato traslocare. Sapevano così tante cose su di noi da convincerci che, se avessimo cercato di scappare dal caseggiato, loro ci avrebbero scovati. I nostri cuori si fermarono per riprendere a un ritmo violento e fortissimo. Sobbalzavamo per i topi che scappavano e smettemmo di andare a passeggio di sera. Persino i bambini facevano meno chiasso.

Il comitato del complesso assunse un gruppo di cacciatori per la sorveglianza. Prima delle minacce non esisteva nessun comitato di complesso. Eravamo tutti così istruiti e moderni nelle nostre villette a due piani, incontrandoci in città ci salutavamo con un colpetto di clacson. Ci andavamo a trovare quando era necessario, per le cerimonie del nome, i compleanni, qualche funerale ogni tanto. Ma non ci mandavamo a vicenda ciotole smaltate con yam pestato e zuppe di egusi a Natale, né distribuivamo montone fritto a Ileya. Piuttosto, ci facevamo gli auguri di “Buon Natale” e “Ramadan karim” senza scendere dal portico e salutavamo con la mano quando salivamo in macchina o entravamo in casa.

Ma quando arrivò la seconda serie di lettere dei ladri si costituì il comitato del complesso. Tutti quanti parteciparono. La prima riunione ufficiale fu alquanto turbolenta ma riuscimmo a metterci d’accordo per assoldare cinque poliziotti e un gruppo di cacciatori in aggiunta ai vigilantes. Decidemmo anche di versare tre naira per ogni abitazione, come contributo per la sicurezza. Akin e il signor Adio furono inviati immediatamente alla centrale di polizia per chiedere che ci mandassero gli agenti.

Il giorno dopo, il comitato ricevette una lettera dai rapinatori. Scrivevano che la polizia era sul loro libro paga. Ci ridemmo su e annuimmo convinti, durante la riunione dei residenti, quando il signor Fatola (ex capo Fatola) disse che eravamo stati più furbi dei ladri e che il loro ultimo messaggio ne era la prova. La settimana successiva i poliziotti ripresero servizio. La vista degli agenti con le armi automatiche e dei cacciatori con i fucili danesi che pattugliavano il complesso ci rassicurava, e ben presto ci scordammo delle lettere.

Poi Iya Bolu convocò un incontro delle “donne del complesso.”

Era la prima volta che entravo in casa sua. Mi sorprese scoprirla così pulita e ordinata. Da quel che avevo visto di Iya Bolu al salone mi aspettavo che il salotto puzzasse di urina stantia e che fosse cosparso di pannolini usati. Invece c’era un profumo fresco e frizzante, come di limetta. Dal modo in cui le altre si guardavano attorno capii che anche loro si erano aspettate qualcosa di simile. Nessuna delle figlie si fece vedere per tutto l’incontro. Continuavo a chiedermi se le avesse nascoste in una camera o in una scarpiera.

Quando anche l’ultima donna si fu seduta, Iya Bolu diede inizio alla riunione. “Dobbiamo essere preparate per i ladri. Questa è gente che stupra, violentano i bambini. Dobbiamo armarci di assorbenti.” A ogni parola i suoi occhi si spalancavano sempre di più, finché parve che potessero schizzar via e rotolare sotto una sedia.

“Di assorbenti? Ci mettono dentro le pallottole, adesso?” chiese la signora Fatola, scuotendo la testa.

Una delle donne rise, poi un’altra, e in un attimo ridevamo tutte tranne Iya Bolu, che sembrava sul punto di mettersi a piangere.

“Chiudete il becco!” urlò. “Io ho sei figlie, lo sapete cosa significa? Alla prima sta già spuntando il seno. Anche qualcuna di voi ha delle figlie, ragazze che hanno già iniziato ad avere il ciclo. Con questi ladri può succedere di tutto, e ci avete pensato a voi stesse? Quanti dei vostri mariti si farebbero sparare per non lasciarvi stuprare da una banda di rapinatori? Sono sicura che stanno già cercando il modo di nascondersi in soffitta.”

“Non verrà nessun ladro, abbiamo i poliziotti” disse la signora Ojo. Aveva studiato un anno in Inghilterra e ostentava sempre un accento finto British, anche quando parlava yoruba.

“Sì, non è il caso di metterci paura inutilmente” dissi io.

La signora Fatola applaudì. Nessun’altra si unì all’applauso.

Iya Bolu rispose sibilando: “Lasciatemi dire la mia. Inzuppate gli assorbenti nel vino rosso o in un infuso di zobo. Mettetevelo sempre la notte, nel caso che arrivi questa gente, così se vengono penseranno di vedere il sangue del mese.”

“Ma questa è pazza? E anche se avesse ragione, tutte le donne di un intero complesso con le mestruazioni nello stesso periodo? Chi ci crederebbe?” disse in inglese la signora Ojo con il suo soffocato accento britannico.

La signora Fatola scosse la testa e si alzò.

“È perché è analfabeta – una mente immiserita, devo dire” aggiunse la signora Ojo.

“Non ho tempo per queste cose, devo andare a lavorare” disse la signora Fatola.

“Cosa dicono?” mi chiese Iya Bolu.

“Non c’è da preoccuparsi, stai tranquilla” le dissi in yoruba. “Abbiamo la polizia.”

“E dimmi, la polizia ha aiutato Dele Giwa?”

La signora Fatola ricadde sulla sedia come se a spingerla fosse stato il peso delle parole di Iya Bolu. Nella stanza piombò il silenzio e la signora Ojo si guardò attorno, quasi temesse che un agente segreto ascoltasse la nostra conversazione.

Nei mesi successivi all’assassinio di Dele Giwa, nelle stanze tutti ammutolivano ogni volta che si faceva il suo nome. Non contava che nessuna delle donne nel salotto di Iya Bolu dirigesse una rivista di attualità: il destino di Giwa sembrava comunque qualcosa che sarebbe potuto capitare a chiunque di noi, perché la bomba che lo aveva ucciso era stata consegnata a casa sua, in un pacchetto. Ricevere un pacco era una cosa così innocua e consueta, che tutte noi ci potevamo facilmente immaginare nell’atto di aprirne uno in casa nostra. E per quanto non riuscissi a raffigurarmi un pacco indirizzato a me con l’adesivo dello stemma nigeriano e la scritta Dall’ufficio del C. in C., sapevo che se anch’io, come il figlio di Giwa, avessi ricevuto pacchetti simili in passato, spediti a mio padre dal capo di Stato, non avrei esitato a portarglieli nel suo studio. Quando Giwa, che era in compagnia di un collega, aveva ricevuto il pacchetto, aveva detto Dev’essere del Presidente, e l’aveva aperto appena il figlio era uscito dalla stanza. Era morto in ospedale la sera dello stesso giorno, mentre il suo collega ferito era sopravvissuto.

“A essere sincera” disse la signora Fatola, “io adesso chiedo alla cameriera di aprire le nostre lettere, anche quelle dei cosiddetti rapinatori.”

Io non avevo preso precauzioni con le lettere ricevute dalla mia famiglia. Quando Dele Giwa era stato ucciso ero impegnata a restare in casa per conservare le energie ed essere abbastanza forte da spingere quando fosse arrivato il bambino. Non prestavo attenzione ai notiziari. Quando ero tornata al lavoro, la morte di Giwa aveva insegnato alla Nigeria a temere i suoi capi. Ma probabilmente, avendo saputo degli eventi solo in seguito, non ero abbastanza terrorizzata da smettere di aprire la posta.

Nel salone, Iya Bolu mi tormentava per sapere il contenuto della lettera mandata alla mia famiglia. Andava in giro a chiedere a tutte le signore i particolari delle loro, poi si sedeva nel mio negozio e cercava di immaginare che cosa volessero i rapinatori da ciascuno. Sembrava tenerci moltissimo a proteggere tutti noi da quella che considerava la devastazione imminente. Ci teneva davvero.

Le raccontai in ogni dettaglio la lettera indirizzata a me e Akin. I rapinatori ci dicevano di non andar via dal complesso per trasferirci nell’appartamento di Funmi, nel tentativo di evitarli.

“Come fanno a sapere della casa della tua rivale? Te lo dico io, questi sono veri, e verranno” disse Iya Bolu.

Era così spaventata che a volte la sua preoccupazione mi commuoveva, altre le sue paure mi irritavano. Non vedeva i poliziotti che facevano la guardia nel complesso?