31 Ilesa, dicembre 2008

Arrivo a Ilesa poco prima di mezzanotte. Io e l’autista andiamo di albergo in albergo, poi di motel in motel, perché a quanto pare tutto il paese questo venerdì si è riversato qui. Non troviamo un buco finché non arriviamo ad Ayeso, l’ultima zona della città che avrei scelto, perché è troppo vicina alla casa di tuo padre. Ma da qualche parte devo pur dormire, e prendo l’unica stanza libera della Beautiful Gate Guest House. Chiedo per favore all’addetto di permettere a Musa di dormire sul divano in quello che sembra un ex salotto, ora adattato a reception.

Sono stanca, ma non riesco a dormire. Esco dalla camera per affacciarmi alla balconata adiacente, e da qui riesco a vedere la tua casa paterna. È proprio qui di fronte, subito dopo il punto in cui la strada asfaltata sprofonda nella valle. Riconoscerla è facile perché, insieme a questa locanda, è l’unico edificio con le luci accese grazie al generatore. Fuori sono parcheggiate diverse macchine, in doppia fila sulla strada principale. C’è gente che mangia in terrazza; c’è gente dappertutto. Da dove mi trovo non si vede il giardino sul retro, ma da quel punto vedo salire del fumo. Dovrei essere lì anch’io, adesso, a vegliare sullo stufato che bolle e a dire ai cuochi assunti per l’occasione di girare la carne che sfrigola prima che si bruci, ad accertarmi che inizino la cottura del riso jollof entro le cinque del mattino, lo yam e lo stufato entro le sei, così che tutti abbiano modo di mangiare prima di andare in chiesa per il funerale. È questo che fanno le mogli; io l’ho fatto tante volte, ti ricordi? Hai mai fatto caso agli sforzi che facevo?

Perché mi hai invitata a queste esequie? E come diamine hai fatto a sapere dov’ero? Credevo che mi avessi cancellata, come la maestra cancella i vecchi appunti dalla lavagna con uno strofinaccio. Poi mi è arrivato quel biglietto, con la posta, e le parole stampate mi invitavano, in qualità di ospite di Akinyele Ajayi. Guardo la dimora di famiglia, nella speranza di riconoscere qualcuno, uno almeno di quelli che una volta consideravo i miei parenti, in questo posto che una volta consideravo casa mia. Ma la casa è troppo lontana. Vedo le persone ma non la loro faccia, e uno qualunque di quegli uomini potresti essere tu. Fuori ci sono ancora i tendoni; immagino siano rimasti dalla veglia che si è tenuta stasera. Non avevo intenzione di partecipare, di ascoltare te e i tuoi fratelli raccontare menzogne accuratamente studiate riguardo al tuo compianto padre, tra un inno e l’altro.

Immagino benissimo le parole pacate che avrai detto stasera, le banalità che ci si aspetta da un primogenito. Le avrai pronunciate molto bene, avrai commosso qualcuno fin quasi alle lacrime. Quelli che non conoscevano tuo padre saranno stati tentati di piangere amaramente perché il mondo aveva perso una simile gemma alla tenera età di novant’anni. Tua madre, come sempre, sarà stata orgogliosa. Siccome avrai parlato per primo, nessuno dei tuoi fratelli sarà stato all’altezza delle tue abilità di oratore, nessuno potrebbe esserlo neanche se avesse avuto un anno intero di tempo per prepararsi. Resto sulla terrazza finché nella casa di tuo padre si spengono le luci, poi torno in camera e mi addormento all’istante.

Prima delle sei sono già sveglia. Il pavimento è freddo, e quando esco sulla terrazza il gelo mi si insinua tra le gambe. Nella casa della tua famiglia sembra che nessuno sia andato a letto. Forse hai chiuso la casa di Imo e stanotte hai dormito qui. Mi accomodo su una poltroncina di plastica e resto a guardare. Non ho fretta di prepararmi, perché non presenzierò alla cerimonia in chiesa.

Il cantore dell’elogio funebre arriva verso le sette con un mini-megafono. Si ferma giù in strada e comincia a cantilenare, prima esaltando il popolo di Ilesa, a cui appartiene tuo padre. Ho imparato i versi di questo oriki poco prima di sposarti. Tua madre mi ha insegnato tutte le parole che sapeva, e io le ho imparate a memoria con devozione. Mi diceva di inginocchiarmi la mattina al risveglio, e di intonare i versi dell’ode al tuo lignaggio. Io invece preferivo salire su di te e sussurrarti quelle parole all’orecchio, ma a te non piaceva ascoltare poesie, né al mattino né in qualsiasi altro momento, così è stato Sesan a godersi la mia esecuzione. Il cantore adesso inneggia alla famiglia della tua nonna paterna. Ancora mi danno alla testa, queste parole su persone morte molto tempo prima che noi nascessimo.

Quando finalmente il canto arriva all’oriki di tuo padre, ho le lacrime agli occhi. Non so se sto piangendo per me stessa, per te, per tuo padre, per tutti questi anni passati o perché il cantore esegue i versi in modo meraviglioso. Accanto a lui c’è una donna – le mani levate in alto. Si vede che sta piangendo, e si agita con tutto il corpo tanto che il telo le scivola a terra. Lei non lo raccoglie. Le mie mani sulle guance sono fredde, mentre mi asciugo le lacrime.

I gemiti si levano altissimi quando la cassa di tuo padre, da dove mi trovo sembra bianca, viene portata fuori dalla casa. I lamenti in crescendo raggiungono il culmine quando i portatori si issano la bara sulle spalle. I presenti, a gruppetti di due o tre, si sorreggono a vicenda quasi avessero paura di crollare sotto il peso del dolore, se non si aggrappano a qualcuno. Una voce femminile trapassa il frastuono fino a raggiungere anche me. “Padre mio, è davvero finita? Davvero ci lasci? Non ti sveglierai? Nemmeno un saluto? Padre? Padre mio?”

I portatori iniziano la marcia verso il carro funebre; li guida l’assolo di un trombettista che suona Shall We Gather at the River. Anche il cantore prosegue il suo inno.

Ma j’okun ma j’ekolo

Ohun ti won ba n je l’orun ni o maa ba won je

La piccola folla che si è raccolta davanti a casa tua si disperde. Molti salgono sulle auto parcheggiate, che iniziano a muoversi lentamente, formando un convoglio che segue il carro. Il primo a prendere velocità è un pick-up, dal cui finestrino si sporge un tale con una cinepresa a spalla. Il carro lo segue, con la sirena che annuncia la dipartita di tuo padre dal quartiere in cui ha trascorso gran parte della sua vita adulta. Qui non tornerà mai più: dopo le esequie sarà sepolto nel cimitero della chiesa di Ijofi. Parecchie lucidissime automobili seguono il carro, jeep e SUV, le macchine dei suoi figli e dei parenti stretti. Aspetto che sparisca anche l’ultimo veicolo prima di rientrare in camera.

Quando mi vesto, è più o meno il momento in cui tu sarai in piedi accanto alla fossa appena scavata, circondato dalla famiglia e dai sacerdoti. Sarai il primo dei figli a gettare una zolla nella tomba di tuo padre. I lamenti ricominceranno e mentre guarderai i becchini che iniziano a riempire la fossa di terra, persino agli uomini verrà da piangere. Coppie che da settimane non si rivolgono la parola si terranno per mano. Al funerale di mio padre io ero troppo sconvolta per piangere, ma tu avevi le lacrime agli occhi, anche se non ne hai lasciata scendere neanche una. Ti ho tenuto la mano, mentre tu tiravi su col naso e sbattevi a ripetizione le palpebre.

Akin, chi ti terrà la mano oggi, se ti metterai a piangere in silenzio?