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Mi avevano insegnato, e anch’io lo credevo, che l’istruzione migliore che il denaro potesse procurare fosse la cosa più importante che avrei potuto dare a mio figlio. Ero pronta a fare la schiava, se fosse stato necessario, per garantirgli una buona istruzione. Veneravo le lauree e le persone che le avevano ottenute. E più ne avevano, meglio era. Non appena pensai che fosse grande abbastanza, spedii mio figlio alla scuola elementare migliore della città, un istituto cattolico che gli avrebbe insegnato anche il timor di Dio.
Il giorno dopo la diagnosi avrei voluto che Sesan restasse a casa, a letto, dove avrei potuto nutrirlo, fargli vento, e anche solo guardarlo. Non mi importava se per il resto della vita mio figlio non sarebbe stato capace di stabilire se due più due faceva quattro. Non mi interessava più se non avesse parlato inglese senza quel pesante accento ijesa che era rimasto attaccato alla lingua di alcuni suoi zii. Non mi interessava che non diventasse un ingegnere o un avvocato, o un contabile come suo padre. E se per il resto della vita non avesse fatto altro che restare vivo, a me sarebbe bastato.
Durante la notte Dotun doveva avermi buttato addosso un telo. Poi era uscito senza dirmi dove andava. Né io glielo chiesi. Quando il sole cominciò a filtrare da uno spiraglio delle tende, mi legai il telo sul seno e diedi qualche colpetto a mio figlio per svegliarlo. Era ora di prepararlo per la scuola. Quel giorno ce lo lasciai andare, anche se non avrei voluto che uscisse dal mio campo visivo, perché una madre non fa quello che desidera, fa quello che è meglio per suo figlio.
Mentre lo portavo a scuola, mi tremavano le mani sul volante. Rimasi nel parcheggio a guardarlo correre in classe. Lui non lanciò neanche un’occhiata dalla mia parte.
Arrivata alla rotonda, parcheggiai davanti al tribunale, di fianco allo Owa’s Palace, ed entrai nella biblioteca comunale. Non c’era neanche un libro sull’anemia falciforme. Lessi moltissimi testi di biologia. Lessi del sangue, dei globuli rossi e dell’emoglobina. Lessi e rilessi quei manuali fino quasi alle due, quando fu ora di andare a prendere Sesan. Quella notte lo portai fuori dalla sua camera e lo reinsediai in quella che dividevo con Akin. Avrebbe dormito accanto a me, in modo che potessi vederlo e vegliarlo.
Dotun venne a trovarmi un sabato sera, sera in cui avrebbe dovuto essere fuori a bere come al solito, allo Ijesa Sports Club, grazie alla tessera di Akin. Non bussò; entrò e basta, come se stando dietro alla porta avesse visto che ero seduta sul letto con la schiena appoggiata al muro. Non lo avevo più visto da quella notte che aveva portato il mio corpo a un orgasmo dopo l’altro mentre mio figlio dormiva sul divano. Suo fratello era ancora via, doveva tornare entro qualche giorno.
Dotun aveva gli occhi iniettati di sangue, le iridi spiccavano sul tessuto arrossato.
“Parliamo” disse, in piedi accanto alla porta semiaperta.
“Vai via, per piacere.” Non volevo parlare con lui.
Si sedette ai miei piedi. Aveva l’aria dispiaciuta, colpevole e un po’ spaventata. Non riusciva neanche a sostenere il mio sguardo. Si concentrò invece sulla mia fronte, come se fosse uno schermo televisivo. Non avrei mai immaginato che Dotun il fanfarone conoscesse il significato dell’espressione senso di colpa. Un po’ di rimorso, me lo aspettavo; dopo tutto ero la moglie di suo fratello. Ma il modo in cui gli angoli della sua bocca si incurvavano verso il mento parlava di vergogna. La vergogna era un sentimento che mai avrei associato a lui. Lo avrei detto al di sopra di queste cose, con quel suo sorriso disinvolto, le osservazioni fuori luogo, il modo in cui si metteva le dita nel naso o si grattava le palle in pubblico.
“Quello che abbiamo fatto...”
“Non succederà mai più” dissi io.
“È solo che io... Io non so cosa mi abbia preso... il demonio... Akin...”
Era la prima volta che sentivo Dotun pronunciare il nome di suo fratello da solo, il nome e basta, spogliato dell’onore dovuto al fratello maggiore, senza il prefisso “fratello.” Non Fratello mi, non egbon mi o Fratello Akin – solo Akin, come se in qualche modo mio marito fosse diventato suo coetaneo in qualche momento durante quella settimana, forse mentre Dotun giaceva con me sul tappeto del soggiorno.
Mi chinai in avanti prendendogli la faccia tra le mani. “Tuo fratello non ne saprà mai niente.”
Le labbra rivolte all’ingiù adesso tremavano, sembrava sul punto di piangere. Strinsi così forte da affondargli le unghie nella pelle e sibilai: “Smettila di tremolare come una cintura di perline, o jare.”
Forse fu la colpa a sciogliergli la lingua, il bisogno di giustificare il desiderio che gli aveva lampeggiato negli occhi nel momento in cui la mia mano lo aveva accarezzato, un modo per giustificare il desiderio crudo che si sforzava di ingoiare. Forse aveva dato per scontato che io sapessi già quello che stava per dire, che conoscessi i segreti che Akin mi aveva tenuto nascosti mentre si dedicava ad alimentare le mie insicurezze.
Non volevo credergli, ma non potei opporre resistenza alla verità, non potevo negare le sue parole pronunciate a voce alta e fare la figura della scema. Dotun continuava a scusarsi. Io gli sorrisi, gli dissi che era tutto ok. Finalmente chiuse la bocca e si ritirò dalla stanza a testa china, come un criminale condannato.
Le sue parole furono un colpo – mi girava la testa, mi sentivo disorientata. Me le ripetevo mormorando, cercando di rimettere di nuovo insieme quelle frasi. Cercai di inserirle nel quadro che mi ero fatta del mio matrimonio, del mio rapporto con Akin dal primo momento che avevo posato gli occhi su di lui. Il passato si spalancò come un album di famiglia stregato, mostrandomi un’immagine familiare dopo l’altra, mettendo in risalto le cose che erano lì, in bella vista, ma che io non avevo mai visto. Le cose che mi ero rifiutata di vedere.