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Yejide fu creata di sabato, quando Dio aveva tutto il tempo per dipingerla di un ebano perfetto. È andata proprio così. L’opera finita è lì a dimostrarlo.

Quando la vidi la prima volta, volevo toccarle il ginocchio coperto dai jeans e dirle subito: “Mi chiamo Akin Ajayi e ti sposerò.”

Era elegante per natura. La sola ragazza della fila che non ciondolasse. Stava a testa alta, invece di pendere da una parte per appoggiarsi al bracciolo arancione. Seduta ben dritta, spalle indietro, le mani intrecciate sull’ombelico scoperto. Non riuscivo a credere di non averla notata al piano di sotto, in fila alla biglietteria.

Guardò alla sua sinistra qualche minuto prima che si spegnessero le luci; i nostri occhi si incontrarono. Non distolse lo sguardo come avevo pensato e io mi raddrizzai sotto i suoi occhi. Lei mi squadrò dall’alto in basso, mi valutò e mi sorrise prima di voltarsi a fissare lo schermo, ma non mi bastava. Volevo di più.

Sembrava non rendersi conto dell’effetto che faceva. Indifferente all’aria imbambolata con cui io la guardavo, ipnotizzato, mentre già pensavo alle parole migliori per convincerla a uscire con me.

Purtroppo non riuscii a parlarle subito. Le luci si spensero proprio nel momento in cui avevo trovato le parole che cercavo. E tra me e Yejide era seduta la ragazza con cui uscivo in quel periodo.

La ragazza che lasciai quella sera stessa, subito dopo il film. Nel foyer dell’Oduduwa Hall di Ife, mentre la folla venuta per vedere il film ci scorreva accanto.

Le dissi: “Senti, devi tornare all’ostello da sola. Ci vediamo domani.” E giunsi le mani per chiedere scusa, anche se non ero dispiaciuto. Non me ne sarei mai dispiaciuto. E la piantai lì così, a bocca aperta.

Mi feci strada tra la folla. In cerca della bella con i jeans, i sandali con la zeppa e la maglietta bianca che le scopriva l’ombelico. La trovai. E ci sposammo prima della fine dell’anno.

Yejide. Io l’ho amata fin dal primo momento. Non c’è dubbio. Ma ci sono cose che nemmeno l’amore riesce a fare. Prima di sposarmi credevo che l’amore potesse tutto. Ma presto scoprii che non poteva sopportare il peso di quattro anni senza figli. Sotto quel peso, se è troppo grande e lo porti troppo a lungo, anche l’amore si piega, s’incrina, arriva quasi a spezzarsi e a volte si spezza del tutto. Ma anche quando ce l’hai ai piedi in mille pezzi, non vuol dire che non sia ancora amore.

Dopo quattro anni, a nessun altro importava più niente dell’amore. Non a mia madre che parlava della mia responsabilità di primogenito nei suoi confronti. Mi ricordava quei nove mesi in cui il solo mondo che avevo conosciuto era dentro di lei. E gli ultimi tre mesi di sofferenze. Quando non riusciva più a stare a letto e doveva passare le notti su una poltrona piena di cuscini.

Ben presto, Moomi cominciò a parlare di Juwon, il mio fratellastro, il primo figlio della seconda moglie di mio padre. Da anni Moomi non lo portava più a esempio. Quand’ero molto più giovane non mi parlava che di lui. Juwon non torna mai a casa con la divisa sporca; perché tu hai la camicia sporca? Juwon non s’è mai perso i sandali per la scuola; tu, è il terzo paio che perdi, questo trimestre. Juwon ritorna sempre a casa per le tre; dov’è che vai tu dopo la scuola? Com’è che Juwon è tornato a casa con i premi e tu no? Sei il primogenito di questa famiglia, lo sai cosa significa? Ne hai idea? Vuoi che lui prenda il tuo posto?

Aveva smesso di parlare di lui quando Juwon aveva deciso di imparare un mestiere dopo le superiori perché sua madre non gli poteva pagare l’università. Immagino che Moomi abbia pensato che in nessun caso uno che si preparava a diventare falegname sarebbe stato all’altezza dei suoi figli laureati. Per anni non parlò più di Juwon, e sembrava avesse perso interesse per lui e la sua vita fino al momento in cui decise che mi dovevo prendere un’altra moglie. Allora mi disse, come se non lo sapessi già, che Juwon aveva fatto quattro figli, tutti maschi. E stavolta non si limitò a Juwon, ma mi fece presente che ormai tutti i miei fratellastri si erano riprodotti.

Dopo due anni che ero sposato con Yejide, mia madre cominciò a presentarmisi in ufficio ogni primo lunedì del mese. Non veniva da sola, ogni volta portava con sé una donna diversa, una potenziale seconda moglie. E non saltava mai un primo lunedì. Nemmeno quando era malata. Avevamo un accordo: finché le permettevo di portare le donne nel mio ufficio, non avrebbe messo in imbarazzo mia moglie presentandosi in casa nostra con la candidata di turno e non avrebbe parlato con Yejide dei tentativi che stava facendo.

Quando poi minacciò che, se non ne sceglievo una nel giro di un mese, avrebbe cominciato ad andare a trovare mia moglie tutte le settimane con una donna diversa, mi toccò prendere una decisione. Sapevo che mia madre non minacciava mai a vuoto. Sapevo anche che Yejide non avrebbe potuto sopportare quel tipo di pressione, si sarebbe spezzata. Della processione di ragazze che mia madre mi aveva portato ogni mese, Funmi era l’unica a non insistere per trasferirsi in casa nostra con Yejide. Funmi era la scelta più ovvia perché non voleva troppo da me. Almeno all’inizio.

Era un facile compromesso. Aveva accettato un appartamento separato a miglia di distanza da me e Yejide. Non chiedeva più di un weekend al mese e un mensile ragionevole. Era d’accordo che non sarebbe mai venuta con me a feste e a eventi pubblici.

Non vidi Funmi per mesi dopo aver accettato di sposarla. Le dissi che avevo tanto da fare al lavoro e che per un po’ non sarei riuscito a frequentarla. Qualcuno doveva averle detto che “la moglie paziente alla fine conquista il cuore del marito.” Non litigò con me, ma si limitò ad aspettare che accettassi l’idea che ormai faceva parte della mia vita.

Con Yejide era stato tutto più immediato. Per un mese dopo averla incontrata passai due ore al giorno in macchina per stare un po’ con lei. Uscivo dall’ufficio alle cinque e guidavo per mezz’ora fino a Ife. Poi ci voleva un altro quarto d’ora per attraversare il centro e arrivare all’ingresso dell’Università. In genere entravo nella stanza F101 della Moremi Hall circa un’ora dopo essere partito da Ilesa.

Tutti i giorni così, finché una sera Yejide uscì in corridoio e si chiuse la porta alle spalle invece di farmi entrare. Mi disse di non tornare mai più, che non mi voleva più vedere. Ma io non mi diedi per vinto. Tutti i giorni per undici giorni mi presentai alla F101, sorridendo alle sue compagne di stanza e cercando di convincerle a farmi entrare.

Il dodicesimo giorno venne alla porta quando bussai. Uscì con me in corridoio. E lì la scongiurai di dirmi cosa avevo fatto di male. Ci colpì una zaffata di odori misti di cucina e di gabinetto.

Si scoprì che la ragazza con cui uscivo prima di incontrare lei era andata a minacciarla nella sua stanza. E aveva detto a Yejide che c’eravamo sposati con un matrimonio tradizionale.

“Non mi interessa la poligamia” mi disse Yejide quella sera, spiegandomi finalmente quello che era successo.

Un’altra ragazza avrebbe trovato un giro di parole per dire che voleva essere la sola moglie. Ma non Yejide. Lei era una diretta, una onesta.

“Nemmeno a me” le dissi.

“Senti, Akin. Lasciamo perdere. Questa cosa... noi. Questa cosa.”

“Non sono sposato. Guardami. Dai – guardami. Se vuoi, andiamo nella stanza di quella ragazza adesso, subito, e io la affronto e le chiedo di farci vedere le foto del matrimonio.”

“Si chiama Bisade.”

“Non m’importa.”

Yejide non disse niente per un po’. Rimase appoggiata alla porta, a guardare la gente che andava e veniva per il corridoio.

Le toccai la spalla; non si scostò.

“Allora sono stata stupida” disse.

“Mi devi delle scuse” dissi io. Così, per dire. Nel nostro rapporto allora non importava chi avesse ragione e chi torto. Non eravamo arrivati al punto in cui stabilire a chi toccava scusarsi poteva scatenare un’altra lite.

“Scusa. Sai com’è la gente... Scusa.” E si appoggiò a me.

“Va bene” sorrisi io, mentre lei tracciava col pollice circoli invisibili sul mio braccio.

“Allora, Akin. Adesso mi puoi confessare tutti i tuoi segreti, quelli sporchi e quelli puliti. Magari c’è una donna con dei figli tuoi, da qualche parte...”

C’erano cose che avrei potuto dirle. Che avrei dovuto dirle. Sorrisi. “Ho un po’ di calzini e di mutande sporche, e tu? Hai mutandine sporche tu?”

Scosse la testa.

E finalmente dissi le parole che mi bruciavano sulla lingua dal primo momento... o una loro variante. Le dissi: “Yejide Makinde, io ti sposerò.”