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Quando mio suocero invitò me e Akin a una riunione di famiglia, prima ancora di arrivare ad Ayeso sapevo già che doveva essere stata Moomi a insistere perché convocasse il cosiddetto comitato d’emergenza. Reggendo Rotimi davanti a me a mo’ di scudo entrammo in salotto e andammo a sederci vicini su un divano marrone. Era un divanetto piccolo e per la prima volta da quando aveva sorpreso Dotun sopra di me, Akin mi sedeva accanto – eravamo così vicini che lo sentivo respirare. Dotun era già lì, seduto di fianco a suo padre, quando arrivammo. Non lo avevo più visto da quando era stato dimesso dall’ospedale.

Moomi fu la prima a parlare: “I miei figli sono qui per spiegare perché hanno fatto a botte, perché non hanno portato qualsiasi disaccordo avessero davanti alla famiglia, per appianare le cose. Sono qui per spiegare perché vogliono gettare la vergogna sulla famiglia e far sì che diventiamo bersaglio dei pettegolezzi al mercato.”

“No, fermati. Parla per te, Amope. Hanno fatto vergognare te. Il mondo intero sa che il mio è un nome senza macchia a Ijesaland” disse il padre di Akin.

“Ah, è così che la metti adesso, Baba? Adesso sono figli miei? Uomo inutile che sei, certo che sono figli miei, tu per loro non hai mai speso un kobo. Io ho pagato le rette della scuola, ho comprato le divise, e quando si sono laureati tu ti sei fatto vedere solo per le foto. Ma adesso sono tornati a essere figli miei?”

“Perché, non sono tuoi? Li hai rubati all’ospedale?” Il padre di Akin agitò un dito davanti alla faccia di Moomi. “Ha! Sei venuta a dirci questo, che li hai rubati al reparto, abi?” E rise alla sua battuta.

“Ma questo non è colpa tua” sibilò Moomi. “Sono i figli dell’albero di aranci a far sì che la loro madre venga aggredita a colpi di bastoni e di pietre. Stupidi figli, dateci una spiegazione – spiegatevi. Tirate fuori le parole che tenete nascoste in bocca.” Fissò con occhi di fuoco prima Akin poi me, agitando davanti a noi le mani artritiche, come enormi artigli.

Dotun si schiarì la voce. La mano sinistra ancora al collo, aveva la testa fasciata e un lato della faccia pieno di piccoli punti di sutura.

“Abbiamo litigato per i soldi” disse.

Accanto a me, il corpo di Akin si rilassò con quello che immaginai fosse un sospiro di sollievo. Avrei dovuto ascoltare e memorizzare la storia che stava raccontando Dotun. Avrei dovuto padroneggiare tutti i particolari, per poterla narrare a mia volta ai parenti che di certo in seguito mi avrebbero interrogata, con aria preoccupata ma ansiosi di poter trangugiare pettegolezzi e yam pestato agli incontri di famiglia. Ma ormai non mi importava più niente di cosa pensava la famiglia di Akin. Stavo già mollando, anche se ancora non lo sapevo. Perciò cullai Rotimi e giocherellai con la catenina, premendo il pollice sul bordo tagliente del crocifisso nascosto sotto la camicetta. Però ascoltai Akin, quando iniziò a parlare. Ero sbalordita dalla facilità con cui tappava i buchi nella storia di suo fratello. Era come se avessero provato quelle bugie mille volte.

“I soldi non erano miei. Me li ero fatti prestare in banca. E dopo tutto quello che ho fatto, dopo tutti i sacrifici che ho fatto per lui, Dotun li aveva persi al gioco?” disse Akin con una manata sul ginocchio.

“Fratello mi, non li ho giocati. È stato un affare finito male. Avrebbe dovuto fruttarmi più che abbastanza per ripagare il debito, ma troppe cose sono andate storte.” Parlando, Dotun non guardava nella nostra direzione. Teneva la testa china e sembrava fissare il motivo a quadri del linoleum blu che copriva il pavimento.

“Non era un affare; se tu non fossi così stupido avresti capito che erano truffatori. Non pensi che saremmo tutti ricchi se davvero esistesse un modo per raddoppiare i soldi?”

“I soldi sono cose da poco” disse il padre di Akin, toccando Dotun sulla spalla.

Akin e Dotun continuarono a intessere la trama delle loro bugie finché la storia non fu robusta come una fune di verità.

“Non dovete permettere ai soldi di mettersi in mezzo tra di voi. Avete lo stesso sangue nelle vene. Che esempio date ai vostri figli, se lasciate che i soldi vi dividano?” disse mio suocero quando i due tacquero.

Moomi fece un verso di scherno e scosse la testa, ma suo marito la ignorò, continuando a parlare.

“Dovete fare la pace, chiedervi scusa a vicenda.” Il vecchio si sporse in avanti sulla sedia e fece il gesto con le mani. “Unità – tutte le famiglie devono essere unite. Ve lo siete dimenticati? Un manico di scopa da solo non serve a niente, ma se lo infili in un mazzo di saggina, che cosa può fare?”

“Spazzare la casa finché è pulita” disse Akin.

“Allora avete capito quello che cerco di dirvi?” insisté mio suocero.

Dotun si toccò il lato della faccia, mezzo coperto dai punti. “Scusami, Fratello mi, non essere arrabbiato con me. Troverò il modo di restituirti i soldi.”

Akin diede un colpo di tosse. “È stato il diavolo a servirsi di me, Dotun. Quella collera, non so da dove mi sia venuta.”

“È finita, adesso.” Mio suocero si voltò a guardare Moomi. “Iya Akin, sei tranquilla adesso? Te l’avevo detto, che Yejide non c’entrava niente. Non può mettersi in mezzo a loro, per nessun motivo. Come hai fatto a pensare che potesse essere coinvolta in una cosa simile?”

“Io una cosa sola so” cominciò Moomi alzandosi e venendosi a mettere davanti a me e Akin. “Io una cosa sola so: tutto quello che si fa nel buio, di nascosto, un giorno sarà argomento di conversazione sulla piazza del mercato.”

Io abbassai gli occhi su Rotimi e vidi che aveva tirato fuori da sotto la camicetta il crocifisso, e ora lo succhiava. Glielo tolsi di bocca, attenta a non ferirle le gengive.

Moomi si chinò verso di me. “Non puoi nascondere la verità. Proprio come nessuno può nascondere i raggi del sole con le mani, non si può nascondere la verità.”

* * *

Ogni volta che andavo al negozio, la prima cosa che facevo era consegnare Rotimi a Iya Bolu. Era lei che se la legava sulla schiena quando piangeva e che la seguiva per il vialetto quando iniziò a gattonare. Fu lei ad accorgersi che stava mettendo il primo dente e a festeggiare il giorno in cui si era aggrappata alla zampa di uno sgabello per tirarsi in piedi.

“Perché ti comporti così?” disse Iya Bolu, prendendo in braccio Rotimi che aveva iniziato a piangere.

“Come mi comporto?” Risciacquai un mucchio di bigodini e li misi a scolare.

“Non l’hai neanche guardata quando ti ho detto che si era alzata in piedi. Non è affar tuo?” Intanto dava a Rotimi dei colpetti sulla schiena, e la cullava.

Io le passai il biberon in cui avevo raccolto il mio latte quella mattina. “Forse ha fame.”

“Insomma, donna. Te l’ho già detto, è troppo grande per avere solo il tuo latte. Perché ti comporti come se ti avessero chiuso le orecchie a forza di chiodi? Rotimi, mi dispiace o jare, accontentati del suo latte, non far caso a tua madre, accontentati per questa volta.”

Fui grata per il silenzio che scese quando Rotimi cominciò a succhiare la tettarella del biberon. Il sole era già al tramonto e a stare in piedi tutto il giorno mi era venuto male alle ginocchia e alle caviglie. Presi la borsa e contai gli spiccioli per le due ragazze che si erano fermate ad aiutarmi a ripulire. Quando entrambe, la borsa a tracolla, si furono avviate fuori, andai a sedermi sotto a un casco e lo abbassai. Iya Bolu mi stava ancora parlando, ma da sotto al casco sembrava che parlasse da un posto lontanissimo, in un’altra stanza, in un altro mondo. Le sue parole non sembravano tanto importanti finché io restavo sotto al casco, non erano cose a cui dovevo pensare o rispondere. Chiusi gli occhi per aumentare l’effetto della distanza da tutto, per aumentare la mia solitudine.

“Quando pensi di prepararle del pesce fresco e delle verdure schiacciate? O almeno comprare del latte artificiale?”

“Ho da fare” dissi io, accavallando le gambe per massaggiarmi il ginocchio.

“Iya Rotimi, Dio ti guarda. Hai troppo da fare per comprare il latte in polvere per tua figlia? Se c’è qualcosa che ti preoccupa, parliamone. Così te lo togli dalla mente e dopo puoi prenderti cura della tua bambina.”

“Ha finito di mangiare? Dobbiamo tornare a casa prima che sia buio del tutto.”

“Vieni a toglierle il biberon. Non hai neanche sentito quello che ti stavo dicendo.” Si rivolse alla bambina. “Non preoccuparti, Rotimi. Un giorno di questi te lo compro io, il latte artificiale. Non badare a quella, sono sicura che tra poco rientrerà in sé.”

Io feci uno sbadiglio.

Il giorno dopo Dotun si presentò al salone mentre facevo le trecce a una bambina. Gli dissi di sedersi e aspettare, perché non permettevo mai alle lavoranti di toccare i capelli di una bambina. Avevano il cuoio capelluto troppo tenero per farlo lavorare alle apprendiste. Quand’ebbi finito di intrecciarle i capelli, con molta calma le passai l’olio rosa sulle righe tra una treccina e l’altra e attesi che la bambina uscisse salterellando dal negozio prima di andarmi a sedere di fianco a Dotun.

“Vuoi qualcosa da bere? Coca o Fanta?”

“No” disse, e sospirò. “Sono venuto a salutare. Domani me ne vado da Ilesa. Vado a Lagos.”

“Ah, ok. Hai trovato lavoro a Lagos?”

“Qualcosa del genere.”

Non gli chiesi di spiegarsi meglio perché in verità non me ne fregava niente. Il massimo del mio interesse, dopo che Akin l’aveva ferito, era di assicurarmi che restasse vivo. Mi chiesi perché fosse venuto a salutarmi.

“Sentirò la tua mancanza” disse.

Solo allora guardai la sua faccia – la guardai davvero. La fasciatura attorno alla testa era stata tolta, rivelando un’ampia cicatrice sulla quale i segni lustri dei punti non avrebbero mai permesso ai capelli di ricrescere. Sembrava dimagrito ancora di più e sulla faccia aveva un sorriso speranzoso. Forse si aspettava che gli dicessi che anch’io avrei sentito la sua mancanza.

“Fai buon viaggio. Saluta tua moglie e i bambini da parte mia” gli dissi.

Lui distolse lo sguardo e si toccò la cicatrice sulla testa. “Sono andato all’ufficio di Akin, stamattina. Ha detto alla segretaria di mandarmi via.”

Fratello Akin” lo corressi io. “Non hai diritto di chiamarlo solo ‘Akin’, non è un tuo amico.”

“Aspetta un attimo, Yejide. Con me?” Si batté un dito sul petto. “Tu sei arrabbiata con me?”

“Abbassa la voce.”

Scosse la testa. “Non è colpa mia, lo sai, Yejide. È stata tutta un’idea sua.”

“Dotun, tu e tuo fratello avete complottato contro di me.”

“Senti, Yejide, credevo lo sapessi.” Mi mise una mano sul ginocchio. “Ha detto che ti avrebbe spiegato tutto.”

“Adesso devi andare, Dotun. Lo vedi che sto lavorando. Non ho tempo per questa storia.”

“Sentirò la tua mancanza.” Stavolta lo disse a bassa voce, dando l’impressione che quelle parole dovessero comunicare qualcosa che non poteva dire.

Gli spinsi via la mano dal ginocchio e mi alzai. “Fai buon viaggio, domani.”

Mi allontanai da lui per andare da una signora anziana che si aggirava tra le ragazze ma non si era ancora messa a sedere.

“Buonasera, Ma” le dissi. “Nessuno si sta occupando di te?”

“Ah, massì, mia cara. Ma io ho detto che ti aspettavo. Non vorrei farmi rovinare quei quattro peli che mi restano.”

Sorrisi e la guidai verso la sedia. Con la coda dell’occhio vidi Dotun fermarsi sulla porta per salutare Iya Bolu e Rotimi, prima di uscire dal salone. Aspettai che la donna davanti a me si togliesse la sciarpa, e mi chiesi che cosa avesse voluto dire Dotun ripetendo quelle parole. Avrebbe sentito la mia mancanza? I capelli della donna non erano affatto radi, anzi erano lunghi e folti, solo striati di bianco sul davanti. Mi ricordai chi era mentre le passavo le mani tra i capelli. Era una preside in pensione che veniva a farsi fare le trecce una volta al mese, e insisteva sempre perché non usassi altro che il burro di karité che si portava da casa, in un contenitore di plastica.

“Te l’ho detto?” Iya Bolu era venuta a mettersi accanto a me. “Ti ho detto del matrimonio di mia nipote?”

“No” dissi io pettinando la preside in pensione.

“Sarà l’anno prossimo, la figlia maggiore di mio fratello si sposa. Ma non è stato ieri che l’hanno messa al mondo? Na wah.” Vedevo nello specchio il riflesso di Iya Bolu. Aveva in braccio Rotimi e le sorrideva. “Prima che tu te ne accorga, balleremo anche al matrimonio di Rotimi.”

Ero sicura che avesse detto la stessa cosa anche per Olamide e per Sesan e io di certo non guardavo tanto in là da arrivare al matrimonio di Rotimi. La speranza era un lusso che non potevo più permettermi.

“Sempre così sembra, i bambini crescono talmente in fretta” disse sorridendo la preside in pensione. “La mia più piccola si è sposata l’anno scorso. Sapete, mi ricordo benissimo quando ho saputo di essere incinta di lei, e adesso presto sarà mamma.”

“Congratulazioni, signora” dissi io, prendendo un pettine di legno.

“Grazie.”

“Allora, quand’è questo matrimonio?” chiesi a Iya Bolu.

“Dovrebbe essere a giugno, ma non hanno ancora fissato la data.”

“Spero che le elezioni non disturbino i preparativi” disse la mia cliente chinando la testa in modo che io potessi dividerle i capelli in quattro parti uguali.

“È per quello che ancora aspettano a stabilire il giorno esatto. Mio fratello vuole essere sicuro della data delle elezioni.”

Io sbuffai. “Credi davvero che ci saranno le elezioni? Con questo Babangida, che ha già rinviato non so quante volte?”

“Transizione” disse la mia cliente. “Si chiama transizione. La transizione è un processo. Non è un singolo evento. Non è il caso di fare i cinici. Ci sono stati degli intoppi, ma penso sia del tutto comprensibile.”

“Per me, quello non sta andando da nessuna parte. Questa storia delle elezioni è un’altra fregatura. Ci stanno solo imbrogliando, ’sti militari.”

“Stavolta se ne va, te lo dico io. E ricordati che te l’avevo detto. Se non altro adesso i governatori sono scelti tra i civili, entro dicembre entreranno in carica anche i legislatori. È una transizione graduale, un passo alla volta, mia cara. È l’unico modo di garantire un cambiamento duraturo.”

Fermai con il pettine di legno metà della chioma e iniziai a intrecciare l’altra metà. Non avevo nessuna fiducia nella cosiddetta transizione graduale. La mia cliente aveva chiaramente degli interessi in tutto quel processo. Snocciolò date e statistiche come chi passa intere giornate a leggere i quotidiani. Annuii mentre spiegava perché il governo militare federale aveva tutto il diritto di fondare e finanziare i due partiti politici esistenti nel paese. Trovò anche il modo di giustificare il fatto che il governo avesse scritto lo statuto di entrambi, e disegnato i loro simboli.

“Ascolta” disse, “non sarà la situazione ottimale, ma una volta che passeremo alla democrazia le cose andranno diversamente. Prima avviamo il paese alla democrazia totale. E dopo potremo cambiare tutto il resto.”

Lasciai perdere, perché non me ne importava granché. Per quanto mi riguardava il 1993 sarebbe iniziato e finito, e alla fine avremmo saputo se il governo era seriamente deciso a mantenere le promesse. Non avevo la minima intenzione di iscrivermi alle liste elettorali.

“Entro la fine di quest’anno il governo comunicherà la data delle elezioni e mio fratello stabilirà il giorno definitivo. E tu, Iya Rotimi, tu devi venire con me a Bauchi” disse Iya Bolu. “Qualsiasi giorno sia il matrimonio, tu devi venire con me.”

“Bauchi, ke? È lì che abita tuo fratello? È un viaggio lungo.”

“Per questo te lo sto dicendo ora. Comincia a prepararti mentalmente.”

“Ok, ci penserò” dissi io. “Ma ancora non abbiamo stabilito di andarci, Iya Bolu. Comunque lo terrò a mente.”

“Sai, se mi accompagni potresti comprare dei gioielli a Bauchi, da vendere qui. Ti ricordi quella mia cliente che chiedeva se vendevi gioielli? Ah, adesso mi guardi, abi? Lo so che questo ti attira parecchio. Parlo di affari e ti si drizzano le orecchie. La moglie di mio fratello lavora nel settore. Può accompagnarti in tutti i posti dove puoi fare acquisti, e chissà, magari si potrebbe vendere qui l’oro di Bauchi.”

“È un’idea interessante” dissi io spalmando il burro di karité sul cuoio capelluto della mia cliente.