32 Dal 1992
La prima volta che Dotun ha fatto sesso con mia moglie, io sono rimasto davanti alla porta della camera da letto, a piangere. Era sabato. Funmi era andata a trovare dei parenti o qualcosa del genere. Io sarei dovuto essere al circolo sportivo. Avevo creduto di essere in grado di giocare a tennis o bere una birra mentre mio fratello cercava di mettere incinta Yejide. Avevo programmato tutto in modo che al mio rientro Dotun sarebbe stato fuori dalla nostra camera, Yejide si sarebbe rivestita e io avrei potuto comportarmi come se non sapessi che cos’era successo.
Ma a metà strada, andando al circolo, girai la macchina e tornai a casa. Nella speranza di trovarli in salotto a guardare un programma alla TV, seduti ai due lati opposti della stanza. Pensai che forse Yejide non era così vulnerabile come avevo immaginato, Dotun non così convincente come avevo creduto. Forse avrei avuto la possibilità di dire a mio fratello che avevo cambiato idea. Non ero più sicuro del mio piano, il pensiero delle sue mani su mia moglie adesso mi era intollerabile.
In salotto non c’era nessuno.
Sarei potuto tornare indietro quando mi fermai davanti alla porta della nostra camera, quando fu ovvio che era troppo tardi per fermare il processo che avevo avviato io stesso. Sarei dovuto scendere di sotto, uscire di nuovo. Ma scoprii che non potevo muovermi. Era come se il mio corpo a un tratto fosse senz’ossa, sul punto di crollare. Mi attaccai alla maniglia d’acciaio con tutt’e due le mani, schiacciando la fronte contro lo stipite. Le lacrime cominciarono a colare lungo le guance, mentre immaginavo quello che succedeva dietro la porta.
Fino a quel giorno, le lacrime che avevo versato da adulto erano state tutte per via di Yejide. La prima volta fu quando mi chiese se io la ritenevo responsabile della morte di sua madre. Sono sicura che mia madre sarebbe ancora viva, se non mi avesse mai concepita, aveva detto arrotolandosi una treccia attorno all’indice. Non sapevo che cosa dire, ma il mio corpo aveva risposto alla disperazione assoluta nei suoi occhi con il bruciore delle lacrime nei miei. Lei batté le palpebre e la disperazione scomparve, così. Poi sorrise e mi chiese di dimenticare quello che aveva detto. Ovvio che non è colpa mia; non sono stata io a creare la mia testa, disse lasciando andare la treccia. Cambiò discorso mentre io mi strofinavo gli occhi con il dorso delle mani. Lei non parve notare le mie lacrime e io mi sentii come se avessi appena assistito a una discussione che lei faceva da sola con se stessa. Mi resi conto che non mi aveva guardato negli occhi nella speranza che le dessi delle risposte – aveva guardato verso di me solo perché io, casualmente, ero lì.
Due settimane dopo, suo padre era morto. Presso la tomba, rimasi scioccato vedendo le sue matrigne che cambiavano posto per assicurarsi che Yejide non avesse nessun membro della famiglia accanto. Si spostavano tutte da un lato all’altro della fossa, in modo che io e Yejide restassimo soli come reietti. Quando le diedi un colpetto con il gomito, per chiederle di avvicinarci alle sue sorelle e matrigne, lei sorrise e mi disse che si erano spostate a causa sua, e se fossimo andati dall’altra parte non avrebbero fatto altro che spostarsi di nuovo.
Yejide mi aveva già accennato prima al fatto che le sue matrigne si divertivano a escluderla. Ma fino al giorno del funerale non mi ero fermato a pensare che cosa avesse significato per lei crescere in una famiglia in cui il suo solo alleato era suo padre. Suo padre, l’uomo che più di una volta le aveva detto che l’amore della sua vita sarebbe vissuto per sempre se solo Yejide avesse avuto la testa più piccola alla nascita, tanto piccola che sua madre potesse spingerla nel mondo senza perdere troppo sangue. Le lacrime che riuscii a trattenere al funerale non erano per il padre di Yejide – che avevo incontrato una sola volta prima che morisse. Le lacrime mi offuscavano la vista per via della bambina solitaria che era diventata la donna a cui tenevo la mano mentre lei si chinava a buttare una manciata di terra sulla bara del padre.
Molto prima di parlarne con lui, già sapevo che Dotun avrebbe accettato di fare sesso con mia moglie. Mi ero preparato in anticipo, dando per scontato che, quando fosse venuto il momento, mi sarebbe rimasta una sola emozione: la compassione per Yejide. Davanti a mio fratello, lei cercava di recitare la parte della brava cognata, ma io sapevo che lo disprezzava e che considerava sua moglie una povera disgraziata per averlo sposato. Faceva fatica, si era lasciata sfuggire una volta, a credere che fossimo fratelli. Non spiegò cosa intendeva, ma io sapevo che cosa cercava di dire: pensava che io fossi Jekyll e lui Hyde. Io avevo creduto di provare pena per lei, per il suo senso di colpa; mi dispiaceva che dovesse trovare conforto con un uomo che disprezzava. Non immaginavo che il tocco di Dotun potesse mai darle piacere. Ma quel sabato, invece di provare emozioni per mia moglie, piansi perché mi sentivo umiliato, disperato, arrabbiato. Le mie lacrime non avevano niente a che fare con Yejide. Non me ne fregava niente, di come si sentiva quel giorno. La rabbia mi attanagliava la gola come un boa constrictor, mi faceva lacrimare gli occhi, a ogni respiro mi scatenava un dolore acuto nel petto.
Le lacrime erano già sparite quando Dotun uscì dalla porta: a torso nudo, perle di sudore attorno al collo come una collana che si scioglie. Mi era rimasta solo quella rabbia che mi strozzava.
“È in bagno” disse lui chiudendosi la porta alle spalle. “Hai detto che andavi al circolo. Fratello mi, ti senti bene?”
Allora mi voltai, mi precipitai giù per le scale, partii in macchina prima che Yejide potesse rendersi conto che ero tornato a casa. Passai il resto della giornata al volante, in giro per la città, e tornai a casa che era quasi mezzanotte.
Yejide era ancora sveglia quando entrai in camera. Ricordo di aver pensato, quando mi venne incontro e mi abbracciò, che per la prima volta desideravo farle del male, farle provare dolore. Quando le accarezzai i capelli mi tremavano le mani. Ho sempre pensato che non la meritavo, e quel giorno aprendo la finestra per far entrare un po’ d’aria fresca, sapevo che non sarei mai diventato il genere di uomo capace di meritarla.
La sera dopo, Dotun tornò di sopra, da Yejide, come programmato. Io andai all’Ijesa Sports Club, cercai di mandar giù una zuppa piccante di pesce gatto. Al ritorno trovai Yejide rannicchiata nel letto, borbottava qualcosa che non riuscii a capire. Mi tolsi camicia e canottiera e la strinsi mentre lei piangeva e diceva di essere stata così sicura di essere incinta, quella prima volta. L’ho sentito calciare, disse. E anche se io non riuscivo a pensare ad altro, mentre le baciavo la faccia, che a Dotun in quello stesso letto con lei poche ore prima, riuscii lo stesso a rassicurarla, a dirle che era solo questione di tempo prima che riuscisse a concepire davvero.
Non ci volle altro per avere Olamide – un solo fine settimana. Il progetto prevedeva quattro figli: due maschi e due femmine. Un anno sì e uno no, Dotun avrebbe trascorso un weekend con noi, avrebbe messo incinta mia moglie e sarebbe tornato a Lagos. Ho sempre pensato di essere io l’istigatore, quello che decideva quando era il momento per loro di chiudersi in camera e fare figli. Dopo il concepimento di Rotimi, decisi che sarebbe stata una crudeltà mettere al mondo altri bambini, quando c’era la possibilità che affrontassero le stesse sofferenze di Sesan. Dissi a Dotun che l’accordo era finito. E non avevo mai pensato che un giorno sarei rientrato a casa e l’avrei trovato a scoparsi mia moglie senza permesso.
Quando li sorpresi, la rabbia che mi era rimasta attorcigliata attorno al collo fin da quel primo sabato si mosse, accentuando la stretta. Incrociai lo sguardo di Yejide e provai vergogna. Gli occhi che un tempo mi guardavano come se io fossi la sola cosa che aveva al mondo adesso mi fissavano con disprezzo. Mi guardava come se io fossi un insetto che le sarebbe piaciuto schiacciare. Non fece un gesto per fermare Dotun, girò soltanto la testa. Mi resi conto allora che, mentre io pensavo che io e mio fratello ci saremmo scambiati di posto una volta ogni tanto, la verità era che fin da quel primo sabato lui aveva occupato una posizione a cui io non mi ero mai neanche avvicinato.
Aspettai che Dotun scivolasse giù da lei e mi vedesse. Balzò giù dal letto. Io mi tolsi la giacca, con calma, la ripiegai, la posai sul letto. Non avevo armi a portata di mano, neanche un pestello o un coltello affilato pronto da afferrare. Marciai su Dotun armato delle sole cose che davvero mi servissero: la mia collera bruciante, i pugni stretti.
“Fratello Akin... aspetta, aspetta, Fratello Akin... non lasciare che il diavolo si serva di te, Egbon mi... ti prego, non essere... aspetta... lo strumento del diavolo...” Dotun urlava mentre si avvolgeva addosso un lenzuolo.
Scoppiai a ridere e quel suono uscì artigliandomi, grattandomi la gola. “Strumento del diavolo? Io? Razza di bastardo.” Lo colpii sulla bocca, sul naso, sugli occhi. Sentii la pelle rompersi, le ossa fratturarsi, vidi il sangue che gli colava dal naso. Ogni volta che il mio pugno atterrava sulla sua faccia, la mia testa pulsava con più intensità. Lui continuava a indietreggiare, finché non inciampò nel lenzuolo che aveva usato per coprirsi. Cadde, battendo la testa contro il comodino di Yejide, e rovesciò la lampada. Atterrò sulla schiena e il lenzuolo si aprì scoprendogli il corpo.
Mi inginocchiai sul torace nudo e lo presi a pugni – al collo, al petto, alle mani con cui cercava di schivarmi. Avevo le mani insanguinate, sangue suo, sangue mio. Il sangue sgocciolò sul tappeto, allargandosi con una macchia a carta geografica che non si sarebbe più tolta.
“Mi fidavo di te!” gridai alzandomi da lui per prenderlo a calci sul petto finché sotto il capezzolo la pelle si squarciò sanguinando. Lui tossì altro sangue sul tappeto. Sangue e un dente; il dente spiccava nella piccola chiazza rossa. Cercò di dire qualcosa, poi tossì e sputò altro sangue.
Mi accecava di rabbia il pene moscio, ancora umido, tra le sue gambe. Pensai a dov’era stato poco prima quel pene, e una vita intera di rabbia mi fece ribollire. Le immagini di lui con Yejide, che da anni passavo ore e ore a cercare di cancellare dalla mia mente, immagini che mi trascinavano sprofondandomi negli incubi ogni volta che la mia testa toccava il cuscino, si scatenarono rompendo la gabbia di negazione che avevo costruito per loro.
Mi inginocchiai tra le gambe aperte di Dotun, gli afferrai il pene moscio e glielo torsi. Le sue urla mi avrebbero assordato, se le avessi sentite, ma il suono della mia testa che scoppiava escluse tutto il resto.
Mani morbide sulle mie spalle, che mi tiravano indietro. Continuai a torcere e torcere.
“Per amor di Dio, Akin. Non ammazzarlo, ti prego.” Yejide era in ginocchio accanto a me, ancora nuda.
Tolsi le mani di dosso a Dotun. “Zitta, puttana.”
“Io? Akin, io... una puttana? Un cane ti mangerà la bocca, per aver detto questo.” Il tono era arrabbiato, non implorante.
Presi la lampada rovesciata e strattonai il cordone strappandolo dalla presa.
“Cosa fai?” La voce di Yejide era stridula di panico. “Akin, Akin?”
Sollevai la lampada con tutt’e due le mani.
Yejide mi avvolse le braccia attorno al petto, cercando di tirarmi via da lui. “Akin? Akinyele, ti supplico in nome di Dio, non lasciare che il diavolo si serva di te.”
Dotun cercò di alzarsi, coprendosi gli occhi con le mani. Lo colpii al mento con la lampada, ributtandolo a terra. Yejide disse qualcosa, ma io sentivo solo il pulsare nella testa, il rumore del vetro che si rompeva. Gli spaccai il paralume sulla testa, frantumando i pannelli di vetro e le lampadine a basso voltaggio finché non si mosse più.
Allora mi alzai, stringendomi al petto quel che restava della lampada.
“Hai ammazzato tuo fratello” sussurrò Yejide dietro di me. “Hai ucciso il figlio della tua stessa madre.”
E io sperai che avesse ragione.